La festa dei pazzi
Approfondimenti da
Walter Scott
Nel
mio precedente scritto su I risvolti
macabri di Arlecchino e Pulcinella, avevo ripreso uno spezzone da un libro
di Fulcanelli, nel suo Il mistero delle
cattedrali che descriveva la cosiddetta festa de pazzi, e scrissi «se la
descrizione è vera».
Quale mia enorme sorpresa, quando cercando
delle notizie sul nobile e forse [purtroppo] mai esistito Robin Hood, proprio
dallo scrittore e storico scozzese Walter Scott ebbi una straordinaria
testimonianza di questa festa!
Mi dispiace tagliar via enormi pezzi perché in
ognuno di essi Scott riversava una tale abbondanza di notizie del passato che
farebbero impallidire i cosiddetti storici universitari moderni.
Nel
secondo volume della Collezione dei romanzi storici e poetici di Walter Scott,
edito dalla Rusconi nel 1847 vi è L’abate,
seguito de Il monastero e dalla fine
del capitolo XIII troviamo l’elezione di un abate, che viene interrotta da…
Egli
giunse davanti a’ gradini rotti dell'altar maggiore, scalzo, com’era la regola,
e tenendo in mano il suo bastone pastorale, perocché l’anello gemmato e la
gemmata mitra erano diventati spoglie secolari. Non v’erano obbedienti vassalli
che venissero, l'uno dopo l’altro, a porgergli il loro omaggio e ad offrirgli
il tributo atto a fornire al loro superiore spirituale il palafreno e la gualdrappa.
Non vi erano vescovi per assistere a quella solennità, e per accogliere nelle
file dell’aristocrazia clericale un dignitario, il cui voto nei consessi era potente
quanto il loro. Abbreviando le cerimonie prescritte, i pochi frati che
restavano si avanzarono ad uno ad uno per dare all’abate il bacio di pace, in
segno di affezione fraterna e di omaggio spirituale. La messa fu quindi detta,
ma con tal sollecitudine come se fatto lo si fosse piuttosto per soddisfare gli
scrupoli di pochi giovani, che impazienti fossero di andare a una partita di
caccia, che come per adempiere alla parte più solenne di una solenne cerimonia.
Il sacerdote si sbagliò parecchie volte recitando l’uffizio divino, e spesso si
guardò intorno, come se aspettato si fosse di essere interrotto a metà, e i
frati l’ascoltavano col desiderio di vederlo vieppiù abbreviare le sue
preghiere per quanto brevi già fossero. [nota 1: Nei paesi cattolici per conciliare
il piacere dei grandi colle osservanze della religione, si soleva, quando vi
era una partita di caccia, celebrar la messa, abbreviata e storpiata dei suoi
riti, chiamata una messa da caccia, la cortezza della quale era in ragione
dell’impazienza dell’uditorio.]
Quei
sintomi di allarme crebbero col progredir del rito, e come parve, non furono cagionati
da apprensione soltanto; perocchè fra le pause dell’uno, si udirono dal di
fuori suoni assai diversi che cominciarono languidamente e da lontano, e si
appressarono poscia alla chiesa, stordendo alfine quelli che accudivano al
divino servizio. Lo squillar dei corni, suonati senza alcun riguardo alle leggi
dell’armonia; il tintinnar delle campane, il battere dei tamburi, lo strider
delle cornamuse, e il cozzar dei cembali… le grida della moltitudine, ora delle
voci delle donne e dei fanciulli, misti a quelli più gravi degli uomini,
formavano una babele di suoni, che prima coperse, e poi interruppe i canti dei
religiosi. La cagione e il risultato di quella interruzione straordinaria
verranno esposti nel seguente capitolo.
ωωω
CAPITOLO XIV
«Né
le onde tempestose allorché
infrangono
le loro dighe, né i venti
scatenati
quando irrompono dalle
loro
caverne, né il demone implacabile
che
li raccoglie per formare una
tempesta,
e che ne fa scendere il
furore
sulle messe biondeggianti,
possono
paragonarsi alla selvaggia
bizzarria
di quella folla festante,
comica
ma terribile, ridevole
ma
distruttrice.»
La
Cospirazione.
I frati desisterono dal loro canto, che,
come quello dei coristi nella leggenda della strega di Berkley, morì in un
gemito di costernazione; e, come un branco di pulcini atterriti dal
sopraggiunger del nibbio, essi dapprima fecero l’atto di disperdersi e di
fuggire in differenti parti, e quindi, per disperazione più che altro, si
aggrupparono intorno al loro nuovo abate; che serbando il sicuro e dignitoso
aspetto che mostrato avea per tutta la cerimonia, rimaneva sul gradino più alto
dell’altare, come bramoso di essere il bersaglio più cospicuo per gli
assalitori, se assalitori erano quelli che si udivano, e di salvare i suoi
compagni col suo sagriſizio, dappoichè ei non poteva offrir loro miglior
protezione.
Involontariamente, sarebbesi detto, Maddalena
Graeme e il paggio si mossero dal luogo in cui erano stati fino allora
inosservati, e si appressarono all’altare, quasi avidi di dividere il fato dei
monaci, quale che potesse essere. Entrambi fecero un umile inchino all’abate; e
intantoché Maddalena sembrò voler parlare, il giovine, guardando alla porta
maggiore, dietro a cui il rumore allora facevasi udire furioso, e che era assalita
da fieri colpi, pose la mano sul suo pugnale.
L’abate accennò a entrambi di rimanere in
calma. «Pace, mia sorella,» egli disse a voce bassa, ma che, essendo in chiave diversa
da quegli strepiti del di fuori, poteva udirsi distintamente, anche in mezzo ad
essi… «Pace, sorella, lasciate che il nuovo superiore di Santa Maria accolga e risponda
alle acclamazioni riconoscenti dei vassalli, che vengono a celebrare la sua
elezione. - E tu, mio figlio, guardati, te l'impongo, dal toccare quell’arma;
se piace alla nostra patrona che il suo tempio sia oggi profanato da opere di
violenza, se contaminato da spargimento di sangue, fa, te lo comando, che ciò
non sia per l’opera di un figlio cattolico della Chiesa.»
Il tumulto e i colpi che venivano dati alla porta crescevano ad ogni momento; e s’intesero
delle voci che con l’impazienza chiedevano l’accesso. L’abate, con dignità e
con un portamento che neppur l’urgenza del pericolo rendeva vacillante né
precipitoso, mosse verso la porta, e chiese, con tuono autorevole, chi era che
disturbava i loro riti, e che cosa volevano ?
Vi fu un momento di silenzio, e quindi un
grande scoppio di risa dal di fuori. Al fine una voce rispose, «desideriamo di
entrare in chiesa; e quando la porta sarà aperta, vedrete chi siamo.»
«Con quale autorità chiedete di entrare ?»
disse l’abate.
«Coll’autorità del reverendo Lord abate
della Follia,» [Vedi nota in calce al capitolo sull’abate della Follia] rispose
dal di fuori la voce, e, dal riso che ne seguì, parve vi fosse qualche cosa di
molto ridicolo in quella risposta.
«Io non so, né cerco di sapere, il vostro
intento,» rispose l’abate, «dappoiché sarà probabilmente una goffaggine. Ma
andatevene, in nome di Dio, e lasciate i suoi servi in pace. lo vi dico ciò,
perché ho un’autorità legittima per qui comandare.»
«Aprite la porta,» disse un’altra voce rozza,
«e metteremo a riscontro i nostri titoli coi vostri, signor abate, e vi
additeremo un superiore al quale dobbiam tutti obbedire.»
«Atterrate le porte se indugia anche un poco,» disse un terzo,
«e abbasso i vili frati che rapirci vorrebbero i nostri privilegi !» Un grido
generale seguì. «Sì, sì, i nostri privilegi ! I nostri privilegi ! Giù le
porte, e a terra i villani frati, se fanno opposizione !»
Il
battere si mutò in colpi dati con grandi martelli, cui rotte le porte, sebbene
fortissime, avrebbero presto ceduto. Ma l’abate, che vide che il resistere
sarebbe stato vano e che non voleva inasprir gli assalitori col farlo, impetrò
con ardore silenzio, e a stento ottenne di essere ascoltato. «Miei figli,» egli
disse, «vi impedirò di commettere un gran peccato. Il portinaio vi aprirà… egli
è andato a prender le chiavi… intanto vi prego a considerare se siete in uno
stato d’anima conveniente per attraversare una soglia sacra.»
«Al
diavolo il vostro papismo !» Fu risposto dal di fuori; «noi siamo nello stato
dei monaci quando più lieti sono, e cioè quando han per cena del rostbeef anziché dei cavoli bolliti.
Così, se il vostro portinaio non ha la gotta, fate che venga subito o in un
baleno entreremo. Ho io detto bene, camerati ?»
«Detto
benissimo, e come diceste faremo,» rispose la moltitudine; e se le chiavi non
fossero giunte in quel momento, e il portinaio atterrito non avesse con
sollecitudine accudito al suo uffizio, spalancando la porta, la folla risparmiato
gli avrebbe quel fastidio. Appena ebbe fatto ciò, lo sbigottito portinaio fuggì,
come se avendo rotta una cateratta, temuto avesse di essere travolto dalla
forza del torrente. I frati, di mutuo accordo si erano ritirati dietro
all’abate, che solo rimase al suo posto, dieci passi lontano dalla porta, senza
mostrar segni di timore né di perturbazione. I suoi confratelli in parte
incoraggiti dal suo contegno, in parte vergognosi di desertarlo, e animati in
parte dal sentimento del dovere… rimasero aggruppati dietro al loro superiore. Vi
fu un grande scoppio di risa e molti urli allorché le porte furono aperte; ma,
contro a quello che avrebbe potuto aspettarsi, la folla non si precipitò con
furore nella chiesa. Al contrario, si udì gridare «Fermi... fermi… ordine,
compagni ! Fate che i due reverendi padri si salutino, com’è di dovere.»
L’aspetto della folla, così chiamata all’ordine, era al sommo grottesco.
Essa componevasi d’uomini, donne, e fanciulli, ridicolmente travestiti sotto
vari abiti, e offerenti gruppi diversi gli uni dagli altri e bizzarrissimi.
Eravi uno con una testa di un cavallo davanti dipinta, e una coda di dietro, coperto
tutto con una gualdrappa, grandi che supponevasi nascondere il corpo
dell’animale, che saltava, caracollava, si alzava, e si chinava, eseguendo la
celebre parte del cavallo di legno, [Vedi la nota 2 in calce al Capitolo sul
cavallo di legno] a cui sì spesso vien fatta allusione nei nostri antichi
drammi; e che è anche in onore sulla scena nella battaglia che termina la
tragedia di Bayes. Per gareggiare con quel personaggio in destrezza e agilità,
un’altra figura si avanzò, rappresentante un immenso e terribile drago,
coll’ali dorate, le mascelle aperte, e una gran lingua rossa e forcuta, che
faceva vari sforzi per abbattere e divorare un ragazzo, vestito come la
leggiadra Sabea, figliuola del Re d’Egitto, che fuggiva davanti a lui;
intantoché un magnanimo S. Giorgio, grottescamente armato con una cazzeruola
per elmo, e uno spiedo per lancia, s’interponeva di tratto in tratto e
obbligava il mostro a lasciare la sua preda. Un orso, un lupo, e uno o due
altri animali selvaggi, compievano le loro parti colla discrezione di Snug il
legnaiuolo; [Vedi il sogno di una notte di estate di Shakspeare.] perocché la
preferenza assoluta ch’essi davano all’uso delle loro gambe di dietro, bastava,
senz’altri avvertimenti, ad assicurare i più pavidi aspettatori che essi
avevano a fare con bestie che per lo più camminavano su due piedi. Vi era poi
un gruppo di banditi, con Robin Hood e Little John alla loro testa [Vedi la nota
3 in calce al capitolo su Robin Hood e Little lohn.]… la più bella fra tutte l’altre
rappresentazioni; e non è gran meraviglia, dappoiché molti passi di quegli
attori erano, di professione, i banditi e i ladri che figuravano. Vi erano
altre maschere ancora, che avevano un carattere meno spiegato. Uomini
travestiti da donne, e donne da uomini… fanciulli abbigliati da vecchi, e
trascinantisi sulle gruccie, con panni impellicciati sulla vita, e berretti in
testa… intantoché dei vecchi assumevano il tuono fanciullesco siccome il
vestiario dei fanciulli. Oltre di questi, vi erano molti che avevano il viso
dipinto, e che portavano le camicie al disopra degli altri abiti; e nastri e
striscie screziate decoravano molti altri. Quelli a cui mancavano tutti questi abbellimenti,
si erano annerita la faccia e portavano le loro casacche al rovescio; e così la
trasformazione di tutta la brigata in una compagnia di matti, era completa.
La pausa
che gli immascherati fecero, aspettando parve qualche personaggio di altissima
autorità fra di loro, diede a quelli che stavano nella chiesa il tempo di
osservare tutte quelle stravaganze. Essi ben intesero lo scopo di quella farsa.
Pochi
lettori possono ignorare, che anticamente, e durante la pienezza del suo potere,
la Chiesa di Roma non solo approvava, ma anche incoraggiva, quei saturnali che
gli abitanti di Kennaquhair e del vicinato allora eseguivano, e che al volgo
era in tali occasioni permesso di indennizzarsi, con certe stravaganze ora
puerili e grottesche, ora immorali e profane, delle privazioni e dei mali che
gli si facevano soffrire in altri tempi. Ma fra tutte le cose che prestavano il
fianco al burlesco e al ridicolo, erano le cerimonie e i costumi della Chiesa,
che eleggevansi per lo più per tema delle mascherate; e, strano a dirsi,
coll’approvazione del clero stesso.
Intantochè
la gerarchia fiorì in tutta la sua gloria, il clero parve non temesse le
conseguenze di una tale libertà, come se il volgo avesse potuto impunemente
avvezzarsi a trattar le cose sacre con tanta irriverenza; esso immaginò che il
laico fosse come un cavallo da fatica che si assoggetta dolcemente alla briglia
e al morso, anche che lo si lasci di tratto in tratto caracollare a senno suo
nei pascoli, e avventar qualche calcio al padrone che d’ordinario lo regge. Ma
quando i tempi mutarono… quando il dubbio delle dottrine Cattoliche Romane, e
l’odio di quel sacerdozio, investì gli aderenti della Riforma, il clero si
avvide, troppo tardi, che un non piccolo inconveniente nasceva da quella
pratica stabilita di giuochi e di sollazzi, in cui esso, e tutto quello ch’esso
avea per più sacro, veniva al ridicolo assoggettato. Sarebbe allora divenuto
patente anche per politici meno arguti degli ecclesiastici Romani, che le
medesime azioni hanno effetti differentissimi, allorché dettate sono da un’insolenza
satirica e da un odio violento, o quando sono prodotte soltanto da un eccesso
di quella rozza allegria che non sa raffrenarsi. Esso perciò, quantunque tardi,
si sforzò dovunque gli rimaneva un po’ d’influenza, di impedire il rinnovamento
di quelle sconcie feste. In questo rapporto, al clero Cattolico si unì la
maggior parte dei predicatori della Riforma, più scossi e scandalezzati dall’immoralità
e empietà di molte di quelle mostre, che disposti a profittar del ridicolo ch’esse
facevano scendere sui riti e la Chiesa di Roma. Ma molto ci volle prima che
quei sollazzi immorali e scandalosi cessassero; la rozza moltitudine perseverava
nei suoi favoriti diporti; e, tanto in Inghilterra che in Scozia, la mitra del Cattolico…
il rocchetto del vescovo riformato… e il mantello e la fascia del teologo
Calvinista… erano, volta a volta, costretti a dar luogo a quei beffardi
personaggi, il Papa dei matti [Vedi Notre
- Dame di Vittore Hugo.], il Vescovo Lattante, e l’Abate della Follia. [Stando
all’interessante romanzo intitolato Anastasio,
pare che queste burlesche cerimonie si praticassero anche nella Chiesa Greca.]
Era
quest’ultimo personaggio allora che, in gran divisa, si avvicinava alla maggior
porta della Chiesa di Santa Maria, abbigliato in modo da formare una caricatura,
o una parodia pratica, degli abiti e del seguito del superior vero, che andava
a insultare nel giorno medesimo della sua installazione, davanti al suo clero,
e nel grembo della sua Chiesa. Il falso dignitario era un uomo vigoroso di
mezzana statura, di cui le forme rotonde e grosse erano diventate grottesche
per un gran ventre posticcio che portava. Egli aveva una mitra di cuoio
somigliante un berretto da granatiere, di cui il dinanzi era adorno da falsi ricami
e da balocchi di stagno. Tal mitra sormontava un viso, di cui il naso si faceva
soprattutto notare, perché era di una lunghezza straordinaria, e tanto
riccamente gemmato quanto l’acconciamento della testa. Il suo abito era di
traliccio, e la sua stola di una rozza tela screziata di cento colori. Su una
spalla egli aveva dipinto un cuculo; e portava nella destra il suo pastorale, e
nella sinistra un piccolo specchio col manico, somigliando cosi a un celebre buffone,
le cui avventure, tradotte in Inglese, furono un tempo popolarissime, e che possono
ancora trovarsi in lettere gotiche, a una lira sterlina il foglio.
Le
persone del seguito di quel falso dignitario avevano
i loro abiti convenienti, portanti la stessa beffarda simiglianza coi graduati
del monastero che il loro duce aveva con quella del Superiore. Essi seguivano
il loro capo con ordine, e la pazza folla, che aveva aspettato il suo avviso,
si precipitò allora dietro di lui nella chiesa, gridando… «Luogo, luogo al
venerabile Padre Howleglas [nota: Specchio di cuculo], al dotto Monaco della
confusione, al Reverendo Abate della Follia !»
La stuonata musica di ogni specie ricominciò;
i fanciulli urlarono e ulularono, gli uomini risero e gridarono, le donne guairono
e strillarono, le bestie ruggirono, il drago balenò e fischiò, il cavallo nitrì,
s’impennò, caracollò, e il resto batté la misura e secondò la gazzarra,
percuotendo colle ferrate scarpe il selciato con tanta forza che le scintille
scaturirono, attestatrici di quelle energiche capriole.
La era affè una scena di ridicola
confusione, che assordava, facea girar il capo, e stordito avrebbe ogni più
indifferente spettatore; i frati, oltre le apprensioni personali e il
sentimento che una gran parte di quel sollazzo popolare nasceva dal ridicolo
che volgevasi in loro, erano di più poco confortati dal pensiero, che, fatti
arditi dal loro travestimento, i mascherati che facean gazzarra intorno a loro,
potevano alla più piccola provocazione, volger la celia in buon giuoco, o almeno
venire a quelle belle pratiche, che sempre nascono cosi naturalmente dalle
disposizioni malvagie e bizzarre della plebe. Essi guardavano in quel tumulto
il loro Abate, con quegli sguardi che gli uomini di terra volgono al pilota,
quando più ferve la tempesta, sguardi che esprimono che essi non hanno alcuna speranza
nascente dai mezzi loro, e che poco confidano anche nella sagacità del loro
Palinuro. L’Abate medesimo parve stupefatto; egli non provava paura, ma capiva
qual pericolo vi fosse ad esprimere il suo sdegno nascente, che a mala pena
poteva contenere. Egli fece un gesto come per impor silenzio, a cui fu risposto
dapprima soltanto brandiscila con gridi raddoppiati, e con iscoppi di pazze
risa.
Con il resto del capitolo, che termina con
un fatto di sangue – l’abate della Follia pugnalato dal paggio della Madama –
preferisco non andar avanti. Vorrei solo
riportare prima un canto dei seguaci dell’abate della Follia dal capitolo
successivo:
«Il ricco vescovo non predicava perché stava
a trastullarsi colle ragazze; il monaco in tempo di penitenza coi nostri polli
si satollava; il curato stentava a leggere… onta a tutti loro. Cantiamo e
balliamo, allegri allegri, cantiamo e balliamo sulla verzura.»
E passo
alle note del capitolo XIV vergate dallo stesso Scott e tradotte all’epoca da
Carlo Rusconi.
ωωω
NOTE AL CAPITOLO XIV
Nota 1 . – Abate della
Follia . –
Apprendiamo da un’autorità non meno grande di quella di Napoleone
Bonaparte, che non vi è che un passo dal sublime al ridicolo; ed è una
transazione da un estremo all’altro, così facile, che il volgo di ogni fatta ne
riman particolarmente soggiogato. Così la tendenza al ridere diventa
irrefrenabile, quando la solennità e la gravità del tempo, del luogo, e delle
circostanze, la rendono di più impropria. Una specie di licenza, come quella
che ispirava gli antichi saturnali, o il Carnevale moderno, è stata concessa
sempre al popolo e in quasi tutti i paesi. Ma fu, credo specialmente la chiesa
Cattolica Romana, che mentre più si studiava di rendere i suoi riti imponenti e
magnifici col sussidio della musica, dell’architettura, e di ogni altra pompa, permetteva,
nullameno, in certe tempo occasioni, le follie del volgo, che, in quasi tutti i
paesi cattolici, godeva o almeno si assumeva il privilegio di fare qualche
signore delle gozzoviglie, che, sotto il nome di Abate della Follia, di Vescovo
Lattante, o di Presidente dei Pazzi, invadeva le chiese, profanava i luoghi
santi con beffarde imitazioni dei sacri riti, e cantava indecenti parodie degli
inni della Chiesa. L’indifferenza del clero, anche quando il suo potere era
maggiore, per quelle sconce farse che mezzogiorno sempre tollerava, e talvolta
incoraggiva, segna un forte contrasto colla suscettibilità con cui riguardava
ogni tentativo; che si facesse colle prediche o cogli scritti, che era offender
potesse qualcuna delle dottrine impose della chiesa. Essa poteva compararsi soltanto
alla strana apatia con cui tollerava, e spesso ammirava, le oscene novelle che Chaucer,
Dunbar, Boccaccio, Bandello, ed altri, componevano sui cattivi costumi del
clero. Ci pare in entrambi quei casi che gli ecclesiastici volessero transigere
coi laici, e che permettessero loro di sfogare il loro obbligato tristo umore
con satire indecenti, perché ingollare si astenessero da gravi questioni concernenti
i fondamenti delle dottrine su cui era eretto quell’immenso edilizio del potere
ecclesiastico.
Ma i
sollazzi così permessi presero una medesima sembianza assai diversa, tostoché
le dottrine Protestanti cominciarono a prevalere; e la licenza a cui i loro
proavi si erano abbandonati per sola ebbrezza di cuore, e senza la minima intenzione
di disonorare la religione con quelle farse, fu adottata dal volgo come un modo
di attestare il suo intero disprezzo pel sacerdozio di Roma e le sue cerimonie.
Citerò, per esempio, il caso di un messo mandato a Borthuick dal Primate di Sant'Andrea,
per citare il Signore di quel castello, osteggiato da un Abate della Follia, al
cui comando l’uffiziale della corte spirituale venne condannato ad esser tuffato
nello stagno di un mulino, e obbligato a mangiare la sua citazione in pergamena.
Il
lettore si ricreerà coi seguenti particolari bizzarri di quell'incidente, che
ebbe luogo nel castello di Borthwick, nell'anno 1517: Ei sembra, che in
conseguenza di un processo fra Mr. Giorgio Hay di Mingeane e Lord Borthwick,
delle lettere di
scomunica fossero corse contro quest'ultimo, a
motivo della contumacia di certi testimoni. Guglielmo Langlands, mazziere, (bacularius) della diocesi di Sant'Andrea,
presentò quelle lettere al curato della chiesa di Borthwick, pregandolo a
pubblicarle nel servizio della messa. Ei pare che a quel tempo gli abitanti del
castello s’intrattenessero nel favorito sollazzo di creare un Abate della
Follia, specie di personaggio, che, come il Signore dell’Imprudenza in Inghilterra,
volgeva ogni specie di autorità legittima, e specialmente il rituale della
chiesa, in ridicolo. Quel beffardo personaggio col suo seguito, ad onta del
carattere di cui era investito il maggiore, entrò in Chiesa, s’impadronì senza
esitare dell’ufficio del primato, e, tiratolo verso lo stagno del mulino a
mezzogiorno del castello, lo costrinse a saltar nell’acqua. Non contento di
quella immersione parziale, l'Abate della Follia dichiarò, che Mr. Guglielmo
Langlands non era ancora abbastanza bagnato, e quindi impose ai suoi di ghermirlo
e di tuffarlo nel modo che più lo appagasse. Lo sfortunato mazziere venne
quindi ricondotto in chiesa, dove per suo refiziamento dopo il bagno, le
lettere di scomunica vennero lacerate, e poste in un vaso di vino, il beffardo
abate pensando forse che una pergamena asciutta fosse dura da masticarsi,
Lauglands
obbligato si vide a mangiar le lettere, e a ingollare
il vino, e fu licenziato dall’Abate della Follia, colla confortatrice
assicurazione che se altre lettere di quella fatta recate gli erano mentre
accudiva al suo uffizio, esse partite si sarebbero tutte per la medesima strada.
Una
scena consimile occorre fra Sumner del Vescovo di Rochester e Harpool, il servo
di Lord Cobham, nell'antica commedia di Sir Giovanni Oldcastle, in cui il primo
obbliga l'ufficiale della chiesa a mangiar la sua citazione. Il dialogo, che
qui trascriviamo, contiene molte beffe adattate a sì straordinaria circostanza.
Harpool - E che, Messere, è questa pergamena ?
Sumner
- Sì affè è.
H. - E questo suggello è cera ?
S. -
Cera è.
H. -
Se questa è pergamena, e questa è cera, mangiate questa pergamena e questa cera,
o io farò pergamena della vostra pelle, e cera del vostro cervello. Gaglioffo, spicciati... divora, divora.
S. - Io
sono al servizio di Lord Rochester. Venni a compiere il mio ufficio, e tu ne risponderai.
H. -
Non beffe, gaglioffo, ma metti in uso i denti. Non mangerai nulla di più
cattivo di quello che recasti con te. Tu l'avesti da Milord, e a Milord non
recherai che quello che da lui avesti.
S. - Affè
non l’ebbi per mangiarlo.
H. - Affè , dici ? Né fè né diavolo, mangia.
S. -
Non posso.
H. - Non
puoi? Maledetto , ti attiverò a furia di botte lo stomaco ! (lo batte).
S. - Oh
pietà, pietà, buon servo; mangerò.
H. -
Denti e ganascie in moto, gaglioffo, o ti mangerò la testa. La cera non è che
la parte più pura del miele.
S. - Del
miele ! Oh ! oh !
H. -
Mangia, mangia, è roba sana, gaglioffo. Non puoi tu, da buon chierico,
passeggiar col diavolo tuo fratello, per pescar gli averi di qualche balì,
senza venirne alla casa di un nobile con un processo ? Se il sigillo fosse
largo come la cappa di piombo della Chiesa di Rochester dovresti mangiarlo.
S. - Oh
mi strozzo… mi strozzo.
H. - Chi
è costà ? Non v'è birra in casa ? Canovaro, dico.
Entra il Canovaro,
E. - Eccomi,
eccomi.
H. -
Dagli un po’ di birra, la pelle di pecora è dura da masticare.
Prima Parte di Sir
Giovanni Oldcastle .
ωωω
Nota 2. – Cavallo di
legno . –
Il
sollazzo del cavallo di legno in Scozia era fra i più graditi. A lui riportasi
l’esclamazione di Amleto. Oh , oh , il cavallo di legno è dimenticato !
Vi è
una scena assai comica nella commedia di Beaumont e Fletchez «Il piacere delle
donne,» nella quale Bombye, calzolaio puritano, rifiuta di danzare sul cavallo
di legno. Vi era molta difficoltà e gran varietà nei movimenti che il cavallo
di legno dovea fare.
Il
dotto Mr. Douce, che ha contribuito tanto ad illustrare le nostre antichità teatrali,
ci ha dato un ragguaglio preciso di quello spettacolo burlesco.
ωωω
Nota 3 . – Robin Hood
e Litlle John . —
La
rappresentazione di Robin Hood seguiva sempre nei
giuochi di maggio tanto di Scozia che
d'Inghilterra, e certo quella personificazione riviveva spesso, quando l’Abate
della Follia entrava in campo per denotare che quello era il tempo della
licenza.
Il
clero protestante, che si era dapprima avvantaggiato delle occasioni che quei
sollazzi gli offrivano per dirigere le sue satire contro la chiesa cattolica,
cominciò a trovare che, l’attendere a quei diporti li privava del desiderio di
badare al loro culto, e alterava le idee colle quali avrebbero potuto badarvi
con frutto. Il celebre vescovo Latimer espone ingenuamente il modo con cui,
sebbene vescovo, si trovasse costretto a dar luogo a Robin Hood e al suo
seguito.
«Io
me ne tornai un giorno a cavallo da Londra, e feci sapere nella mia città
giuntovi appena che il mattino appreso avrei predicato, perché era festa, e
giuntovi trovai la mi pareva un'opera da dì festivo. La chiesa mi era davanti,
e presi il mio cavallo e la mia brigata e mi avviai (credendo di trovarvi molta
gente) e giuntovi la porta della Chiesa coi chiavistelli. Stetti ivi un’ora e
più. Alfine la chiave si rivenne, e uno della parrocchia mi si fé innanzi, e
disse, ... Signore, gli è un giorno d’affari per noi, non
possiamo udirvi, gli è il giorno di Robin Hood.
I bidelli sono usciti per andar a coglier denari per Robin. Ve
ne prego ritiratevi. Io fui costretto a cedere il luogo
a Robin Hood. La non è cosa da riderne, miei amici,
è cosa da piangere, è cosa grave, gravissima. Coglier danaro per un ladro, un
traditore, e cacciare un predicatore; esser meno stimato di un Robin Hood;
Robin Hood preferire al parto della parola di Dio; e tutto ciò in un paese Cristiano! Questo
regno è un abisso! Formare sì corrotti giudizi! Anteporre Robin Hood alla
parola di Dio» - Sesta predica del
vescovo Latimer davanti al Re Eduardo.
Mentre i protestanti Inglesi anteponevano così gli spettacoli del
bandito alle prediche del loro eccellente Vescovo, il clero calvinista
scozzese, guidato dal celebre Giovanni Knox, e spalleggiato dall’autorità dei
magistrati di Edimburgo, eletti da quel partito, trovava impossibile di frenare
la rabbia del volgo, allorché facevano opera di privarlo del suo sollazzo di
Robin Hood.
ωωω
Marco
Pugacioff
Macerata
Granne
(da Apollo
Granno)
S.P.Q.M.
(Sempre
Preti Qua Magneranno)
18/03/'21
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