fig.
1: Abbazia di Marienberg - Cristo pantocratore
Teofanie cosmografiche,
ovvero l’origine
del “Sacro manto geografico”.
di Claudio Piani & Diego Baratono
§§§§§§§§§
1.
PREMESSA. - Risale ormai all’anno 2003, l’identificazione della fonte
iconografica radice del mappamondo affrescato sulla volta della cosiddetta
“Sala della Creazione”, spettacolare ambiente nella dimora rinascimentale
valtellinese dell’antica famiglia dei Besta a Teglio (Sondrio). L’importante
scoperta, oltre ad innescare discussioni sulla diffusione di ben determinata
scuola cartografica rinascimentale [1], nella fattispecie quella teutonica
riferibile al matematico Caspar Vopell, ha portato alla nostra considerazione
pressanti interrogativi sulla presenza di così ricercato e particolare
manufatto, in contesti socioculturali apparentemente privi di particolari
interessi su questioni geografiche ormai lontane.
Palazzo
Besta è dimora patrizia del secolo XV al centro di un’antica via di
comunicazione, che smistava la tratta Venezia - Parigi, passante anche per i
Vosgi, con quella che da Milano portava a Vienna attraverso i passi retici del
Bernina (insellatura a 2323 m; oggi vi transitano la strada e la ferrovia
Tirano – Sankt Moritz) e orobici dell’Aprica (a 1172 m). La struttura
architettonica del palazzo nobiliare dei Besta, elegante e sobria, è riverbero
della linea compositiva dei banchi medicei progettati nello stesso periodo dal
fiorentino Filarete, al secolo Antonio Averlino (Firenze, ca. 1400 – Roma, ca.
1469), per il Duca Francesco Sforza. Gli apparati decorativi presenti nella struttura
in discorso, quali le “Storie di Enea”, il ciclo dell’“Orlando Furioso”, le
“Metamorphosi” di Ovidio, la “Sala della Creazione” o del “Mappamondo”, sono
realizzazioni della metà del secolo XVI. Sono, con tutta evidenza, chiara
espressione della profonda cultura umanistica dei committenti, i nobili Besta
appunto. In nostri precedenti studi (Piani, 2004), si è evidenziato come le
pitture racchiuse nella splendida volta della sala in parola, orbitanti appunto
intorno al mappamondo vopeliano, sono fedele racconto per immagini del ciclo
biblico della “Creazione”. In dettaglio si trovano rappresentati: la “Genesi
della Luce”, la “Separazione delle Acque”, la “Creazione degli Animali
terrestri, dei Pesci e degli Uccelli”, la “Creazione delle Stelle”, ed in ultimo,
la “Creazione d’Adamo ed Eva”. Importante l’iconografia a fondamento d’alcune
scene dipinte nella volta, in particolare quell’inerente alla nascita d’Eva: in
buona misura, questa sembra replica di figurazioni prototipiche, circolanti in
ambiente prettamente toscano. Più precisamente, si tratterebbe delle creazioni
riferibili allo scultore - architetto Andrea Pisano o da Pontedera, visibili
nelle formelle alla base del campanile giottesco del duomo fiorentino, e di
quelle ascrivibili al senese Bartolo di Fredi, le cui opere pittoriche,
eseguite verso la metà del Trecento, sono ancora splendidamente conservate
nella navata sinistra della Basilica di Santa Fina a San Gimignano.
L’indicazione, si vedrà meglio in seguito, è di vitale importanza per avvicinare
ed intendere l’insolita strutturazione e culturale e sociale, che ha
consentito, ad una località decentrata quale si direbbe Teglio, l’elaborazione
e la gestione sapiente di potenti modelli espressivi, per dir così, “ermetici”.
Sono molto particolari le tematiche in discorso, invero, maneggiate finanche in
modo disinvolto in questo contesto prettamente montano. Si direbbero
costruzioni mentali radicate, piuttosto che altrove, nel sofisticato mondo
fiorito alla luce ed al calore della Firenze umanistico-rinascimentale, ora
trasformatasi in straordinario forno alchemico, influente “atanor” formativo
radiante cultura a trecentosessanta gradi. La sala del mappamondo valtellinese
ha dimensioni raccolte in 48 mq; è esposta a nord e molto probabilmente era adibita
a stanza da letto od a biblioteca. Tutti gli indizi portano ad immaginare un
utilizzo del locale come luogo di raccoglimento, d’ozio e, soprattutto, di
meditazione. I mappamondi, che sovente decoravano questo genere di locali,
erano ingredienti propedeutici all’ideale svolgimento di determinate pratiche
meditative. Le scene dipinte, infatti, solitamente ricoprivano notevole
funzione didascalica per l’osservatore. L’ornato si rivelava essere vero e
proprio trattato di storia universale illustrata consultabile in ogni momento,
senza la “fatica” di sfogliare ingombranti quanto delicate pagine di
costosissimi libri. Il “mappamondo”, come buona parte delle poche storie
universali ed enciclopedie circolanti nel Medio Evo, aveva lo scopo di
concentrare su di sé la sintesi dell’intera opera che lo conteneva. Il
mappamondo, si è già detto, svolgeva “anche” la funzione di riassunto per
immagini. Non è da meno, quindi, la decorazione pittorica ideata per l’interno
della “Sala della Creazione”, che acquista valenze polarizzanti, in grado di
condensare tutte le immagini bibliche presenti nel locale, in unico continuum
spazio-temporale. Ugo da San Vittore scrive nel prologo della sua Descriptio
mappae mundi: “Sapientes viri, tam seculari quam ecclesiastica litteratura
edocti in tabula vel pelle solent orbem terrarum dipingere, ut incognita scire
volentibus rerum imagines ostendant, quia res ipsas non possunt presentare…”.
L’idea tanto corretta quanto moderna, che le rappresentazioni per immagini in
genere, geografiche in questo caso, aiutino a recepire meglio i concetti
rispetto ai testi scritti cui s’accompagnano, sarà ribadita successivamente
anche da Ruggero Bacone e da Francesco Petrarca.
Petrarca,
infatti, proclama i mappamondi addirittura superiori al viaggio fisico stesso.
Si trasmette in qualche misura l’idea, che questi particolari oggetti non
sarebbero semplici costruzioni decorative ma vere e proprie finestre sul mondo,
interiore ed esteriore, della conoscenza. Potenti varchi virtuali nel tempo e
nello spazio in grado di trasportare istintivamente chiunque sia partecipe, in
luoghi lontani, sconosciuti, instillando ricchi contenuti pedagogici in chi
osserva. Nel Medio Evo, inoltre, i mappamondi erano utilizzati per “spiegare
illustrando” aspetti appartenenti sia alla dimensione trascendentale e
religiosa, sia a quelli più pragmatici ed immanenti dell’ambito secolare loro
contemporaneo. Questa funzione contemplativa, però, le immagini geografiche non
la perdono con il trascorrere dei secoli.
Anzi la ritroviamo rafforzata leggendo alcune riflessioni fatte su questi
manufatti da personaggi di spicco, come il cardinale Francesco Piccolomini,
futuro Pio III, nel momento in cui commenta un mappamondo inviatogli nel 1465
dal cartografo veneto Antonio Leonardi, o come nel 1580, nel suo scritto
“Discorso intorno alle immagini sacre e profane”, il vescovo di Bologna,
Gabriele Paleotti, paragona le carte geografiche, per il loro significato
didattico-moralizzante, alle stesse immagini
sacre.
La
domanda è inevitabile: anche la carta affrescata di Palazzo Besta assume
dunque, queste funzioni dai chiari connotati didattico-meditativi (Mangani,
2006b). Cerchiamo di capirne di più.
2.
UN NUOVO PARADIGMA COSMOGRAFICO. - L’originale profilo policircolare che
avvolge e determina la tipologia di proiezione del mappamondo valtellinese, si
è sostenuto più e più volte, è inequivocabilmente riconducibile alla medesima
sagomatura “palliografica”[2]
impiegata dal Waldseemüller per incorniciare la sua carta del 1507. Questa
ormai è storia. A seguito d’ulteriori indagini, nondimeno, la nostra ricerca
partita dal mappamondo murale lombardo, raggiunge acuti toni sacri,
apprezzabilmente subliminali, inaspettatamente universali (Piani, Baratono,
2008). Il Medio Evo vede utilizzare i mappamondi come vere e proprie pale
d’altare o, si è già più volte detto, quali mirate integrazioni
iconografico-didascaliche, scelte per ornare pagine di preziosi salteri. Le
immagini geografiche diventano pregiati sottofondi d’accompagnamento,
stimolanti le menti dei fedeli attraverso la “materializzazione” visiva
d’episodi citati nelle sacre scritture. I mappamondi, percepiti come veri e
propri emblemi religiosi, erano impregnati della stessa carica simbolica
consueta sia in altre raffigurazioni sacre più ricorrenti, sia nei testi a
queste abbinati. Di fronte a rappresentazioni geografiche tanto consistenti, il
fedele avvertiva, potente e simultanea, duplice spinta emotiva: a raccogliersi
in preghiera e, contemporaneamente, ad aprirsi, a “viaggiare” con la sua mente
verso il mondo. L’immagine del Cristo, spesso sovrastante le rappresentazioni
cosmografiche in discorso, riprende posture classiche specifiche del “Cristo
Pantocratore”. La figurazione sacra del Cristo Pantocratore, solitamente, è
dipinta nel catino absidale delle chiese medievali. Cornice caratteristica
all’immagine del Cristo, diviene la figura geometrica della cosiddetta
“mandorla mistica”. Speciale involucro ellissoidale a racchiudere l’immagine
divina, intenso simbolo sia della Maiestatis Domini sia della Regina
Coelis, ossia di Maria, nel primo cristianesimo la mandorla o amigdala,
assume intonazione, per dir così, “esoterica”. La “nuova religione”, infatti,
nei difficili momenti aurorali della sua comparsa, utilizza la mandorla,
splendida metafora geometrico-simbolica riferentesi all’Acqua, per trasmettere
valori e contenuti del tutto propri. L’amigdala diverrà, di qui per sempre,
anche la vesica piscis, diretto richiamo al noto ιχθύς [ichthýs],
acronimo di: Iesous CHristos THeou Yiòs
Soter, ossia Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore[3]. La vesica piscis
ha modellato semplice, ma quanto mai efficace a livello simbolico. Si ottiene
geometricamente intersecando due circonferenze. Ora, in qual modo l’antica
simbologia religiosa, qui considerata, rientra nel percorso d’indagine
intrapreso? Per qual motivo la “mandorla” o vesica piscis, custode di
precisi linguaggi figurativi religiosi, si trova riecheggiata in alcune
particolari carte geografiche, come quella realizzata nel 1507 da Martin
Waldseemüller e quella, seriore, dipinta nella Sala della Creazione? Qual è, se
esiste, il nesso tra “amigdala”, vesica piscis e “mantello”? Il simbolo
della “mandorla mistica”, riferisce di tentativi mirati a fondere e
dissimulare, anche attraverso innovative dimensioni geografiche, trascendenza
ed immanenza, creatore e creazione. Per intendere meglio il discorso occorre
abbandonare per un attimo la visione iconografica cristiana medievale, e
risalire nel tempo, a quando visse il greco Strabone d’Amasia (64 a.C. - 20
d.C.), storico e geografo tra i più importanti dell’antichità. Nei diciassette
libri della sua autorevole e vasta opera sulla Geographia, Strabone
descrive più volte il mondo quale grande isola a forma di clamide, riprendendo
in siffatto modo la visione di Eratostene di un ecumene a forma ellittica:
“…che lo schema dell’ecumene abbia forma di clamide è assolutamente chiaro, dal
momento che le estremità orientali e occidentali si rastremano a ugnatura,
battute dall’Oceano, e diminuiscono di larghezza …”.
Strabone
nel passo citato, estratto dal libro II, utilizza il preciso termine “clamide”.
Il significato del vocabolo “clamide”, equivale a “pallio”, in pratica, a
“mantello”. Il capo d’abbigliamento in parola, sorta di corto mantello, era
indossato dagli antichi guerrieri greci tessalici; di fattura semicircolare, si
portava sulla spalla sinistra. Strabone insiste in merito alla peculiare forma
ellittica data ad alcuni mappamondi, con sagomatura riconducibile appunto alla
foggia della clamide; ma perché utilizzare un siffatto termine di paragone?
Tecnicamente, il modulo geometrico della mandorla-clamide, è funzionale, a
migliore trasposizione su piano bidimensionale, delle coordinate sferiche tridimensionali
ricavate “misurando” il mondo utilizzando come punto proiettivo azimutale un
parallelo del Mediterraneo. Strabone, invero, si sofferma frequentemente sulla
similitudine intercorrente tra rappresentazione geometrica e mantello.
Ciò
induce a ritenere le riflessioni del geografo greco, come sarà meglio
confermato in seguito, contenere riferimenti iconografici e simbolici più
carsici. Questi riferimenti, dopo la debita ricodifica, sono confluiti in altri
orizzonti culturali. Peculiari correlazioni tra allegorie sacre cristiane ed
alcune carte geografiche sembrerebbero confermare l’idea. Il profilo a guisa di
mandorla, rappresenterebbe dunque, per il primo mondo cristiano, la
stilizzazione del simbolo acquatico dell’ ιχθύς, del “pesce cristico”.
L’amigdala racchiude, letteralmente, testimonianza di tentativi sincretistici
orientati da un lato a stigmatizzare e dall’altro ad assorbire e ricodificare,
modelli simbolici molto più arcaici, legati originariamente al potente,
indelebile culto della Magna mater, al suo fertile organo sessuale,
apertura imprescindibile dalla quale erompono forme di vita sempre nuove. Il
simbolo ittico cristiano dell’ ιχθύς, del “pesce eucaristico”, include
percorsi metonimici facilmente rintracciabili. Partendo da archetipi
primordiali totalmente muliebri, questi evolvono ramificando sia nella
simbologia “al maschile” del Cristo Pantocratore, sia mantenendo l’antica allusione
“al femminile” fiorendo nel dolce richiamo mariano.
La
raffigurazione in parola, in ogni caso, non è esclusiva delle iconografie sacre
medievali. La cosa è alquanto curiosa, poiché la geometria amigdalica si
ritrova involucro d’alcune raffigurazioni zodiacali, come riscontrabile nelle Très
Riches Heures del Duca di Berry, del 1413, ed inoltre, già cornice
per alcune rappresentazioni geografiche del secolo XIV. Queste ultime,
realizzate dal monaco inglese Ranulf Higden, rappresentano capitolo a se stante,
nello scenario cartografico medievale.
Il
motivo che ha indotto il religioso a realizzare tali carte geografiche,
tuttavia, non è ancora del tutto chiaro. Potrebbe essere ipotesi plausibile che
il monaco inglese, veduti casualmente arcaici manufatti geografici di forma
ellissoidale, sia rimasto colpito dalle inusuali fattezze utilizzate. Il
religioso intuisce, forse, che gli antichi adoperavano forme e moduli
iconografici identici a quelli codificati poi dal mondo cristiano. Per il
monaco recuperare la versione greca dei mappamondi a forma d’amigdala-clamide,
rimaneggiarne il contenuto allegorico originario sostituendolo mediante
iconografie dal tenore cristiano come la vesica piscis, effigie del
Cristo, sembra diventare atto spontaneo, forse perché a lungo meditato. I
mappamondi medievali a forma d’amigdala-clamide, secondo nostro ragionamento
dunque, suggellano nel loro interno elevati e delicati concetti sincretistici,
che riportano indietro nel tempo, a primigenie tradizioni mitico-simboliche assimilate,
rivalutate e trasfigurate in nuovi emblemi religiosi. Al contempo, nondimeno, i
mappamondi medievali rimangono veri e propri strumenti di lavoro al servizio di
più pragmatiche attività mercantili, mestieri scanditi a loro volta da
un’imprescindibile, irrinunciabile unità di misurazione temporale: la lunghezza
dell’“amen”. Spazio religioso e dimensione del quotidiano, forse per la prima
volta, vengono a trovarsi armonicamente integrati. L’ermetica rappresentazione
amigdalica è tanto efficace, da essere ancora utilizzata, nel 1457, nel famoso
planisfero denominato “Atlante genovese”, per via delle simbologie araldiche
contenute, appartenenti alla nobile famiglia degli Spinola (Baldacci, 1983).
Fig.
2 Mappamondo a mandorla, Ranulf Higden
Fig.
3: Atlante genovese, 1457.
Era
tradizione abbastanza consueta, dunque, concepire certe carte geografiche come
moduli figurativi dai contenuti religiosi non sempre “in chiaro” per modalità
d’espressione. Il linguaggio simbolico adottato spesso è criptico. I contenuti,
tuttavia, risultano “decrittabili” ed “operativi”, nel momento in cui si riesce
ad individuare la versatile chiave di lettura, il software, a sua volta
in grado d’attivare i differenti hardwares coinvolti, ossia mappamondi a
forma di clamide, Cristi Pantocratori e Madonne Misericordiose, riducendo il
tutto ad unico, comprensibile linguaggio. Per quanto conosciamo, la “Creazione
del Mondo nel suo terzo giorno” è il potente software di riferimento da
utilizzare in quest’ambito culturale. Si può aggiungere, inoltre, che la carta
di Palazzo Besta, presentando tutti i tratti simbolici sin qui messi in
evidenza, appartiene, a fortiori, al medesimo genere
simbolico-descrittivo.
3.
L’ORIGINE DEL SACRO MANTO GEOGRAFICO. - L’azione primigenia che innesca
l’“Atto” per eccellenza, è dar forma, plasmare e controllare una matrice
primordiale indefinita. L’atto è autoreferenziale, nel senso che assume tutta
la sua efficacia ed energia nel momento in cui il Creatore manifesta a se
stesso l’opera finita in ogni suo dettaglio, compiacendosi del lavoro ultimato.
La materia a questo punto è riconoscibile, fisicamente localizzata nello spazio
e di conseguenza nel tempo.
Disparate rappresentazioni fotografano
questo momento fondante: riportano ad antichi topoi, presenti nelle più
remote tradizioni, da quell’egiziana fino a quella greca per proseguire fino a
quell’ebraica, attraverso miti e leggende. In proposito, episodio mitologico
particolarmente interessante tra i numerosi che hanno attirato la nostra
attenzione, è certo l’elaborazione mitopoietica del filosofo presocratico greco
Ferecide di Siro, del secolo VI a.C. Le sue idee sono raccolte nell’opera
cosmografica La caverna dei sette anfratti. Il racconto, attraverso
azione sacrale molto suggestiva e particolare, celebra le nozze mistiche tra
Zeus e la Terra, Ctonia, in seguito Gea. L’avvenimento sancisce
nuovo ordine cosmico. La divinità incontra Ctonia, la Terra, ancora
informe da plasmare e identificare. Le depone quindi sulle spalle un mantello
ricamato, ideale “strumento pedagogico”, dove compaiono le terre, i monti, i mari
e le città:
per
lui fanno le case, molte e grandi. E dopo che le ebbero portate a termine,
tutte, assieme ad arredi e a servitori maschi e femmine, e a tutte le altre
cose necessarie, ecco, quando tutto risulta pronto, fanno le nozze. E quando
giunge il terzo giorno delle nozze, allora Zas fa un manto grande e bello, e su
di esso intesse in vari colori Terra e Ogeno e il palazzo di Ogeno … volendo
invero che le nozze siano tue, con queste ti onoro. Ma a te salve da me, e tu
con me congiungiti. Ecco come furono per la prima volta – dicono – i riti del
disvelamento: da ciò prese poi origine la consuetudine, sia per gli dèi sia per
gi uomini. Ed ella gli ribatte, ricevendo il manto da lui….[4]
Nel
frammento papiraceo del III-IV secolo d. C., scoperto nel 1897 da Grenfell e
Hunt, è descritta tale particolare ed enigmatica rappresentazione cosmogonica.
La potenza plasmante del manto geografico intessuto da Zeus, nell’avvolgere la
massa terrena, realtà immanente ma indistinta ed offuscata, informe ma incorrotta,
rappresentata appunto da Ctonia, darà vita al cruciale processo
formativo. La grezza spazialità sferoidale acquisirà, attraverso l’omaggio
onorifico del “mantello”, potente atto sacro, le sembianze di Gea, ossia
della Madre Terra. Avverrà, la metamorfosi, proprio il terzo giorno,
secondo progetto precostituito di chi ha già in mente il chiaro disegno
cosmografico da realizzare. Il mito di Ferecide delle nozze tra Zas e Ctonie,
prima che fosse ritrovato il frammento citato, era parte di testimonianza lasciataci
da Diogene Laerzio: “Zas orbene e Tempo furono sempre, e Ctonie: ma a Ctonie
toccò il nome di Terra, dopo che Zas la onorò dandole la terra in dono”.
Clemente Alessandrino (150-215 d.C.), ecclesiastico greco profondamente intriso
di pura spiritualità neoplatonica - substrato mistico-culturale questo, ripreso
nel secolo XV proprio a Firenze da Argiropoulo, Cusano, Ficino, Pico della
Mirandola - nei suoi Stromata [5] riecheggia lo stesso mito: “…un mantello
grande e bello, e in esso raffigura Ge e Ogeno e le case di Ogeno…”. Clemente,
nello stesso passo, accenna a figura di quercia alata, o terebinto, pianta
simboleggiante solitamente sapienza vergine e misericordia, su cui è disteso il
particolare pallio ricamato.
L’abbinamento
del manto con l’albero origina valori semantici ben superiori alla semplice
somma delle singole parti in gioco. Si tratta, infatti, di significati
paradigmatici tanto potenti da improntare, governandolo, l’atto più sacro ed
insondabile dell’intero ciclo mitologico: la creazione nel terzo giorno del
mondo e della realtà apparente in cui esso si agita. Particolare indicativo, è
il movimento “fisico” del pallio geografico: da posizione avvolgente sulle
spalle di Gea, a sistemazione aperta sui rami del sacro albero alato[6]. Alla vista, è
inevitabile, il manto disteso assume precisa, inequivocabile, inconfondibile
configurazione. Si tratta della stessa sagomatura riscontrata in peculiari
rappresentazioni sacre cristiane: le Madonne ed i Santi che aprono le braccia
in segno di protettiva accoglienza. Sono questi i soggetti deputati ad
indossare manti la cui valenza, senza dubbio, è misericordiosa. L’iconografia,
però, sembra riprendere tratti e posture di figure antropomorfe molto più
antiche, caratterizzanti rappresentazioni rupestri dell’età del Bronzo con
soggetti, i cosiddetti “oranti”, in atteggiamento votivo ed a braccia
spalancate.
Il
modulo dalla speciale impronta figurativa “pallioforme”, sembra trasparire
anche dal contorno proiettivo di figurazioni geografiche quali la carta del
1507 di Martin Waldseemüller o quella seriore di Caspar Vopell. L’immagine del
mantello, suggestiva per evocare l’antico mito ferecideo, curiosamente
sopravvive nel tempo. A distanza di duemila anni, infatti, nel secolo XVI, si
ritrova medesima rappresentazione, integra nel significato, utilizzata da
alcuni artisti per celebrare l’epocale momento della scoperta e battesimo del
Nuovo Mondo. Stradanus, ad esempio, per realizzare la composizione figurativa
della sua Americae retectio, ripropone ingredienti mitologici esclusivi
della teofania immaginata da Ferecide. La scoperta dell’America, meglio
d’altri, sembra essere topos privilegiato dove l’atto del
“disvelamento”, mitologicamente sacro in Ferecide, si trasfigura assumendo
colorazioni di puro atto creativo, ancora sacro sì, ma ora dalle forti
modulazioni cristiane; più precisamente, “mariane”.
Con
la scoperta del “Nuovo Mondo”, all’intero genere umano si è rivelata la quarta
parte del mondo. Il manto, che per Ferecide è ingrediente catalizzatore della
creazione, si ritrova, nella rappresentazione dello Stradanus, sfondo
eccellente per tratteggiare l’idea commemorativa originatasi nell’uomo
rinascimentale sull’epocale impresa. Stradanus è noto per pregevoli incisioni
sulla visione allegorica dell’America, che in genere rappresenta come donna
nuda, soggetta allo sguardo vigile d’Amerigo Vespucci, in sembianze marziali.
L’elemento che più colpisce osservando la sua Americae retectio, è
proprio il drappeggio con cui il mantello quasi domina, avvolgendolo, il globo
terracqueo. La scena è carica di figure simboliche: la colomba, palese richiamo
allo Spirito Santo, tiene con il becco un apice dell’ampio tessuto. Enigmatico,
Giano, rappresentante la città natale di Cristoforo Colombo, ossia Genova,
curiosamente, tenta invano di sollevare la sua porzione di manto.
L’azione
del “disvelamento”, invece, si rivela di facile esecuzione per la figura
opposta a Giano. Si tratta di Flora, chiaro riferimento a Firenze, patria
dell’altro protagonista della vicenda, ossia Amerigo Vespucci. Sottili le
allusioni riferibili alle imprese dei due navigatori. Si tralasciano, tuttavia,
per concentrare l’attenzione sul panneggio avvolgente del maestoso mantello.
Chi ha dimestichezza con modelli figurativi sacri, osservando il mantello
profilato da Stradanus, scorgerà immediatamente forte similitudine con
rappresentazioni di “Madonne misericordiose”, che utilizzano l’apertura del
proprio manto per contenervi al di sotto, particolari vedute scenografiche [7].
Fig.
4: Johannes Stradanus, Frontespizio della Americae retectio,
1592, incisione di Adrian Collaert.
Il
pallio teso dalla colomba, ossia dallo Spirito Santo, dunque, diviene potente
ancorché imperscrutabile riferimento a Maria. Maria, quindi, unica mediatrice
possibile tra dimensione trascendente ed immanente, partecipa in maniera dinamica
all’azione, offrendo aiuto protettivo al disvelamento del Nuovo Mondo,
attraverso il suo generoso abbraccio universale. L’intreccio d’allusioni
iconografiche tanto intense ed articolate, grazie al “palium geografico”
suggerito da Ferecide di Siro, incomincia ad acquisire significato. La
profilatura del manto presente nell’Americae retectio, infatti, oltre a
richiamare l’emblema palliografico caratteristico delle Madonne misericordiose,
si riallaccia chiaramente ad uno dei più conosciuti mappamondi del secolo XVI,
ossia quello realizzato nel 1507 a Saint-Dié dal geografo e matematico Martin
Waldseemüller (Piani, 2003a e 2003b).
Fig. 5: Martin Waldseemuller, Universalis
cosmographiae, 1507.
4.
METONIMIE PROFANE E SACRE. - L’azzardo nostro è volere dimostrare l’esistenza
della simbologia sacra del mantello, celata da oltre cinque secoli, fra i
tratti sinuosi di una delle più importanti carte rinascimentali conosciute. In
altri termini, si è fermamente convinti che le puntuali sintesi
iconico-cosmografiche rintracciate, oltre ad essere raffinatissima elaborazione
di una o più occultae mentes posizionate a livello di retroscena nel
contesto di questa vicenda, conservano strutture semantiche tutt’altro che
trascurabili. Anzi. I contenuti sono rivelatori del diretto coinvolgimento tra
chi, in qualche modo, ripristinando certa continuità storica ricodifica
primordiali simbologie sacre proiettandole nelle profondità narrative del
documento cardine per la storia della geografia, ossia la carta del
Waldseemüller, e chi perpetua “tradizioni sapienziali” dai contenuti non sempre
allineati con la cultura ufficiale del momento, ossia il mondo umanistico
fiorentino. La nostra chiave di lettura, infatti, trova favorevole riscontro in
certi significativi passaggi epistolari ed in precise raffigurazioni
pittoriche, testimonianza di contatti intercorsi fra il mondo culturale
umanistico italiano e quell’erudito operante a Saint-Dié-des-Vosges agli inizi
del secolo XVI.
Fig.
6: Ghirlandaio, Madonna della Misericordia, 1472-73, Firenze,
Ognissanti.
Fig.
7: sovrapposizione in scala 1:1 della riproduzione dell'affresco denominato
Madonna della Misericordia
(
Ghirlandaio - chiesa di Ognissanti, Firenze 1473 ), con la carta di
Waldseemüller del 1507.
Oltre
alla lettera datata ottobre 1507 inviata da Renato II al cardinale Francesco
Soderini, fratello del gonfaloniere Pier Soderini, ritrovata in questi ultimi
anni dal professor Benoit Larger (2008), l’ipotesi di stretto rapporto fra
Saint-Diè e Firenze, si mostra stillare copiosa, ad esempio, dalla collazione
tra quanto scrive Amerigo Vespucci nella sua lettera a Pier Francesco de
Medici, di cui si riporta l’originale datato Siviglia 28 luglio 1500, la Nota
d’una letera scrive Amerigo Vespucci…., e l’introduzione della Cosmographiae
introductio stilata dal cosmografo vosagense Martin Waldseemüller nel 1507:
… Ho
acordato, Magnifico Lorenzo, che, così come v’ò dato conto per letera di quanto
m’è ocorso, mandarvi due figure della descrizione del mondo fate e ordinate di
mia propria mano; e sapiate che sarà una carta in figura piana e uno apamondo
in corpo sperico….
…con
l’aiuto dei libri di Tolomeo secondo una copia greca e aggiungendo le quattro
relazioni di Amerigo Vespucci, ho preparato una rappresentazione del mondo in
sfera solida e piana….
Da
questo ultimo passo, ma non è l’unico, emerge un’informazione preziosa. Gli
eruditi lorenesi sembrano aver preso spunto per il loro testo proprio dalle
lettere autografe d’Amerigo. I pregiati manoscritti, si deve ricordare
tuttavia, non erano certo disponibili a chicchessia, nella Firenze dell’epoca
(Formisano, 2006, pp. 20-22). Altro elemento indicativo, nell’insieme, è il
dipinto fatto realizzare sempre dai Vespucci a Firenze nella chiesa d’Ognissanti.
Realizzato dal Ghirlandaio intorno al 1472, curiosamente a vent’anni esatti
dalla scoperta ufficiale del “Nuovo Mondo”, il dipinto oltre a presentare
evocativi connotati religiosi cari ai fiorentini, ripropone il motivo simbolico
ricorrente in questo studio: la “Madonna della Misericordia” ed il suo
“mantello”. Sotto il manto della figura mariana compaiono, disposti in modo da
configurare evocative, quanto elusive, disposizioni geometriche, dodici
personaggi: Sant’Antonino più undici rappresentanti della famiglia Vespucci.
Tra questi fa capolino, giovane ed imberbe, Amerigo. Il volto del giovane
Amerigo presenta caratteristiche uniche, ben riconoscibili. I suoi tratti
fisionomici, infatti, sono perfettamente sovrapponibili a quelli del volto, ora
invecchiato, dell’Amerigo Vespucci rappresentato in cartiglio in alto a destra,
nel mappamondo murale del 1507 del Waldseemüller. Non esistono altre immagini
del navigatore fiorentino con stessi identici tratti identificativi [8]. Come spiegare,
dunque, la notevole “coincidenza” figurativa?
Per
quanto noto, è possibile che gli eruditi lorenesi acquisiscano il bozzetto
riproducente Amerigo in maturità, direttamente a Firenze, dalla famiglia stessa
del navigatore. E’ possibile, seconda ipotesi, che in seguito a spostamenti in
Italia dell’umanista Matthias Ringmann, gli alsaziani vengano a conoscenza
dell’insolita rappresentazione mariana presente a Firenze, nella chiesa di
Ognissanti [9].
Colpiti dall’insolita immagine mariana definita dal Ghirlandaio, ne realizzerebbero
copia. Si spiegherebbe così, la sorprendente sovrapponibilità geometrica
intercorrente tra la sagoma del mappamondo vosagense ed il contorno del manto
della Vergine, realizzato dal Ghirlandaio per il casato Vespucci. La terza
ipotesi potrebbe pensarsi commistione delle due precedenti. Il profilo del
manto mariano, dunque, si rivela essere il software, che suggella gesta
narrative cosmogoniche antiche, quelle di Ferecide, che riconducono al “terzo
giorno della Creazione”. E’ anche forte richiamo, nondimeno, a quel 25 aprile
del 1507, giorno in cui, per la prima volta, agli occhi degli uomini si
dischiudono orizzonti geografici certo nuovi, ma inspiegabilmente già definiti,
misurati, quasi perfetti. Si tratta di un Mundus novus per cui sarà
coniato il toponimo “America”, inglobato maternamente in un grembo
palliografico dissimulato sì, ma trasudante, in ogni caso, forti connotati
simbolico-persuasivi (Mangani, 2006a) [10].
La
scritta impressa sullo stilobate ai piedi della Vergine ideata dal Ghirlandaio
per i blasonati Vespucci, in effetti, esalta il significato mitopoietico e
pedagogico del momento creativo in parola. L’iscrizione latina recita: “della
misericordia di Dio è piena la terra”. Significativamente, il salmo poche righe
dopo descrive anche il “terzo giorno della Creazione” [11].
E’ quasi premonizione di quanto un giorno, alle pendici dei Vosgi, si sarebbe
disvelato all’umanità intera.
Il
mito fondante, la visione moralizzatrice di un destino mediato dall’intervento
divino sempre presente, sono ingredienti che ritornano vigorosamente anche
nell’iconografia del mappamondo affrescato valtellinese. Gli storici dell’arte
che si sono occupati della “Sala della Creazione” dove campeggia l’opera
geografica del Vopell, sono concordi nel sostenere gli affreschi religiosi
momento celebrativo a suggello dell’atto maritale, avvenuto nel 1576, tra il
cattolico Carlo I Besta e Anna Travers, nobildonna di famiglia protestante. Nel
ciclo pittorico gravitante attorno all’affresco geografico in discorso, spicca
la totale assenza di rappresentazioni antropomorfe delle divinità. Si legge in
filigrana, poderosa, l’influenza esercitata dalla cultura protestante dei
Travers, famiglia allora molto potente ed influente in Valtellina. E’ ovvio che
l’arrivo nella famiglia Besta del nuovo membro femminile, legato spiritualmente
a teorie riformiste d’oltralpe, abbia peso non indifferente nella scelta dei
motivi decorativi a carattere religioso della splendida sala. Modelli
figurativi protestanti, grondanti contenuti sacri cattolici che, però, hanno
avuto origine da quel grembo inesauribile costituito dal mondo culturale
umanistico fiorentino, dove tutto ha inizio, e che, come in un cerchio,
consente al tutto di concludersi decorando le pareti di una nobile dimora in un
piccolo sperduto borgo medievale delle Alpi retiche. Lo splendido mappamondo
vopeliano affrescato da anonimo nel 1570 [12], proprio per sua natura strutturale, per
forma e per contenuti, riconduce inesorabilmente alla sagoma del mappamondo del
1507 elaborata dal cenacolo vosgense. E’ inevitabile pensare, a questo punto,
che anche l’affresco valtellinese celi, nel suo profilo, la stessa simbologia
mariana della carta lorenese. Fu, dunque, scelta strategica mirata quella dei
cattolicissimi Besta, d’utilizzare un mappamondo palliografico, e quindi
mariano, all’interno di un ciclo d’affreschi dagli influssi “riformisti”? Si
voleva così equilibrare, in estremo atto sincretistico, i contenuti mediatici
degli stessi, troppo sbilanciati verso idee riformate? Esaminando l’impianto
iconografico del manufatto geografico valtellinese attraverso l’implacabile
crivello offerto dalla matrice palliografica, allo stato dell’arte, diventa più
che plausibile pensarlo.
Fig. 8: Sala della
Creazione, 1576, Teglio, Sondrio, Palazzo Besta.
Bibliografia
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Milano,
presso il Dipartimento di Geografia e Scienze umane dell’ambiente
dell’Università degli studi;
Si ringraziano per la loro cortese e
preziosa collaborazione:
il Professor Guglielmo Scaramellini,
dell'Università Statale di Milano
&
il Dottor Bruno Vecchio, Direttore della
Società Geografica di Firenze.
[1] History of Cartography World Wide Web,
Newsletter 2003, summer, Editor’ News, pp.3-4.
[2] A forma di mantello,
mariano in questo caso, come si vedrà oltre.
[3] Si veda a questo
proposito Baratono, 2004, pp. 89 e ss.
[4] Papiri greci, II, IV
secolo d.C.
[5] Tessuti, stoffe,
tappeti.
[6] Corre obbligo
ricordare la mitologia greca, con il “vello d’oro” dell’“ariete alato”,
dedicato ad Ares e conservato disteso su quercia nel bosco sacro al dio, nonché
l’avventurosa epopea marittima dei cinquantacinque navigatori “Argonauti”. Gli
ingredienti, coerentemente, sono sempre gli stessi. E’ ancor più interessante,
inoltre, il sottile richiamo alla clamide tessalica, giacché pure Giasone
proveniva dalla Tessaglia.
[7] L’iconografia in
parola è riscontrabile sia nella raffigurazione trecentesca della famosa
Madonna fiorentina di Peregallo, sia nell’antico logo mariano della Fabbrica
del Duomo di Milano. Il ricorso alla protezione mariana contempla dunque non
solo aspetti significativi per nobili famiglie o per anonimi devoti e
disciplini. E’ anche impiegata per emergenze architettoniche e piante di città,
lasciando già intuire l’utilizzo futuro che di questa simbologia pallioforme si
farà anche in ambito cosmografico. Il panneggio delle Madonne misericordiose,
dunque, si presta bene per essere trasformato da semplice immagine sacra, in un
vero e proprio sipario scenografico, sotto il quale si dispiegano a guisa di
diorama sfondi paesaggistici i più diversi. Troviamo un esempio di simile
utilizzo iconografico anche nelle splendide Madonne dipinte dal francese
Enguerrand Quarton nel 1553-54 o in quelle di Francesco di Giorgio Martini dove
riscontriamo Maria proteggere la città di Siena da eventuali calamità sismiche.
[8] Esistono impianti
iconografici similari, con immagini di personaggi illustri, nello “studiolo”
del Duca Federico da Montefeltro risalenti alla seconda metà del secolo XV. Si
tratta, quindi, d’iconografie coeve al dipinto del Ghirlandaio realizzato per la
chiesa d’Ognissanti. E’ inevitabile pensare ad una circolazione continua d’idee
nel periodo.
[9] I contatti finora qui
evidenziati con l’Italia da parte del cenacolo dei Vosgi attraverso la figura
dell’umanista Matthias Ringmann, sono comprovati dalla lettera di Gianfrancesco
Pico della Mirandola, nipote di Giovanni Pico, scritta e indirizzata a Matthias
Ringmann, ed inserita dallo stesso, nell’edizione tolemaica edita a Strasburgo
nel 1513. Nell’epistola datata 29 agosto 1508 si attesta che Pico fornisce al
Ringmann, partito da Strasburgo in direzione di Novi Ligure, dove allora
risiede il nipote di Giovanni Pico, un codice geografico greco che permette una
migliore traduzione dell’opera di Claudio Tolomeo in via di realizzazione. Il
codice è riferibile attualmente al Bav.Vat.Gr.191. Ringmann da Novi ligure
prosegue verso Ferrara dove incontra un altro letterato, Lilio Gregorio
Giraldi. Questo non è il primo viaggio in Italia del Ringmann. Nel novembre del
1505, infatti, aveva già incontrato Gianfrancesco Pico nella città di Carpi. E’
dopo questa sua visita, che Ringmann decide di proseguire verso Firenze per
allacciare rapporti con la famiglia Vespucci? Entrò nella chiesa di Ognissanti
per visitare le tombe degli avi di Amerigo rimanendo colpito dall’immagine
affrescata della Madonna della Misericordia che li sovrasta, suggerendola in
seguito a Gautier Lud, fervente mariano, Lud, infatti, fu colui che nel 1494
introdusse la festa della presentazione della Vergine al Tempio, per
utilizzarla come modulo strutturale del planisfero del 1507? Ricordiamo che
Ringmann era in animo giusto per recepire particolari stimoli religiosi. Nel
1504, infatti, studia a Parigi nel collegio del cardinale Le Moine: essendo
allievo dell’umanista Jacques Lefèvre d’Etaples, abbraccia le idee
spirituali-mistiche della devotio moderna. Questo movimento riformista
avvicina il credente attraverso un percorso spirituale misericordioso, che lo
porta ad immedesimarsi con la figura stessa del Salvatore, secondo una visione
della religione molto più personale. Da sottolineare inoltre l’opera Sintagma
de musis pubblicata nel 1511 dallo stesso Ringmann. Frutto dell’incontro
con l’umanista ferrarese Lillio Giraldi, partendo dalle notizie che gli antichi
greci e latini davano sul nome e sull’origine delle Muse, Ringmann, in questo
suo lavoro chiarisce la questione sul perché le virtù morali, le qualità
intellettuali, le scienze e i tre continenti del Vecchio Mondo abbiano
sembianze e nomi femminili. Esempio, quindi, illuminante di come l’alsaziano fosse
sensibile alla tematica della raffigurazione retorica della donna come
imprescindibile utero da cui tutte le arti e le virtù morali ebbero forma ed
origine.
[10] Si segnalano a
riguardo in questo studio, le note (4) e (7) dove Mangani sottolinea alcuni
passaggi fondamentali, basandosi proprio sulle ipotesi da noi prospettate a
partire dal maggio 2003, in merito alle quali la sagoma proiettiva della grande
carta murale stampata a Saint-Dié-des-Vosges nel 1507, possa celare un ermetico
messaggio simbolico caritatevole, ossia misericordioso.
[11] Salmo 33, 5. Altro
salmo molto interessante in questa prospettiva è il 104, Inno a Dio creatore,
dove esplicitamente si parla di manti e drappi in relazione all’atto creativo.
[12] Sono numerosi ed innovativi gli stimoli culturali, che
portano i geografi rinascimentali a rappresentare la realtà dello spazio che li
attornia, mediante precise regole matematiche e rigorose proiezioni
prospettiche. La riproduzione che una carta geografica riporta, ancorché
accurata, non è però fotografia della realtà, bensì unicamente rappresentazione
“simbolica” della stessa. La riproduzione che scaturisce ritraendo virtualmente
un certo territorio, nondimeno, offre l’illusione di sottomettere, per dir
così, al volere del geografo e del mecenate committente, le leggi stesse della
natura e del creato. Le carte geografiche, specialmente a grandi dimensioni,
destinate ad abbellire le sale dei palazzi nobiliari, divengono così veri e
propri strumenti deputati a promanare potere e stupore. L’usanza di decorare le
sale dei numerosi palazzi patrizi dell’Italia rinascimentale, prende avvio a
Venezia nel 1476, quando il geografo e prelato Antonio Leonardi viene
incaricato d’affrescare, con disegni di carte geografiche, la “Sala dello
scudo” di Venezia. Sarà soltanto nella seconda metà del secolo XVI, tuttavia,
che questa particolare forma d’arte si diffonderà in tutta la penisola grazie
all’iniziativa di Pio IV (1559-1565), ossia quel Giovanni Angelo Medici, già
arciprete di Mazzo Valtellino (Sondrio), che vorrà la Terza Loggia del Vaticano
decorata per mano di Pirro Ligorio, con ben trentasei carte geografiche.
Insieme alle gallerie delle carte geografiche del Vaticano, si devono anche
annoverare, come già detto, la “Sala dello scudo” di Venezia, la “Sala dei
Mappamondi” di Palazzo Farnese a Caprarola, la “Sala del Guardaroba” a Firenze,
la “Sala delle Carte” nella Biblioteca del Monastero di S.Giovanni, a Parma.
Oltre che per le visioni geografiche che riproducono, gli esempi qui ricordati,
ma n’esistono anche altri seppur di minore importanza, sono interessanti per
rendere manifeste le ambizioni dei committenti, papi o principi che siano. In
tal senso quindi, il mappamondo affrescato di Teglio si può inserire a buon
diritto nel particolare ed esclusivo circuito d’arte geografica evidenziato.
Realizzato nel 1576 da mano ignota, probabilmente si tratta del pittore e
cartografo bresciano Aragonius Aragonus, per volere del cattolico Carlo I Besta
in occasione del suo matrimonio con la calvinista grigionese Anna Travers,
l’affresco decora un quadrante della volta delimitante la “Sala della
Creazione”, locale così denominato per la presenza di notevole ciclo pittorico
a soggetto biblico. L’affresco geografico di cm 276 x 106, riproduce in scala
fedele, quindi 1:1, la fonte iconografica “madre”, individuata dagli scriventi
nel 2003, ossia la “Weltkarte” di Caspar Vopell, stampata a Colonia nel 1545.
Il mappamondo di Teglio, secondo dettami di forte concezione riformista, è
privo di qualsiasi decorazione araldica o antropomorfa, contrariamente
all’originale di Caspar Vopell, disseminato, di nomenclature e raffigurazioni
varie. Inoltre, se l’intero impianto cosmografico vopelliano è colorato in
tonalità giallo oro, il mappamondo dei Besta presenta invece cromie sicuramente
più moderne. Gli oceani, infatti, sono dipinti in blu. Le terre ed i continenti
in verde. I toponimi presenti in entrambe le carte, sono perfettamente
corrispondenti, sebbene quelli dell’affresco tellino risultano sbiaditi, quando
non proprio rovinati da rimaneggiamenti poco accorti. In ogni caso, la
meccanica sovrapposizione delle due opere evidenzia precisa e totale
coincidenza strutturale, sottolineando, al contempo, l’unicità del manufatto
valtellinese per l’orizzonte cosmografico rinascimentale. La presenza di un
prodotto di così rilevante portata storica in zona decentrata rispetto ai
soliti circuiti del potere politico ed economico del tempo sottolinea, vieppiù,
l’importanza della Valtellina quale crocevia, nevralgico all’epoca, per rilevanti
movimentazioni culturali, come quelle intercorrenti tra i centri dell’umanesimo
fiorentino ed i centri culturali del Nord Europa. L’autore della “Weltkarte”,
Caspar Vopell, nasce nel 1511 in Vestfalia da rispettata famiglia. Nel 1526
s’iscrive all’Università di Montaner a Colonia dove si laureerà nel 1529. Nello
stesso anno inizia a svolgere all’interno della suddetta università, l’attività
d’insegnate di matematica. In seguito, il cattolico Caspar Vopell sposerà la
figlia dell’editore e stampatore di fede luterana, von Aich. Tra il 1536 ed il
1542, sempre a Colonia, Vopell inizia l’attività di cartografo realizzando
alcuni globi terrestri. Di questi, l’unico esemplare pervenutoci si conserva
nel museo di Colonia. Il passaggio naturale dal globo tridimensionale alla
stampa bidimensionale su carta, il cui frutto è la Weltkarte appunto, avviene
nel 1545. La carta è dono e simbolico gesto d’accoglienza per l’imperatore
Carlo V in visita a Colonia proprio lo stesso anno, ed al cui seguito viaggia
anche Hernán Cortés voluto per divulgare e testimoniare “in diretta” le sue
gesta oltre oceano. L’immagine del condottiero, infatti, è riprodotta tra le
diverse figure mitologiche e non, che costellano gli spazi oceanici della
Weltkarte. Della stampa originale del manufatto, non è purtroppo rimasta
traccia. Stessa sorte è toccata agli esemplari stampati tra il 1549 ed il 1552,
edizioni andate perdute. Ad inequivocabile testimonianza della loro esistenza,
tuttavia, sono fortunatamente rimaste copie d’edizioni successive. Le
riproduzioni in parola, sono almeno in grado di restituire l’idea precisa
dell’aspetto posseduto dalla carta stampata intorno alla metà del secolo XVI.
Alla Houghton Library dell’Università di Harvard, infatti, è conservata, anche
se in pessime condizioni, l’edizione “abusiva” stampata a Venezia da Andrea
Valvassore, detto Guadagnino, nel 1558. Alla Herzog August Bibliothek di
Wolfenbüttel inoltre, troviamo la splendida edizione postuma della carta di
Caspar Vopell, edita ad Anversa nel 1570 da Bernard van den Putte. Per finire,
come si è detto sopra, è a Teglio, all’interno della sala della Creazione di
palazzo Besta, che possiamo ancora ammirare la rappresentazione in scala fedele
del manufatto in questione. Di Caspar Vopell ricordiamo, inoltre, la carta
dell’Europa stampata nel 1555 e la carta del Reno stampata nel 1558.
Straordinaria poi è la produzione di sfere armillari dotate di piccoli globi
terracquei dipinti a mano dallo stesso geografo. Solo cinque esemplari sono
però sopravvissuti. Il primo, del 1542, è conservato nel museo londinese della
Picture Library. Due esemplari del 1543 sono custoditi uno presso il Museo di
Copenaghen ed un altro alla Libreria del Congresso di Washington. L’esemplare
del 1546, è nella collezione privata di Luigi Koelliker, a Milano. L’ultimo,
risalente al 1557, è stato rintracciato dagli scriventi nel febbraio del 2008.
Il prezioso manufatto, è custodito in provincia di Como, presso privati. A
pochi anni dalla realizzazione di quest’ultimo oggetto, Caspar Vopell si
spegnerà nella sua città, Colonia: è il 1561.
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