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lunedì 3 ottobre 2016

Franco Sacchetti & Camerino



Franco Sacchetti & Camerino



Nella letteratura italiana del Trecento l’opera che spicca con maggior rilievo è il Decameron di Boccaccio. L’opera
ispirò alcuni narratori, i quali ne imitarono qualche carattere esteriore come la cornice e i temi.
Fra costoro emerge il fiorentino Franco Sacchetti e il suo Trecentonovelle. In questo libro (giunto a noi spezzettato)
si nota lo stile fresco e vivace, che predili­ge il tono medio della garbata conversazione fra amici, capace di rendere
con immedia­tezza una battuta di spirito, la descrizio­ne di un fatto curioso o il racconto di uno scherzo ben riuscito.
Franco Sacchetti era nato a Ragusa di Dalma­zia nel 1332, figlio di un mercante fiorentino,
da principio si dedicò  al commercio e in seguito alla vita pubblica, ricoprendo impor­tanti incarichi per il Comune di
di Firenze e in varie città della Toscana e della Romagna. Fu anche podestà di Macerata per un certo periodo.
La sua formazione si alimentò, più che di studi appro­fonditi, della conoscenza del mondo e del cuore umano,
maturata nel contatto con ambienti diversi. Spirò a San Miniato nel 1400.
Opere in prosa:
Trecentonovelle: composto probabil­mente fra il 1385 e 1392, è una raccolta di novelle (ce ne sono pervenu­te solo 223,
non tutte integre) prive di cornice e di collegamenti interni, concluse ciascuna da una breve «mo­rale». Gli argomenti
sono tratti dalla vita quotidiana; prevalgono i perso­naggi dei celi borghesi e popolari. La maggior parte delle novelle sono
brevi e hanno l’andamento dell’anedotto. Lo stile è semplice e immediato, privo di pretese letterarie.
Sposizioni dei Vangeli: commenti a passi dei Vangeli applicati ai doveri della vita quotidiana.
Opere in poesia:
La battaglia delle belle donne di Firenze con le vecchie, poemetto giovanile in ottave, di carattere encomiastico.
Libro delle rime, raccolta delle poe­sie composte nel corso della vita del poeta. Spiccano fra esse le rime per musica, fra
Cui celebre la ballata O vaghe montanine pastorelle.
Fonte: C. Freudiani, F. Cardini LETTERATURA ITALIANA Dalle origini al Quattrocento. Le Monnier/Mondadori - 2006





NOVELLA VII

Messer Ridolfo da Camerino, al tempo che la Chiesa avea assediato Forlí, fa una nuova e notabile assoluzione sopra una questione che aveano valentri uomeni d'una insegna.

Messer Ridolfo da Camerino, savissimo signore, con poche parole e notabil judicio, contentò una brigata di valentri uomeni di quello che domandorono sopra una questione, sí come il Basso d'un nuovo uccello contentasse il marchese.
Al tempo che la Chiesa, e messer Egidio di Spagna cardinale per quella, avea per assedio costretta la città di Forlí per gran dimora; e di quella essendo signore messer Francesco Ardelaffi, notabile signore, molti signori notabili e valentri uomeni a petizione della Chiesa erano concorsi al detto assedio; ed essendo in una parte raccolti con una questione quasi quelli che erano i maggiori del campo, e tra loro essendo messer Unghero da Sassoferrato, il quale avea l'insegna del Crocifisso, la quale è quella insegna che è piú degna che alcun'altra; ed essendo gran contesa tra loro, però che quello che avea l'insegna dicea aver caro quel beneficio fiorini duemila; altri diceano: io vorrei innanzi fiorini duecento; e tali diceano fiorini cento, e tali fiorini trecento, e chi dicea di meno e chi di piú; passando per quel luogo messer Ridolfo da Camerino, che andava provveggendo il campo, s'accostò a loro domandando di quello che contendeano; di che per loro gli fu detto la cagione, pregandolo ancora che la loro questione diffinisse, e quello che si dovea prezzare la detta insegna.
Messer Ridolfo, avendo tosto considerata la questione, fece la risposta dicendo che chi tenea che la detta insegna si dovea prezzare e avere cara duecento, o trecento, o mille, o duemila, non potea avere ragione; però che quando il nostro Signore Jesú Cristo fu in questa vita, e di carne e d'ossa, fu venduto trenta danari, e ora ch'egli è dipinto nella pezza e morto e in croce, che si possa o debba ragionevolmente stimar piú, è cosa vana, e per la ragione allegata non potere justamente seguire. Udito che ebbono tutti questa sentenzia, con le risa s'accordorono a por fine alla questione, e dissono tutti, eccetto messer Unghero, messer Ridolfo avere ben detto e giudicato.
Notabile detto e strano fu quello di messer Ridolfo, e come che paresse ostico, raccontando come disse del nostro Signore, a ragione il judicio fu giusto; e mostrò, sanza dirlo, che son molti che fanno maggiore stima delle viste che de' fatti. E quanti ne sono già stati che hanno procacciato d'essere Gonfalonieri e Capitani, e d'avere l'insegna e reale e dell'altre, solo per vanagloria, ma dell'opere non si sono curati! E di questi apparenti ne sono stati, e tutto il dí sono piú che degli operanti. E non pur nelle cose dell'arme ma eziandio di quelli che in teologia si fanno maestrare, non per altro, se non per essere detto Maestro; Dottore di leggi, per essere chiamato Dottore; e cosí in filosofia e medicina, e di tutte l'altre cose: e Dio il sa quello che li piú di loro sanno!
  
Camerino – Sottocorte del Palazzo Ducale

NOVELLA XXXVIII


Messer Ridolfo da Camerino con una bella parola confonde il dire de' Brettoni suoi nimici, facendosi beffe di lui, perché fuor di Bologna non uscía.

Le notabil parole e i brevi detti di messer Ridolfo da Camerino la passata novella mi reduce a memoria; de' quali ne dirò alcuni qui dappiè. Però che io scrittore, trovandomi in Bologna buon tempo con lui, quando era generale capitano di guerra de' Fiorentini, e di tutta l'altra lega per la guerra della Chiesa, quando il cardinale di Genèva, che poi ebbe nome papa Clemente in Vignone, era venuto con li Brettoni alle porte della detta terra, e uno nipote del detto messer Ridolfo nato di sua sorella, chiamato Gentile da Spuleto, andando per guadagnare, come fanno gli uomeni d'arme, facendo scaramucce coi detti Brettoni, fu preso da loro. E sapiendo gli Brettoni ch'egli era nipote di messer Ridolfo, con disprezzamento gli diceano:
-        Noi aspettiamo il capitano vostro: perché non esc'elli fuori? noi sentiamo che si sta pur nel letto: venga fuori, venga.
-        Gentile rispose ch'egli aspettava gente, e che ben gli andrebbe a vedere a luogo e a tempo. Puosonli ducati cinquanta di taglia, e lasciaronlo alla fede che gli andasse a procacciare. Tornato in Bologna, e andando a messer Ridolfo, disse messer Ridolfo:
- Che dicono li Brettoni?
-        - Dicono: "Che fa questo vostro capitano, che si sta pur dentro? Che non esc'egli fuori? noi l'aspettiamo".
-        Disse messer Ridolfo:
-        Come rispondesti?
-        Disse Gentile:
-        - Risposi che tosto usciresti fuori, però che voi aspettavate gente.
Disse messer Ridolfo:
- Mal dicesti, che Dio mal ti faccia.
E Gentile disse:
- Perché, messere?
Disse messer Ridolfo:
- Se' per tornarci?
Disse Gentile:
- Signor sí, però che ho portare loro cinquanta ducati per la taglia che m'hanno posta.
Dice messer Ridolfo:
- Se ti dicono piú: "Perché non esce fuori messer Ridolfo?" e tu rispondi: "Perché voi non c'entriate dentro"; e d'altro non t'impacciare.
Or non fu bella parola questa a uno capitano di guerra? per certo bella e notabile, come se l'avesse detta Scipione o Annibale: e troppo maggiore prova fu a' nimici questa riposta (se Gentile la disse loro) di mostrare loro chi messer Ridolfo era, e da quanto, che se due volte gli avessi sconfitti in battaglia campale. Altri poco sperti e pratichi nella maestria dell'arme si sarebbono andati incastagnando di parole, e quante piú ne avessono dette, da meno serebbono stati reputati.
 



NOVELLA XXXIX


Agnolino Bottoni da Siena manda un cane da porci a messer Ridolfo da Camerino, ed egli lo rimanda in dietro con parole al detto Agnolino con dilettevole sustanza.

Molto fu da ridere quest'altro motto che segue del detto messer Ridolfo. Francesco, signore di Matelica, ebbe un tempo guerra col detto messer Ridolfo; e morendo il detto Francesco, rimasono suoi figliuoli, li quali, per istare sicuri e per difendersi da lui, uno Foscherello da Matelica, che era gran caporale in una compagna d'uno che avea nome Boldrino, facea sua camera in Matelica per provvisione ch'avea Boldrino a tutta sua brigata da' figliuoli di Francesco. E come s'usa per le guerre, questo Foscherello, come cordiale nimico di messer Ridolfo, fece una cavalcata con gente d'arme sul terreno di messer Ridolfo, per la quale menoe e predoe ottocento porci, e condusseli a Matelica.
Stando per alcuni dí, non potendo messer Ridolfo vendicarsi sopra i nimici, sopravvenne uno famiglio d'Agnolino Bottoni da Siena con uno bellissimo cane alano a mano, e andato dinanzi a messer Ridolfo, e fatta la reverenza, disse che Agnolino Bottoni gli presentava quel cane. Messer Ridolfo, guardando il cane e 'l famiglio, domandò da quello che quel cane era buono. Il famiglio gli rispose:
-        Da porci, signor mio.
E messer Ridolfo disse:
- E come ne piglia?
Il famiglio disse:
- Quando uno, e quando due per dí, secondo come l'uomo gli truova.
Disse allora messer Ridolfo:
- Amico mio, questo non è cane da me, rimenalo ad Agnolino, e di' che io l'ho per ricevuto, ma che questo cane non è per li fatti mia, se non piglia piú che un porco per volta. Se gli ne venisse alle mani uno di quelli di Foscherello da Matelica, che ne piglia ottocento per volta, priegalo che me lo mandi.

Il famiglio, udendo costui, e veggendo che dono non ricevea, si partí quasi scornato, rapportando il cane e la 'mbasciata ad Agnolino, il quale, intendendo il fatto disse che messer Ridolfo dicea molto bene, dappoi che elli avea aúta sí poca considerazione che, essendoli stati tolti in quelli dí ottocento porci, gli mandava un cane che forse non avvenia del mese una volta che ne pigliasse uno.
Quanto fu piacevole il detto di messer Ridolfo! ché rade volte interverrebbe che, essendo presentato uno dono a uno, e quelli non lo volessi e rimandassilo in drieto, che non ne portasse cruccio o sdegno quelli che l'ha mandato. E 'l dire suo fu sí piacevole che non che Agnolino ne portasse, ma e' confessò aver fallato, solo per la perdita delli ottocento porci di messer Ridolfo.

NOVELLA XL

Il detto messer Ridolfo a un suo nipote, tornato da Bologna da apparare ragione, gli prova che ha perduto il tempo.

E questa che segue non fu meno bella novella, né meno bel detto, il quale disse a un suo nipote, il quale era stato a Bologna ad apparar legge ben dieci anni; e tornando a Camerino, essendo diventato valentrissimo legista, andò a vicitare messer Ridolfo. Fatta la vicitazione, disse messer Ridolfo:
- E che ci hai fatto a Bologna?
Quelli rispose:
- Signor mio, ho apparato ragione.
E messer Ridolfo disse:
- Mal ci hai speso il tempo tuo.
Rispose il giovene, che gli parve il detto molto strano:
- Perché, signor mio?
E messer Ridolfo disse:
- Perché ci dovei apparare la forza, che valea l'un due.
Il giovene cominciò a sorridere, e pensando e ripensando egli e gli altri che l'udirono, viddono esser vero ciò che messer Ridolfo avea detto. E io scrittore, essendo con certi scolari che udiano da messer Agnolo da Perogia, dissi che si perdeano il tempo a studiare in quello che faceano. Risposono:
- Perché?
E io segui':
- Che apparate voi?
Dissono:
- Appariamo ragione.
E io dissi:
- O che ne farete, s'ella non s'usa?

Sí che per certo ella ci ha poco corso; e abbia ragione chi vuole, che se un poco di forza piú è nell'altra parte, la ragione non v'ha a far nulla. E però si vede oggi, che sopra poveri e impotenti tosto si dà iudizio e corporale e pecuniale; contra i ricchi e potenti rade volte, perché tristo chi poco ci puote.
 

NOVELLA XC


Un calzolaio da San Ginegio tratta di tòrre la terra a messer Ridolfo da Camerino, al quale essendo venuto agli orecchi, con belle parole lo fa ricredente del suo errore, e perdonagli.

Ancora mi conviene tornare a una delle novelle di messer Ridolfo da Camerino, la quale sta in questa forma. Uno calzolaio della terra di San Ginegio, la qual tenea il detto messer Ridolfo, fu una volta sí presuntuoso che cominciò a parlare e a trattare per via di stato contro al detto messer Ridolfo; di che gli venne agli orecchi. Essendo il detto messer Ridolfo nella detta terra, e saputo che ebbe il convenente del fatto, non corse a furia, come molti stolti fanno; e non volle che queste cose paressino, se non come da calzolaio. E ancora non volendo mostrare viltà, ma piú tosto magnanimità, mostrò d'andare a sollazzo per la terra; e andando dove questo calzolaio stava con la sua stazzone, e messer Ridolfo si ferma e dice:

-        Perché fa' tu quest'arte? - E quelli dice: - Signor mio, per poter vivere - . E messer Ridolfo dice: - Non ci puoi vivere con essa, non è tua arte e non è tuo mestiero, e non la sai fare -; e toglie le forme e falle portar via.

Il calzolaio poté assai dire, che non si trovasse senza le forme; e non sapendo che si fare, e non potendo pensare quello che questo volesse dire, se ne va piú volte a messer Ridolfo a richiedere le sue forme. Alla per fine v'andò una volta, e trovò messer Ridolfo con una brigata di valentri uomini; e avvisandosi, se chiedesse le forme dinanzi a tanti, gli verrebbe meglio fatto di riaverle, considerando il detto messer Ridolfo per vergogna piú tosto gliene rendesse; e fattosi innanzi, in presenza di tutti dice:
-        Signor mio, io vi priego mi rendiate le mia forme, ché io non posso lavorare, né far l'arte mia.
E messer Ridolfo guarda costui, e dice:
- Io ci t'ho detto, che non è l'arte tua di cucire ciabatte e fare calzari.
E 'l calzolaio disse:
- O se questa non è l'arte mia, che sempre ce l'ho fatta qual è la mia?
Disse messer Ridolfo:
- Ben ci hai domandato; l'arte tua è di stare per questo bello palazzo, e darti alle cose piú alte; e io voglio tener quelle forme, per imprender di cucire, e di fare le scarpe e' calzari, se mi bisognassi.

 Questo calzolaio, continuando le sue domande, e messer Ridolfo facendo risposte strane e chiuse, e gli omeni che qui erano pareano come smemorati a udire il calzolaio domandare le forme e le risposte che 'l signor facea. Stati per alquanto spazio, e messer Ridolfo dice:
   - Questo ciabattino che voi vedete qui, ha trattato di tormi la signoria; e io, sappiendo ciò, e veggendo che l'animo suo de' esser grandissimo, e non da tirare li cuoi con li denti, ma piú tosto da esser signore in questi palazzi, gli ho tolto le forme, però che, se cerca questo mestiero e parli che questo debba essere il suo, di quello non ha a fare alcuna cosa, però che non è suo mestiere, ma è molto vile e basso al suo grand'animo.

Questo calzolaio si scusava, e cominciorongli a tremare li pippioni: e messer Ridolfo dice:
- Nella tua mal'ora, non ti pure scusare, ch'io so ogni cosa, e voglioti condannare in presenza di costoro -; e disse a uno che andasse per le forme.
Quando il calzolaio udí questo, s'avvisò che con le dette forme il dovesse fare uccidere. Giunte le forme, dice messer Ridolfo:
- Dappoi che ci hai detto innanzi a costoro che questo è il tuo mestiero, e io ti voglio credere, e rendoti le forme; ma lascia stare il mio mestiero che non è da te, né da tuo pari, e torna a tagliare e a cucire le scarpe nella tua mal'ora; e va' e fammi lo peggio che puoi.
Al calzolaio cominciò a tornare lo spirito; e disse:
- Signor mio, - inginocchiandosi, - io prego Dio che vi dia lunga e buona vita; e della grazia che mi avete fatta vi dia quel merito che alla vostra virtú e alla vostra misericordia si richiede. Io per me non sono da tanto che mai ve lo potesse meritare; ma bene siate certo d'una cosa che l'animo mio, e ciò che io posso, è tutto dato a voi.

E cosí si partí in quell'ora, che mai non pensò, né in detto né in fatto, se non ad esaltazione del suo signore. E 'l detto messer Ridolfo per questo ne divenne al suo populo sí amato che tutti parve che... con un fervente amore ad ogni suo bisogno.
Oh quanto egli è da commendare uno signore quando per uno vile uomo gli è fatto simile offensa, che egli se ne curi come curò costui, mostrando la sua magnanimità e l'animo liberale, il quale il fa grande e montare fino alle stelle, per aver annullate e fatto poca stima di quelle cose le quali molti vili fanno maggiori, temendo che ogni mosca non gli offenda.
 

Rocca dei Varano ( Sfercia )

NOVELLA CIV


Messer Ridolfo da Camerino, per avere diletto d'alcuno, dice a Bologna una novella vera, che par miracolo; e per gli altri gli è risposto con altre due novelle, piú vere e incredibili che la sua.

Essendo a Bologna messer Ridolfo da Camerino, generale capitano della Lega, che era col Comune di Firenze contro a' Pastori della Chiesa, erano l'ambasciadori del Comune di Firenze, tra' quali fui io scrittore, in quelli tempi che 'l cardinale di Genèva passò di qua co' Brettoni. Ed essendo un dí a casa del detto messer Ridolfo e io e altri, appresso alla piazza de' frati Predicatori di Bologna, e uno morto era portato a sepellire. Veggendo ciò messer Ridolfo, si volge a noi, dicendo:

-        Che nuova usanza ho veduto in alcun paese, che quando uno è portato alla fossa, drieto gli vanno una gran brigata, tra' quali molti innanzi vanno in camicia cantando, e poi ne vanno drieto a costoro grandissimo numero d'uomini e di donne piangendo; e questi che piangono, in fine danno denari, e pagono quelli che cantano!
Dice subito uno ambasciadore, che avea un poco del nuovo, e messer Ridolfo se n'era accorto:
- O dove si fa cotesto?
A messer Ridolfo e gli altri vennono le risa grandissime, dicendo:
- Fassi in ogni luogo.
Ancora non lo intese. E io dissi:
- E’ ci è via piú nuova cosa, e non dirò di lunge di strani paesi, che io veggio in Bologna portare il vino nelle ceste e mangiare i cocchiumi delle botti.
Ciascun dice:
- Vogliàn noi fare a chi maggiore la dice?
- Io non so che maggiore: non vedete voi che ora di vendemmia portare il mosto in quelli cestoni? Non vedete voi che mangiano per casa cocchiumi bianchi di botti?
E cosí era. Dice un altro:
- Quando io venni in Bologna, io trovai piú nuova cosa, ch'io mi scontrai in uno, presso di qui due miglia, che avea il capo di ferro e le gambe di legno, e favellava con le spalle.
- O questa è ben piú nuova, - dicon tutti.
Dice costui: - Ell'è piú vera che l'altre.
Dicono elli: - Deh, dicci come, se ti cal di me.
- E io vel voglio dire: io trovai un uomo con una cervelliera in capo ch'andava a cogliere pine nel pineto di Ravenna, e andava a gruccie; e domandandolo se uno famiglio che io avea mandato innanzi, avea veduto, e quelli ristrinse le spalle, dicendo con esse che non l'avea veduto.

Or cosí si raccontarono qui per diletto quelli veri che aveano faccia di menzogna. E ben v'erano de' nuovi uomini, ché v'era tale che avea comprato oche, e turato loro gli orecchi con la bambagia, l'avea messe sotto la lettiera dove dormía nell'albergo di Felice Ammannati, dicendo ch'elle non ingrassavono per lo star molto in ascolto, e non beccavono; e però avea turato loro gli orecchi. Ma io scrittore il posso dire di veduta, ch'ell'avevono appuzzato la camera con tutto l'albergo in forma che gli osti non vi voleano stare; e ben lo seppe Felice Ammannati che con tutto il puzzo ne fece di belle novelle, pigliandone con altrui gran diletto. E’ si conviene molte volte dare inframesse di frasconi, e mostrare di nuove novelle, nate da nuovi uomeni, come erano queste.
E benché nel primo dire paiano frasche e bugie, nell'effetto son pur vere, e la novità degli uomini si truova di molti modi, i quali il piú delle volte sono veri, e non paiono.

NOVELLA CXIX

Messer Gentile da Camerino, mandando l'oste a Matelica, certi fanti da Bovegliano, essendo ebbri, combàttieno uno pagliaio, e nella fine, cogliendo ciriege, sono tutti presi.

Messer Gentile da Camerino fece bandire una volta per lo suo territorio che cotanti per centinaio dovessino con le loro arme comparire, sapendo che volea mandare l'oste a Matelica; e per obbedire, ogni suo sottoposto s'apparecchiò d'andare nella detta oste; e fra gli altri comuni e ville, andarono alla detta Matelica una nuova generazione di gente d'una villa che si chiama la pieve di Bovegliano; della qual villa si partirono per andar nell'oste trenta e dieci buon fanti, e ben armati tutti si misseno in cammino, e arrivorono ad una taverna, dove la detta brigata si rinfrescarono; e poi che ebbono molto ben beúto, che tutti erano obbriachi, andarono in su un'aia, dove era un grande pagliaio di paglia, e chi si voltolava di qua, e chi di là. Disse uno di loro che avea nome Nazzetto:

- Brigata, noi andiamo nell'oste a Matelica, e se noi non proviamo prima le nostre persone, innanzi che giugniamo a Matelica, non sapremo che fare, e là saremo vituperati; e perciò credo che sia lo meglio che noi diamo la battaglia a questo pagliaio, e facciamo ragione che sia un castello; e come faremo qui, cosí faremo a Matelica.
E cosí si furono accordati; e armandosi tutti di palvesi, e di rotelle, e di balestra, e lancioni; tutti ad una voce gridando: "Alla terra, alla terra"; alcuno gridava: "Arrendetevi, cattivelli"; e gittansi addosso al detto pagliaio, lanciando forte e balestrando verrettoni, facendo gran prove contro al detto pagliaio.

Ma il migliore fante che ci fosse, fu Nanziuolo di Nazzarello, che lanciò la lancia per fino allo stocco nel detto pagliaio. E questo detto: "infino allo stocco", s'intende, secondo il vulgare della Marca, quando tutto il ferro v'è entrato dentro. E tanto fecero la detta brigata che tutto lo detto pagliaio buttorono per terra, e poi si coricorono a dormire nella detta paglia; e traversando le gambe e intraversando l'una sopra l'altra, quando si svegliarono, e uno guarda fra le dette gambe, e videle cosí infrascate. Dice alla brigata:

- Fratelli miei, come faremo noi, che non serà chi ci recappi queste gambe, perché io non so qual si sieno le mie.
E l'altro rispondea:
- Per le maraviglie di Dio, che tu dici lo vero che non reconosciamo le gambe l'uno dell'altro.
E chi facea boto a San Venanzo, e chi a San Givingio, e chi a Santo Iemino, e chi a uno, e chi a un altro, che li campasse e rendesse le sue gambe. E standosi in questa maniera, passando uno da San Genagio, il quale avea nome Giovanni di Casuccio, ed era abbottonato d'argento dal capezzale infino al piede, da loro fu chiamato, dicendo:
- Noi ti preghiamo che ritruovi a ciascuno di noi le nostre gambe, e a ciascuno rendi le sue.
Lo detto Joanni, facendosi presso a costoro, disse:
- E che mi ci darete, se io ce le ritruovo?
Furono in patto di darli soldi dieci per ciascuno; egli furono contenti, e pagaronlo innanzi tratto; e chi diede danari e chi pegni.

Quando fu da ciascuno accordato, ed egli piglia uno bastone e gitta tra le gambe di questi pappacchioni. Quando egli veggiono questo, ciascuno si tira le sue gambe sotto, e ciascuno riebbe e riconobbe le sue; e lodando lo detto Joanni per buon maestro, e Santo Venanzo, e gli altri santi, a cui s'aveano raccomandati, che aveano mandato costui perché non fossono vituperati, pigliando ciascuno le loro arme e le loro gambe, e andarono a Matelica. Giugnendo nel campo lo dí seguente, li trenta e dieci buon fanti dalla pieve di Bovegliano andarono a mangiare le ciriege per una vigna, e chi stava ad alto e chi a terra. Quelli di Matelica uscirono fuori a scaramucciare; e traendo uno d'uno balestro, uno di questi che stava a terra, cominciò a gridare e lamentare, dicendo:
- O compagno mio, acciutemi, che io sono morto -; tenendosi l'arme a' fianchi, parendoli esser morto, come dicea, solo per lo diserrare del balestro.
E 'l compagno scende del ciriegio, e guarda costui e dice:
- Che hai tu?
E quelli dice:
- Guarda a chinche è colto quillo, quillo che fu su per l'aere.
E lo compagno guarda, e dice:
- E qui non è niente.
Ed elli risponde:
- Se no è qui, adunque è in quella folta sepe.

E stando in questa questione, li Matelicani furono alla detta brigata, e pigliarono, delli trenta e dieci buon fanti, trenta e undici. Alli quali, a cui furono tratti i denti, a cui mozzi gli orecchi; e pagarono quello che poteano per uscire di prigione. E cosí capitarono questi gagliardi, che, essendo armati di mosto, combatterono con la paglia, e poi appiè d'un ciriegio furono vinti, senza fare alcuna difesa.
 

NOVELLA CLXXXII


Messer Ridolfo da Camerino, essendo invitato di combattere a corpo a corpo, con una piacevole risposta il fa conoscente.

Ancora non voglio lasciare una risposta di messer Ridolfo da Camerino. E’ sono molti già stati che avendo invidia, odio o nimistà, o guerra, con uno signore d'assai, hanno pensato e sottigliezze e astuzie come con piccol costo potessono vituperare quel tal signore. Fu adunque uno signorello nella Marca o di Matelica, o di Macerata, potrei errare, il quale non possendo resistere agli assalti di messer Ridolfo, gli venne un pensiero di mandarlo a richiedere di combattere a corpo a corpo, immaginando: messer Ridolfo non vorrà combattere e rimarrà vituperato. E preso un suo ambasciadore, gli commise l'ambasciata. E avuto il salvocondotto, andò alla presenza di messer Ridolfo; il qual giunto a lui, disse:

-        Il tal signore per ogni modo che può, vi sfida, e vuole combattere con voi; eleggete il campo e 'l dí, ed elli è presto.
Messer Ridolfo guarda costui, e sghignando chiamò un suo famiglio, e disse:
- Va', reca da bere a costui delle buone novelle, ché par che 'l tal signore, nostro nimico, di signore sia fatto medico.
E piú oltre non disse, tanto che l'ambasciadore ebbe bevuto: beúto che ebbe, disse messer Ridolfo:
- Tu sie il ben venuto; le tue parole aio intese; torna al tuo signore e di': "E’ dice Redulfo che tu lo sfidi, che non credea che tu fossi fatto medico; poiché vede che ci sei medico, ogni volta che gli verrà febbre o altro difetto nella persona, egli ti manderà l'orina".
L'ambasciadore quasi intronò di questa risposta, e disse:
- Signore, volete che io dica altro?
E messer Ridolfo disse:
- Io ho detto assai, se lo saprà intendere.
Partesi l'ambasciadore e tornò al suo signore con questa risposta. Come quello signore l'udí, se prima gli portava odio, gliene portò poi molto piú; e ancora dicea in se medesimo: "E’ mi sta molto bene; io mando sfidando, e s'egli avesse voluto combattere, io non so se io mi vi fosse condotto; e' m'ha dato la risposta che io meritava". E da questa ora innanzi sempre cercò d'esser suo amico.

Assai ne sono stati che sanza fare alcuna comparazione, richiederanno di combattere con uno a corpo a corpo, e Dio il sa come verrebbono agli effetti. Ma questa battaglia è lecito ad ogni savio uomo di schifarla.

 

 


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…e su Macerata




Macerata – Piazza della Libertà

NOVELLA CXXIX


Marabotto da Macerata con una nuova lettera, richieggendo di battaglia un gran Tedesco, libera per piú mesi la sua patria che non è cavalcata.
Al tempo che la Chiesa di Roma perdeo la Marca d'Ancona, fu un uomo che si chiamava Marabotto da Macerata ed era grandissimo di persona; ed essendo guerra nella detta Marca, uno Todesco, che avea nome Sciversmars, era al soldo della Chiesa, e la stanza sua era a Monte Fano. Facendo gran guerra il detto Tedesco a Macerata, lo detto Marabotto andò alli Priori di Macerata, e domandò licenza, che volea mandare una lettera allo detto Sciversmars, a richiederlo di battaglia, e per li Priori gli fu conceduta. Lo detto Marabotto scrisse la lettera in questa forma: "A voi, nobile uomo Sciversmars della Magna, Marabotto della Valle d'Ebron vi saluta. Ho udito dire della vostra nobilità, e che voi sete un buon uomo d'arme, e che a queste contrade avete fatto grandissima guerra contr'a' villani; e io sono venuto dalle mia contrade con settecento cavalli per trovare di buoni uomini d'armi, e provare la mia persona con loro, e non con li villani. E perciò vi prego che vi vogliate provar con meco su nel campo, solo, ed eleggere il campo dove vi piace, che mi pare mill'anni che io vi sia; e se non volessi combattere solo con meco a corpo a corpo, pigliate de' vostri quel numero che vi piace di venire, e io verrò con altrettanti; e ancora vi farò vantaggio, che la mia brigata serà meno dieci che la vostra per ogni cento combattitori. E questo vi priego quanto posso che facciate, e non vogliate provar la vostra gentilezza co' villani, ma con buoni uomeni d'arme. E di questo vi piaccia subito per vostra lettera farmi risposta, ecc., e da mo innanzi per questo terreno non venire, perciò che io vi tratteria come inimico mortale".
Avendo Sciversmars la detta lettera, e udendo il nome maraviglioso di chi la mandava, e ch'egli era della Valle d'Ebron, tutto invilí, immaginando costui non dover esser altro che gran fatto; e mai non iscrisse, né fece risposta. E per questa cosí fatta lettera impaurito, piú mesi stette che non fece guerra, né cavalcò sul terreno di Macerata, solo per paura del detto Marabotto.
Questa di questo Marabotto fu sottile inventiva, che con un poco d'inchiostro cacciò il nemico della sua terra, e valse quella lettera assai piú a Macerata che non serebbono valuti trecento uomeni a cavallo.
 

Stampa del ‘600 di Fermo

NOVELLA CXXXII


Essendo stati assaliti quelli da Macerata dal conte Luzzo, una notte venendo una grande acqua, credendo che siano li nimici, con nuovi modi tutta la terra va a romore.

Nel tempo che 'l comune di Firenze e gli altri collegati feciono perdere gran parte della Marca alla Chiesa di Roma, il conte Luzzo venne nella Marca con piú di mille lance, e puose il campo a Macerata dal lato d'una porta che si chiama la porta di San Salvadore; e dall'altro lato si puose messer Rinalduccio da Monteverde, che allora era signore di Fermo; puose lo campo da un'altra porta, cioè alla porta del mercato; e ivi al terzo dí dierono la battaglia alla terra, credendola aver per forza. E lo conte Luzzo con la sua brigata ruppono le mura appresso delle mura di San Salvadore in tre luoghi, avvegnadio che della sua gente assai ne fossono feriti e morti. E partendosi il quarto dí la detta oste, e ritornando in quello di Fermo, da ivi a pochi dí, una sera a tre ore di notte, venne una grandissima acqua a Macerata; e correndo forte le vie della terra, menando l'acqua ogni bruttura delle strade, turò una fogna. Di che l'acqua non possendo uscire di fuori, né fare il suo corso, entrò per le case che gli erano dappresso. Di che andando una femina per lo vino, ché volea cenare, andando di sicuro, trovò la casa piena d'acqua; e prima che di ciò s'accorgesse, entrò nell'acqua infino alle cosce, e forse piú su, ond'ella cominciò a gridare: "Accurr'uomo". Lo marito correndo al romore per aiutare la moglie, e 'l lume si spense, si trovò nella detta acqua; ed essendo nell'acqua cominciò a gridare: "Accurr'uomo". Li vicini, udendo il romore, scendeano le scale per sapere che fosse: e quando erano all'uscio non poteano uscire fuori per l'acqua che era per le vie e per le case. Di che anco eglino cominciarono a gridare, avvisandosi fosse il diluvio. Lo guardiano che stava nella terra cominciò a chiamare le guardie, udendo lo romore, chiamò lo cancelliero e li priori, dicendo che alla porta di San Salvadore si gridava: "All'arme, all'arme!" E li priori diceano:

- Odi mo che che dice.
E lo guardiano dice:
- Elli gridano che la gente è dentro.
Li priori rispondono e dicono:
- Suona, campanaro, suona, campanaro, all'arme; che sie impeso!
Lo campanaro cominciò a sonare all'arme. Le guardie che erano in piazza, pigliarono l'arme, e vanno alle bocche delle vie della piazza, mettendo le catene, gridando:
- All'arme, all'arme.

Ogni gente, sentendo la campana, usciva fuori armata, pensando essere assaliti dal conte Luzzo; e venendo in piazza, trovorono le guardie a difendere le catene della piazza: li quali gridavano: "Chi è là, chi è là?" e chi diceva: "Viva messer Ridolfo"; e chi rispondea: "Amici, amici"; ed era sí grande lo romore che non s'udía l'un l'altro, essendo tutto lo populo armato in piazza, aspettando la gente ad ora ad ora, però che molti diceano che la gente era dentro, e che era giunta a una chiesa che si chiama San Giorgio, la quale è a mezza via dalla porta alla piazza.
Vedendo li priori che niuno non venía, mandando certi messi verso la detta porta per sapere novelle, e molti ve n'andorono che feciono come il corbo, che mai non tornorono. Fra li quali fu mandato un frate Antonio dell'ordine di Santo Antonio, il quale avea uno palvese in braccio e con uno battaglio d'una sua campana in collo, il quale il dí dinanzi era caduto da una sua campana; andando per sapere del romore e recarne novelle, ritornando con la imbasciata, lo detto frate cadde sul detto palvese, e perché elli era molto grande che parea uno gigante, non potendo sbracciar lo palvese, non si potea levare, ed era poco dilungi dalla piazza; un altro stava su la via poco dilungi dalla piazza, udendo il detto fracasso del palvese che facea il detto frate per levarsi e non potea, cominciò a gridare:

- A me, brigata, che ecco la gente.
Un altro cominciò a gridare:
- A loro, a loro.
E una parte uscí fuori delle catene e andavano per la via, gridando:
- Alla morte, alla morte.
E quando furono presso al frate che era in terra, chi gridava:
- Chi e' tu?
E chi gridava:
- Rendite, traditore.
E chi gridava:
- Chi vive?
E 'l frate che giacea in terra, gridava:
- Accorrete per l'amor di Dio.

Vedendo costoro che questo era il frate, con gran pena lo levarono su. Egli era tutto dirotto, però che quando cadde in terra, il battaglio uscendogli di mano, e l'uncino s'appiccò allo scapulare, e volendosi lo detto frate rilevare, lo battaglio gli avea molto dato per gli fianchi e per le reni; e per questo tutto era pesto ed era quasi mezzo morto. E ritornando alla piazza con la detta brigata, andò alli priori dicendo la novella della detta acqua, e com'elli era caduto, e al pericolo ch'elli era stato; dicendo che, se quello guardiano che lo udí bussare non l'avesse udito, ch'egli sería morto ivi; dicendo alli priori che, poiché Dio l'avea campato di questo, che mai palvese non portaria piú; e com'elli giugnesse a casa, di quello farebbe mille pezzi, per non portarlo mai piú. Li priori udendo la detta novella, ritornò loro il polso che quasi aveano perduto, dando licenza ad ogni uomo che ritornasse a casa. E di questa novella, e per Macerata e per l'altre terre da presso, piú dí n'ebbono gran piacere considerando all'acqua e alla caduta di frate Antonio.
E cosí sono spesse volte e ignoranti e matti i popoli che in tempo di guerra massimamente, cadendo un quarto di noci, o rompendo una gatta uno catino, si moveranno a romore credendo che siano inimici: e su questo come tordi ebbri s'anderanno avviluppando perdendo ogni loro intelletto.
 



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….e su Civitanova




NOVELLA CCVIII


Mauro pescatore da Civita-nuova, recando granchi marini gli mette nella rete sul letto, escene uno fuori la notte, e piglia la donna nel luogo della vergogna, e Mauro, soccorrendo co' denti, è preso dal granchio per la bocca; e quello che ne seguita.

Nuova novella di moglie e di marito è questa che seguita, e differente forse da tutte quelle che s'udiranno mai. Nella terra di Civita-nuova nella Marca presso alla marina, fu già un pescatore di piccole pescagioni, pescando con ami e con lenze e con reticelle di minore maniera; era giovane e avea nome Mauro, avendo una moglie giovanetta chiamata Peruccia. E venendo per caso un giorno che questo Mauro, essendo andato a pescare, avesse preso certi granchi marini; li quali, perché sono molto malagevoli a tenerli, avea messo in un carniere di rete; e chi ha già veduto li detti granchi, può considerare, veggendo le loro bocche, quanto sono piacevoli quando afferrano altrui.
Tornato questo Mauro con la detta pescagione in su la sera, volontoroso e di mangiare e di bere, come incontra a chi usa quell'arte, disse a Peruccia:

- Truova modo che io ceni -; e questo carniere da piede puose sul letto; e poi per poco spazio, essendo apparecchiato da cena, il marito e la moglie si posono a cena; e cenato che ebbono, volontorosi d'andarsi a posare, se n'andorono a dormire, sanza ricordarsi di muovere il detto carniere.
Di che, dormendo, quasi sul primo sonno, uno di questi granchi, sí come quelli che mai non truovono luogo, cercando de' fori donde possano uscire, e ancora rimbucarsi, uscí per la bocca del detto carniere, ed entrò tra l'uno lenzuolo e l'altro, accostatosi alla donna verso la parte dove è la bocca senza denti, forse per rimbucarsi; e la donna sentendolo, come paurosa, con la mano toccandolo per sentire quello che fosse, e 'l granchio per lo sentirsi toccare, come fanno, ristrignendosi, per lo labbro prese la detta bocca, e stringendo, fu costretta Peruccia di trarre un gran guaio. Al cui romore il suo marito Mauro si destò, dicendo:

- Che hai tu?
Ed ella risponde:
- Marito mio, io non so che fiera m'ha preso nella tal parte.
E 'l marito subito si leva, e va per lo lume e dice:
- Ov'è, dov'è? - come quando si trae al fuoco.
La donna con istrida manda il copertoio giú, e dice:
- Per Dio! guata quello che m'ha vituperata -; e con questo tuttavia forte languendo.
Mauro, veggendo il granchio, come e dove l'avea afferrata, dice:
- Per Santa Maria dell'Oreno! che uno di quelli granchi marini che iersera pigliai, è uscito del carnieri che puosi sul letto, e hatti cosí agghermigliata -; e ingegnandosi con le mani pigliare ora un piede e ora l'altro, tirava il granchio per spartirlo dalla donna; e 'l granchio, come è di lor natura, quanto piú si sentiva tirare, piú mordeva, e piú assannava, e con l'altra bocca s'ingegnava pigliare le mani di chi lo tirava; e la donna, gridando, sentiva soperchio dolore.

Ond'il marito s'avvisò di provare un altro magistero, e molto semplice; e questo fu che, chinato il capo verso quel luogo, s'avvisò con li denti troncare quella zanca la quale cosí forte molestava la donna; e come la bocca porse, per pigliare co' denti la zanca del granchio, el granchio con l'altra bocca afferra costui per lo labbro, il quale subito comincia a gridare, e la donna grida e tira, e colui grida e tira.
El gridare di Mauro era molto grande, però che rimbombava nella citerna; e quanto piú tiravano, e 'l granchio piú mordea. A questo romore quelli della casa traggono, gridando:

- Che è?

E li vicini traggono; e intrati dentro, accostansi alla camera, la quale essendo da un debole uscetto serrata, pinsono in terra, ed entrorono dentro; e domandati che aveano, dissono la cagione, come che Mauro la dicea con gran fatica, come quelli che era preso per lo labbro della bocca. La donna per vergogna, oltre l'altra pena, tirava il copertoio in su: il marito gridava però che, oltre al duolo, affogava sotto il copertoio. Quelli della casa piú baldanzosi dissono:

- Per certo noi vederemo che è questo -; e scuoprono il copertoio, e veggendo presi la moglie e 'l marito da uno granchio marino in due si diversi luoghi, si maravigliano, segnandosi con la croce; e Mauro si lamenta, e dice il meglio che puote che l'aiutino.

Era fra la brigata uno valente maniscalco, il quale disse a un suo discepolo che per le tanaglie andasse alla sua stazzone, il quale subito andato e tornato con esse, il maniscalco troncoe le bocche del granchio; delle quali tanaglie e Peruccia e Mauro ebbono gran paura, sanza la vergogna, che non fu minore. E cosí la moglie e 'l marito vituperati, furono dal maniscalco liberati dal granchio marino; il quale lasciò loro sí fatti segni e sí dogliosi che 'l marito andò piú dí con una pezzuola d'unguento sul labbro, e la donna forse si medicò anch'ella, però che buon pezzo andò a gambe aperte. E gli uomini della terra di tal novella piú tempo n'ebbono a ridere e a parlare. Ma ancora ci fu meglio, che 'l maniscalco domandò d'essere pagato, e Mauro contradiceva, allegando che si dovea pagare di ferrare, e non di sferrare. E 'l maniscalco rispondea:

- Come! o non mi debb'io pagare, quando io medico uno cavallo levandolo da pericolo di morte, o d'altro fortunoso caso? o se uno cane rabbioso, com'era questo granchio, avesse afferrato uno cavallo, e non lo lasciasse, e io facessi sí che lo lasciasse e guarisselo, non doverrei io essere pagato? - e di molte altre belle ragioni disse tanto che li diede soldi venti, come se avesse ferrato uno cavallo.

Cosí avviene spesso agli uomini trascurati, o piú tosto, si potrebbe dire, smemorati; ché, venendo costui dal mare co' granchi, li puose sul letto, e gli ne intervenne quello che ben gli stette; però che s'egli avea preso il granchio, e 'l granchio si vendicò, pigliando lui e la moglie per sí fatta maniera che quando il granchio ne fu levato dal maniscalco si potea dire, come disse Dante: "La bocca sollevò dal fiero pasto ec.". E cosí in questa vita spesso son presi gli uomini da diversi casi, e sono tanti che uomo non gli potria mai immaginare. E però non si dee alcuno fidare della fortuna però che spesse volte il morso d'un piccolo ragnolo ha morto uno fortissimo uomo.
  

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