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venerdì 22 giugno 2018

Supremo sacrificio Racconto di Lupo Rosso


Supremo sacrificio
Racconto di Lupo Rosso
Pubblicato a puntate su Robin Hood dal n. 8 del 15-06-1949 al n. 10 del 15 -08-1949


   Una lunga colonna di carrozzoni si snodava attraverso la selvaggia e desolata pianura del New Mexico. Erano pionieri che si avventuravano in quella landa deserta in cerca di nuove terre da fecondare e civilizzare.
   Risalivano le sponde del Rio Grande do Nord e si dirigevano verso Fort Suarez. Il Texas era stato troppo ingrato con loro, e sebbene fosse una terra feconda e ricca, era troppo pericolosa per la presenza di numerose bande di indiani.
   Due fratelli guidavano quegli ardimentosi coloni. Blake e George Hopkins, due giovani pieni di coraggio che erano conosciuti in tutte le pianure del Far West per il loro indomito valore e per l’astuzia che avevano nel trarsi d’impaccio. Gli indiani e i fuorilegge soprattutto li conoscevano, perché numerose volte avevano da loro subito amare lezioni. Blake il più grande, era
stato per cinque anni nell’esercito americano ed aveva partecipato a numerose azioni militari contro gli Indiani del Nord, ed era stato uno dei più valorosi difensori di Fort Grant, e per questo aveva meritato una ricompensa al valore che sempre gli fregiava il petto e di cui si gloriava con tutti. Chi ne andava più orgogliosa però era la sua adorata Marta Harding, che viveva nel lontano Kansas e che attendeva con ansia il suo ritorno per poterlo sposare.    George, non aveva certo la fama del fratello maggiore, ma era reputato un bravo e forte ragazzo che in momenti difficili aveva saputo dar prova di ardimento.
   Il sole stava per calare dietro i lontani picchi delle Rocciose, quando Blake fermò il suo pony facendo cenno ai compagni di arrestare la marcia dei carrozzoni.
__ Perché ci fermiamo, Blake? Non abbiamo forse fatto provvista di acqua questa mattina. Credo che per questa notte non ne avremo bisogno — Chiese Padre Mac Donald.
__ No, reverendo, non è per questo che ci fermiamo. Non sarebbe affatto prudente viaggiare di notte, potremmo avere delle cattive sorprese da parte di quei maledetti indiani.
— Per carità. Dio, allontana da noi quei demoni — implorò con enfasi Padre Mac Donald.
— Ho saputo che queste parti pullulano di Navajos. Ma por questo non c’è da preoccuparsi, padre, se eventualmente ci attaccassero, quegli infami avranno pane per i loro denti. E il pane che gli daremo non è per niente digeribile! Le bocche dei nostri fucili li terranno a bada. Siamo più di duecento fra donne e uomini, tutti bene armati, mentre quei luridi vermi non hanno che pessime armi.
— Ma essi sono in molti — intervenne George — e si dice che li comandi quel famigerato Tabo.
— Sempre pessimista tu, George — riprese Blake — Piuttosto pensa a far sistemare la colonna a cerchio, questo per noi è un posto ottimo. A lei, reverendo Mac Donald, vorrei dare il compito di far accendere i fuochi per i bivacchi.
— Farò del mio meglio, figliolo!
   Il cielo intanto si andava trapuntando di tremule stelle, ormai era notte. Attorno al campo tutto era silenzioso, solo di tanto in tanto si udivano le lugubri urla dei coyotes. Nel campo c’era ancora un po’ d’animazione. Alcuni pionieri giocavano a dadi, altri parlavano sommessamente, alcuni attendevano a pulire le canne dei fucili. Da un lato, solo, stava passeggiando Padre Mac Donald: pregava.
   I fratelli Hopkins si diressero allora verso il carrozzone di Haddy Williams,
uno dei più vecchi ed influenti scouts da tutti amato per la sua saggezza e bontà. Udendo che qualcuno si avvicinava, il vecchio Harry uscì dal carrozzone discendendo la rozza scaletta.
— Salute, ragazzi — disse con voce catarrosa ai due fratelli — Quale diavolo vi porta qui?
— Siamo venuti da te, vecchio, per organizzare i turni di sorveglianza — disse Blake.
— Benone! A proposito ragazzi non avreste un pugno di tabacco per soddisfare la mia povera pipa?
— Eccoti servito! — rispose George porgendogli una sacchettina di pelle — Questo è del Kansas, un po’ forte ma buono.
— Grazie, George. Facciamo bene a sorvegliare il campo questa notte. Sento odore, di polvere da sparo, io. Con questi Indiani non si può stare un minuto tranquilli. Accomodatevi — disse il vecchio, indicando un grosso ciocco di legno. — Starete più comodi.
   Parlarono per circa mezz’ora e decisero di vegliare tutta la notte finché non
si fosse lavato il sole. Ormai tranquilli, gli altri pionieri si ritirarono nelle loro tende. La luna brillava alta nel cielo e la sua argentea luce si rifletteva sinistramente sull’accampamento. Era quasi mezzanotte, quando l’alto silenzio che incombeva sulla prateria fu rotto da un nuovo grido di un coyote, al quale rispose subito un altro più vicino ma più roco.
— Blake! Non ti sembra strano questo urlo? — disse Harry Williams avvicinandosi ai due fratelli che in quel preciso momento avevano terminato il giro del campo.
— Infatti, vecchio mio. La bestia mi sembra un po’ raffreddata. E direi piuttosto che l’urlo sia uscito più dalla bocca di un uomo che da quella di un coyote! — rispose Blake.
— Guardate i cavalli — interloquì George — Sembra che sentano qualche cosa nell’aria: nitriscono e scalpitano in modo insolito. Mi preoccupa un poco il pensiero dei Navajos.
   L’urlo del coyote, diversamente modulato si fece udire più vicino e distinto,
e quasi contemporaneamente una nube di frecce si abbatté sul campo, andando ad infiggersi contro le pareti dei carrozzoni. Erano i Navajos! Blake, scaricando in aria il suo fucile, diede l’allarme, e gli altri due, urlando come ossessi, si preparavano alla prima difesa. Un immediato panico, si sparse per tutto il campo, e le urla di rabbia dei coloni si intrecciarono alle grida paurose delle donne. Nello stesso tempo numerose vampe di armi da fuoco si videro accendersi nell’immensa prateria seguite da forti e laceranti detonazioni, e una pioggia di pallottole si abbatté sui pionieri che risposero con numerose ben nutrite scariche di fucileria. Ma non si poteva nulla contro quell’orda di selvaggi inaspettatamente armati di centinaia di fucili.
   Cantando i loro peana di guerra alcuni Navajos si slanciarono contro le difese del campo, mentre numerosi altri, caracollando focosi destrieri, formavano un cerchio attorno all’accampamento, cerchio che andava sempre di più inesorabilmente stringendosi. Già numerosi bianchi erano morti, altri feriti, la difesa del campo subiva irreparabili vuoti e gruppi di coloni accorrevano dove più esisteva minaccia di una penetrazione indiana. Molti carri erano in preda alle fiamme, avendo i Navajos fatto uso anche di frecce infuocate, numerose donne intervenivano con secchi d’acqua; ma era ben poca cosa. Ad un tratto si udì un urlo lacerante, la cavalleria dei pellirossa si arrestò come d’incanto. I fucili Navajo tacquero.


   Un maestoso indiano, la testa ornata da un grosso diadema di penne multicolori, si avanzò verso il campo cavalcando un magnifico poney bianco.
   Dal campo si poteva distinguere bene. Era Tabo in persona! Un nuovo urlo seguito da alcuni gesti e tutti i guerrieri si slanciarono come un sol uomo contro i pionieri, i quali alla vista di ciò ripresero fuoco con più accanimento e disperazione. La distanza che separava gl’indiani dal campo andava sempre di più scemando. Seguì il violentissimo urto. I Navajo, abbattute le ultime difese, entrarono con grida infernali dentro il campo, abbattendosi come una rovinosa e devastatrice valanga.
   Molti coloni cercarono un qualsiasi scampo, il panico si era impossessato di
quei saldi cuori; ma il Padre Mac Donald non li seguì. Ormai era suonata l’ora a cui egli da tempo si era preparato, e in abito sacerdotale si fece incontro ai Navajo come per fermarli. Protendeva verso l’alto un crocefisso. Trafitto da frecce e palle cadde a terra con il nome di Dio sulle labbra.
   Quei malvagi si precipitarono sul corpo inanimato, lo scotennarono, lo mutilarono orrendamente e poi lanciando delle grida di gioia si bagnarono il volto col sangue di quel valoroso, per diventare valorosi come lui.
   Incendiarono i carrozzoni rimasti sani dopo aver depredato merci ed animali. Il vecchio Williams poiché uccise con la sua Colt uno dei capi indiani, finì subito tra i fendenti imperdonabili di numerosi tomahawk. Gli uomini sopravvissuti, fra cui i fratelli Hopkins, decisero di arrendersi. Forse potevano cessare quella carneficina, d’altronde era inutile sperare in un capovolgimento della situazione. Assieme alle donne e ai bambini furono fatti camminare verso Nord. Dietro a loro i miseri resti di quello che fu il campo ardevano ancora.




POSTA DEL C.A.F. (Club Amici di Fantax)
Da Robin Hood dal n. 8 del 15-06-1949

   Dicono che tra il dire ed il fare ci sta di mezzo il mare, per conto mio, cari ragazzi, fra il dire ed il fare ci sono di mezzo tutti gli oceani messi insieme. Mi
ero raccomandato nei numeri scorsi di non scrivere allegando francobolli per la risposta e sollecitando magari con cartoline, il più delle volte illeggibili, una lettera personale.
   Credetemi, cari amici, mi è assolutamente impossibile rispondere a tutti, dovrei prendere in affitto un paio di dattilografe che scrivessero notte e giorno ininterrottamente, questo le mie magre finanze non me lo permettono ed allora dovete rassegnarvi (come mi rassegno io per le dattilografe).
   Aspettate un momento; si è aperta la porta e voglio vedere chi è entrato. Porca l’oca! Come stai vecchio amicone dei tempi d' oro. Permettete ragazzi che vi presenti un vecchio amico? Sì? Grazie, io sapevo che tutti i miei amici sono pure, i vostri. Ecco qui: Red Killer, questi sono gli iscritti ai C.A.F. tutta gente in gamba e piena di fegato, ma dimmi un po’, che cosa fai da queste parti? Anzi, aspetta un momento a rispondere facciamo una bella intervista per i ragazzi del C.A.F.
— Allora, che sei venuto a fare in Italia?
— Sono venuto in Italia per consegnare al tuo direttore l’ultimo reportage delle mie avventure westerniane che verranno pubblicate nei prossimi numeri di « AVVENTURE » la rivista che conta tanti milioni di lettori in America e che ora sta imponendosi anche in Italia.
— E quando conti di ripartire per il Far-West?
— Il più presto possibile, caro il mio Lupo Rosso, è una terra dalla quale non si può stare lontani e tu lo sai.
— E' vero quanto circola in determinati ambienti, che una importante casa americana ti ha proposto di girare alcuni films per lei?
— Verissimo, ma non ho accettato. La gloria del regno della celluloide non mi
attira menomamente, per ottenerla sarei costretto ad abbandonare la prateria e questo... beh, or debbo proprio scappare, il piroscafo parte fra due ore e debbo ancora fare un sacco di cose.
   Arrivederci Lupo Rosso e speriamo tu possa liberarti presto da tutte queste scartoffie.
Non sono riuscito ad aggiungere parola, la visione della prateria mi ha velato gli occhi e stretto un nodo alla gola. Fortuna a te, Red, buono e generoso, eroico e scanzonato, possa tu far trionfare sempre il tuo intramontabile ideale di giustizia e di libertà.


POSTA DEL C.A.F.
Da Robin Hood dal n. 9 del 15-07-1949

   Cala la sera ed una malinconia infinita mi scende nel cuore. Il treno corre rullando, quasi volesse concigliare le palpebre sbarrate nella luce rossastra del tramonto con il sonno che la stanchezza suggerisce ma al quale il cervello non riesce ad abbandonarsi.
   Fra dodici ore sarò a Costantinopoli, davanti agli occhi mi si parano immagini vecchie di quasi quarant’anni fa, quando scalzo e male in arnese scesi da un vecchio trabiccolo di brigantino per recarmi nel quartiere ebreo alla ricerca di un abito sempre usato ma un poco più decente. Di quella prima
sosta in quei paesi che allora, i primi reporters dei grandi giornali, si divertivano a definire «del sole» ne serbo un ricordo orribile anche se terribilmente confuso.
   Credo d’aver imparato a bere proprio quella notte. Malgrado tutto, però, credo che quando scenderò in quella stazione un nodo di commozione mi stringerà la gola.
   Tornando in certe viuzze, tanto strette da non permettere il passaggio di due persone affiancate, alla ricerca di una piccola bettola che per porta aveva delle collane di bambù sonore come nacchere, unte dal contatto e da centinaia di mani di ogni razza, mi sembrerà di udire il fruscio di un paio di piedi scalzi che poi tante strade del mondo dovevano conoscere, di vedere l'ombra furtiva di uno sparuto ragazzo con gli occhioni spalancati e pieni di sgomento, davanti a tante cose nuove e per lui incomprensibili.
   Questo ero io e così cominciai la mia lotta per la vita, la mia conquista per un posto nel mondo.
Non sono arrivato molto in alto forse, considerando gli schemi su ci è basata la gerarchia della società comunemente intesa, ma la mia vita ragazzi, vi posso garantire che l’ho vissuta forse, meglio di tanti altri, certamente molto più intensamente di milioni di persone.
   Ora torno dopo tanti anni, verso questi luoghi che mi videro ragazzo, alla ricerca di un comune amico, il più sincero, il più cordiale, il più simpatico, il più forte, Fantax del quale da più di un mese siamo privi di notizie.
   Fra alcuni giorni mi recherò nelle terre infuocate dove quei visi di limone stanno suonandosele come forse non è mai accaduto nel corso della loro storia plurimillenaria.
   La notte è scesa con la caratteristica rapidità di queste regioni, i miei occhi stanchi indovinano, più che vedere, le parole che scrivo, penso con malinconia, con tutta la malinconia propria delle persone d’età che lì nella nostra bella penisola avete forse ancora il sole alto sull’orizzonte e con questa visione nel cuore, più dolorosa di tutto ciò che l’immaginazione può suggerirmi di dover prevedere nel corso di questo mio viaggio, socchiudo gli
occhi al sonno riparatore.
A presto ragazzi e speriamo con buone notizie.
Lupo Rosso


   Nel 1949 Giovanni Luigi Bonelli collaborava con lo stesso editore con cui LucianoBottaro – arrivando in bicicletta da Rapallo – stampava il suo Aroldo il bucaniere.  E ho proprio idea che Lupo Rosso era il nom de plume con il quale firmava quel gran dio del fumetto popolare ed erede di Emilio Salgari: Gianluigi Bonelli… e per averne conferma – oltre a nominare come popolo pellerossa, i navajo – basta vedere il “marchio di fabbrica” nell’esclamazione di Robin Hood: peste !


Marco Pugacioff
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martedì 19 giugno 2018

Johnny Manila - un singolare personaggio


 
Johnny Manila
un singolare personaggio


   Un ingegnere chiamato Ted Ariston ha deciso di far rinascere una leggenda, quella di Zorro. Un giorno, salutata – bisogna ammettere con molto calore – la sua fidanzata Kate, prende la diligenza per Nogales. Ma la diligenza viene rapinata dalla banda di Zitar, lasciando dei morti dopo la scorreria.
 
Zitar e la sua malefica madre
   Ted (non Tex, chiaro), recupera un cavallo dal traino della diligenza e con la sua valigetta si butta sulle tracce della banda, non prima di essersi fermato, e cambiato in Zorro. Una colt, la maschera nera e il capello di stile messicano in tutto uguale a quello di Don Diego (si somigliano pure, ma saranno imparentati?) sono in un doppiofondo della sua valigia.


La copertina dell’albo...
...e la prima tavola 

   Dopo uno scontro con dei guerrieri Cherokee, Zorro entra nel paese di Silver City. Dopo essersi sfamato, presa una stanza, sta per coricarsi a letto, quando gli si presenta un singolare personaggio senza il braccio sinistro e armato di un kriss, il pugnale malese usato da Yanez de Gomera. È Johnny Manilla ! 


    Manila cerca Zitar per vendetta e alla fine i due nuovi amici scoveranno il covo della banda in un cimitero. L’episodio uscì sulla collana mensile Zorro gigante n. 10 anno II, dell’agosto 1970.


       Il personaggio è nato e la casa editrice decide di crearne una collana e nell’agosto del ’71 esce il primo numero, il cui titolo è tutto un programma:  "Ci rivediamo all'inferno!"

La pubblicita di Manila in Zorro 

   Manila e Zorro si rincontrarono almeno in altra avventura, e qui Manila (dato il cognome, anche se biondo, è sicuramente di origine messicana) già conosce il volto nascosto dietro la maschera di Zorro. Quest’altro episodio lo trovato nel 3 di Zorro gigante del ’76, intitolata “Il tatuaggio”. È la seconda parte di una storia iniziata nel numero precedente  e che non possiedo, ovvio che, visto il tipo di disegno, potrebbe anche essere una ristampa di numeri precedenti.
  


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piccolo aggiornamento novembre 2021
Esiste anche un'altra avventura in cui Manilla compare in Zorro. L'ho "scoperto" grazie alla mia passione per gli albi stampati a Novi Sad, in serbocroato (a caratteri latini - e non cirillici - per essere comprensibili negli stati della ormai defunta federazione) nel 1973.
 
 
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Manila è micidiale sia con la colt che il pugnale. Dalla striscia “Pistolettate in <<Do maggiore>>"


Un bel collegamento a C’era una volta il West di Todaro

     L’autore dei testi dovrebbe essere sicuramente Furio Arrasich, così come mi ha scritto Angelo Todaro in una e-mail del 18-06-2018: «I disegni di alcuni erano miei (come quello che hai mandato), i testi erano solitamente di Furio Arrasich. Però non so se c'erano altri autori.» 

Una delle belle tavole di Todaro

   In effetti altri autori c’erano. Secondo la pagina di guida al fumetto italiano (http://www.guidafumettoitaliano.com/guida/testate/testata/3804) «Nel 1973 disegni Studio Di Vitto e di Onofrio Bramante. Copertine di Franco Picchionni (P. Franco) e Studio Par. In appendice la storiella comica JOHNNY MANILA di Oriali.» Ovviamente qui Todaro non è citato.

Il Manila umoristico di Oriali. L’autore realizzò anche la versione umorista di Geronimo, Zorro e Il santo, sempre per Cerretti. 


   Di Furio Arrasich (classe 1934) ho letto una biografia su https://comicvine.gamespot.com/furio-arrasich/4040-83908/ in cui è scritto che
si trasferì a Roma negli anni '50, iniziando come giornalista per i quotidiani e come autore di romanzi polizieschi per la casa editrice Cofedit. Nel 1964, creò Fantax, il suo primo personaggio a fumetti (ovviamente nulla che vedere con la creatura francese di Marcell Navarro), che fu presto raggiunto da Demoniak, Dany Coler e Alika. 

 
Dopo la chiusura di Cofedit, ha lavorato ai fumetti Zorro, Geronimo e Johnny Manila per Cerretti. È stato nominato direttore della serie settimanale Menelik nel 1971 e ha debuttato con Maghella, prima disegnato da Dino Leonetti, e più tardi da Mario Janni. 


Nel 1972, Arrasich collaborò con Cavedon per scrivere Peter Paper, una serie creata da Pippo Franco e disegnata da Raul Buzzelli. Ha lanciato Sorchella nel 1974 e ha scritto per vari fumetti, tra cui Jacula, E.P, Risate, Racconti Stellari e Pippo. Nel 1982, ha lasciato il fumetto per diventare un editore.

   Di Manila dovrebbero essere usciti 21 numeri in tre anni, fino al ’73. i titoli sono ripresi dalla pagina della guida sopracitata e sono:
Anno I
01 (00.08.71) – “Ci rivediamo all’inferno!”
02 (00.09.71) – “Fate la festa a Manila”
03 (00.12.71) – “Precedenza ai cadaveri”
04 (00.12.71) – “Missione a Cotton Hall”

Anno II
01 (00.01.72) – “A tutto piombo”
2/3 (4) (00.04.72) – “Per un pugno di piombo”
04 (5) (00.05.72) – “Chi beve birra campa cento secondi”
06 (00.06.72) – “Se ci tenete alla pelle”
07 (00.07.72) – “Missione a Cotton Hall”
8/9 (00.09.72) – “E non interrompermi quando sparo”
10 (00.10.72) – “Un inferno, signori miei!”
11 (00.12.72) – “Il vecchio indiano”

Anno III
01 (00.01.73) – “Il cimitero dei bastardi”
02 (00.02.73) – “Giustizia, ragazzo, e non vendetta!”
03 (00.03.73) – “Precedenza ai cadaveri”
04 (00.04.73) – “El Rojo”
05 (00.05.73) – “Fate la festa a Manila”
06 (00.06.73) – “Chi beve birra campa 100 secondi”
07 (00.07.73) – “Pistolettate in do maggiore”
08 (00.08.73) – “La lunga pista per il Nord-Ovest 2ª parte: Tramonto bianco”
09 (00.10.73) – “E me che cercavi, rubagalline?”

   Il personaggio riapparve in una ventina di albetti a striscia dal ’76 al ‘78, tutte ristampe.
 
    Personalmente ritengo che questo singolare personaggio, avrebbe potuto apparire anche sul grande schermo – in uno spaghetti western – ma per miopia o chissà cos’altro non ha avuto purtroppo questa opportunità.
 ringrazio i signori

Angelo Todaro
e
Domenico Di Vitto
 per la loro cortesia 


Marco Pugacioff
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