Cerca nel blog

sabato 8 aprile 2017

Gerard de Nerval, la vita e due suoi racconti



GERARDO DI NERVAL
la vita e due suoi racconti
Da Il Fuggilozio anno 1° n. 8, Milano 24 febbraio 1833. Pagg.123 – 128

 
Il nome di Gerardo di Nerval era poco popolare in Francia; lo è meno fra di noi. Tuttavolta, dopo aver esposte le ragioni della vita di Emilio di Girardin, facciamo ragione che per completare il retto giudicio che devesi fare di questo secolo, e presentare ai lettori nostri il rovescio della medaglia, non ci resti di meglio che narrare la storia di Gerardo di Nerval.
La sua tragica morte poi, avvenuta il 26 dello scorso mese di gennaio, e di cui fu tanto discorso dai giornali di Francia e d'Europa, dà alla sua biografia un interesse di attualità, come direbbero
i Francesi.
Gerardo di Nerval, nacque a Parigi il 21 maggio 1802: suo padre, vecchio chirurgo degli eserciti imperiali, ed uno dei pochi superstiti dell'armata di Russia, vive tuttora; il suo nome è Di La brunie: il figlio prese il titolo Di Nerval, onde meno dispiacergli, perciocché le sue inspirazioni letterarie andavano poco a genio al vecchio direttore delle ambulanze militari: e fin dall'esordire della sua carriera, il giovinetto Gerardo dovette vivere colla sua musa in una specie di commercio clandestino, e battezzare i frutti di questo commercio con nome supposto.
Gerardo fanciullo conobbe appena i baci materni. Molti soldati di Napoleone avevano costume di condur seco le loro mogli, ed associarle alle vittorie che gli accompagnava da un capo all'altro dell'Europa.
Allevato da uno de' suoi zii nelle ridenti campagne d'Ermenonville, crebbe prosperoso, correndo a suo bell'agio per le selve e le rive dei verdeggianti laghetti, alimentati dalle Nonette e dalla Thève.
Ritornando da una di tali corse, e giuocando, al cadere d'un bel giorno di aprile, sulla soglia della casa di suo zio, Gerardo vide apparire un uomo che togliendosi il mantello, e lasciando scorgere una splendido uniforme, gli disse, stendendogli le braccia:
– Mi riconosci tu ?
– Sì! tu sei mio padre, disse il fanciullo senza esitare. – La natura ha spesso di queste così subite rivelazioni ; i battiti del cuore prevengono ogni calcolo. Gerardo aveva diciotto mesi quando i suoi parenti lo avevano abbandonato: non poteva serbare in fondo alla sua memoria che una reminiscenza assai vaga dei due volti che si erano inchinati sorridenti sulla sua culla.
– E mia madre? balbettò poscia, ov'è mia madre ?
L'uomo dall' assisa militare, senza rispondere, lo serrò più stretto al cuore. Due lagrime scendevano ad irrigare le sue gote : mostrò colla destra il cielo a Gerardo, che comprese e pianse.
Sua madre era morta in Islesia da una febbre infiammatoria.
Condannato al riposo dall'esilio dell'Imperatore a Sant'Elena, il medico-militare volle con particolar cura attendere all' educazione di suo figlio.
Un lungo soggiorno in Prussia e in Austria gli aveva resa famigliare la lingua tedesca, e fornitogli qualche nozione delle lingue orientali; Gerardo, due anni dopo il ritorno di suo padre, era diventato poliglotta quasi senza studio.
Compi i suoi studi nel collegio Carlo-Magno a Parigi ; ma nei mesi di vacanza fece ritorno ad Ermenonville in casa di suo zio. Ivi era solito raccogliere a danza tutte le giovani contadine dei dintorni, su di un verde prato, a cui facevan corona olmi e tigli secolari.
Lasciamo che per un istante ne parli egli stesso[1]:
«In quella lieta brigata, io era solo frammezzo alle giovani contadine d'Ermenonville, e meco aveva, giovinetta ancora, Silvia, ch'io amava teneramente.
Ad un tratto, nell'avvicendarsi della ridda, e secondo è costume, una fanciulla bionda e grande, che chiamavano Adriana, si trovò sola con me di mezzo al circolo delle danzatrici. Eravamo pari amendue di persona; ci fu ingiunto di baciarci mentre la danza ed il coro s'avvolsero intorno a noi in rapidi giri.
Nel darle questo bacio non ho potuto trattenermi dal stringerle la mano.
Le lunghe anella de' suoi capegli d'oro sfiorarono le mie guancie. Da quell'istante un ignoto turbamento m'invase. La bella fanciulla doveva cantare, onde aver diritto di rientrare nella danza: sedemmo intorno a lei, e tosto, con voce fresca e commovente, ne cantò una di quelle antiche romanze, piene di melanconia e d'amore, che narrano le misventure di una principessa rinchiusa in un castello per la dispotica volontà di un padre.
E proseguiva cantando, mentre le silenti ombre della notte scendevano dall'alta cima degli alberi, e un raggio di luna nascente illuminava il volto a lei soltanto, isolata nel mezzo dell'attenta corona che le facevamo.
Tacque; e nessuno osò rompere il silenzio ch'erasi fatto d'intorno.
Il prato intanto iva coprendosi di densi vapori, e noi, stretti da ogni parte da candidi vortici di nebbia, credevamo d'essere in paradiso.
Io sorsi alla fine, e correndo verso il castello, là dove sorgeva un cespuglio di lauri, ne tolsi due rami, che, intrecciati a mo' di corona, posi sul capo di Adriana.
Le lucide foglie brillavano sul biondo crine della fanciulla al pallido lume della luna.
Rassomigliava alla Beatrice di Dante che sorride al poeta errabondo sulla spiaggia delle celestiali regioni.
Adriana alzossi, ci fece un grazioso saluto, e rientrò al castello.
Era, mi fu detto, la discendente di una famiglia stretta in parentela cogli antichi re di Francia: il sangue dei Valois scorreva nelle sue vene.
Pel dì della festa le era stato concesso di frammettersi ai nostri trastulli. All'indomani ripartì pel convento nel quale compiva l'educazione. »
Questo episodio della gioventù del nostro eroe è autentico, e lo abbiamo narrato perché esercitò grande influenza sul destino di Gerardo di Nerval.
Ritornato al collegio Carlo-Magno, portò scolpita in cuore la dolce e raggiante immagine di colei che continueremo a chiamare Adriana.
Sognò amore sui banchi della scuola di filosofia, e compose versi in onore della bionda apparizione d'Ermenonville, studiando metafisica nelle reminiscenze, e la logica nelle speranze che andava nutrendo.
Gli tardava l'ora di potere nel nuovo autunno rivederla al castello; ma oimè! Adriana, quell'anno, non ebbe vacanze! Gerardo seppe che era destinato alla vita del chiostro, e fra breve doveva vestir l'abito religioso: così svanirono tutti i sogni dorati del giovinetto!
Per distogliersi dalla disperazione che lo crucciava cercò un rifugio nello studio.
Le poesie tedesche erano allora quasi esclusivamente i suoi libri di lettura. Gli prese fantasia di tradurre il sublime capolavoro di Göthe, Fausto: e l'opera sua è ancora al di d'oggi la più stimata versione che possegga la Francia[2].
Più d'una volta l'autore istesso ne fece grandi elogi[3].
Una sera, verso la metà del 1829, Göthe pranzando con Eckermann, svolgeva un libro, leggendone qualche capoverso e dando vivi segni di approvazione.
– Che cosa leggete, caro maestro ? gli chiesel'ospite.
– Una traduzione del mio Fausto in lingua francese di Gerardo di Nerval, risponde Göthe.
– Ah ! sì, soggiunse Eckermann, con un piglio alcun poco sprezzante, un giovine di vent'anni. Qualche traduzione di collegio !
– Vent'anni ! esclama Göthe, dite davvero? Il mio traduttore ha vent'anni?
– Si, ve lo posso assicurare.
– Or bene, sappiate che questa traduzione è un vero prodigio di stile. Il suo autore diverrà uno dei più puri ed eleganti scrittori di Francia.
– Vi pare? – disse Eckermann confuso.
– Oh! vi so dire, che al presente non so più leggere l'originale tedesco; e mi sento inorgoglire pensando che il mio libro fa tanta pompa di sé in una lingua sulla quale Voltaire ha regnato cinquant'anni or sono !
Questo fatto è vero, e lo ha più volte narrato Eckermann stesso, facendo ammenda onorevole dell'ingiusto giudizio che aveva preconcetto di quella versione. E tuttavolta (cosa strana in un francese!) Gerardo di Nerval non ha mai raccontato quest’aneddoto, che vale assai più d'ogni splendida lode.
Dolce come un agnello, timido come una fanciulla, Gerardo non parlava mai di sé ed arrossiva nell'udirsi encomiare.
Berlioz trovò cosi belli i cori del Fausto, che chiese licenza a Gerardo di rivestirli colle sue elette melodie. E poiché il nome di Nerval, che già cominciava a suonare con lode presso gl'intelligenti, fu pregato di scrivere nelle colonne del Mercurio di Francia. Gittato così nel vortice letterario, si legò in amicizia coi fautori della scuola romantica capitanati da Vittore Hugo.
Scrisse in quel torno di tempo, e fece rappresentare una bella commediola in tre atti: Tartulfo in casa di Molière, e presentò alla direzione del teatro dell'Odeon il Principe degli sciocchi, altra commedia assai originale, che fu dalla commissione accolta con entusiasmo.
Questa commedia era in versi.
Harel, che amministrava quel teatro, aveva odio mortale alla poesia. Prese a gabbo l'entusiasmo della commissione, e lasciò il Principe degli sciocchi giacere dimenticato così a lungo, che Gerardo, alienissimo per indole dai processi, fu costretto di ricorrere ai tribunali onde strappare il suo lavoro ad un sequestro arbitrario.
Vedendosi certo della condanna, Harel tentò di porvi rimedio traendo in inganno l'autore, e con belle parole l'indusse a sospendere gli atti in corso ed accingersi a scrivere per lui un dramma in cinque atti col titolo: Carlo VI.
Gerardo si pose all'opera, ed in sei settimane portò all'astuto direttore un gigantesco lavoro, nel quale era rappresentata tutta la storia di un regno, con un corredo di episodii e di personaggi, che per recitarla sulle scene sarebbero abbisognate tre sere successive. Era ciò che sperava Harel.
Gerardo nella foga della sua fantasia aveva composto un dramma impossibile, che lo scioglieva della parola data.
Disgustato così del teatro, fece ritorno alle sue favorite traduzioni.
Sul principio del 1830 pubblicò una completa raccolta di poeti tedeschi, ed un'accurata scelta delle opere di Ronsard.
Quando scoppiò la rivoluzione di luglio Gerardo aveva ventidue anni. Se non diede mano al moschetto nel corso dei tre giorni, uni la sua voce al coro generale dei poeti che inneggiavano la vittoria popolare. Il suo canto fu dedicato ai Polacchi.
Gerardo di Nerval era assiduo al lavoro, e lo considerava come una distrazione necessaria; poiché se smetteva un istante lo studio, cupi pensieri gli ottenebravano la mente. Pensava sempre alla dolce giovinetta, alla bionda cantatrice del parco d'Ermenonville, sepolta per sempre nell'inamabile quiete del chiostro.
In questo mentre, fatto maggiorenne, entrò al possesso dei beni di sua madre. Ma che importa: vano a lui le ricchezze, se non gli era concesso di offerirle a colei che amava?
Una sera, al teatro dell'Opera-Comica, seduto in una delle sedie d'orchestra, Gerardo assisteva con occhio indifferente allo spettacolo, quando ad un tratto si riscuote come al tocco di elettrica scintilla.
Sulla scena appare un'attrice, che per l'aspetto, per la persona, pei lunghi capegli d' oro e l'incedere maestoso, gli rammenta Adriana ! Canta, e la sua voce è un eco del canto della giovinetta del parco !
– Oh ! no, no ! – esclama Gerardo fra sè, sono ludibrio di un sogno!
Preso da un febbrile delirio, si precipita fuori del teatro; poi, scorsi pochi minuti, rientra. Il volto di Adriana splende sulle scene di sovrumana avvenenza. Finito l'atto, sale sul palco cercando colei che aveva gittato tanto turbamento nell'ordine dei suoi pensieri, e la scorge attorniata da cortigiani e da adoratori.
Gerardo s'accosta palpitante; la contempla davvicino, e s'accorge che quella miracolosa rassomiglianza non è già effetto dell'illusione della scena. Era Adriana in persona !
Veggendola sorridere alle scipite adulazioni che le piovono da ogni lato, sente un sudor freddo inondargli la fronte, e, senza pur rivolgerle una parola, s'invola di là.
All'indomani ritornano di bel nuovo i dubbi, e non sa risolversi a credere che la nipote dei Valois, una nobile giovinetta cresciuta all'ombra del santuario, possa essere fuggita alla cella per calcare le scene di un teatro di Parigi.
Per conoscere la verità, di presente si reca ad Ermenonville, ne luoghi testimonii della sua infanzia, ed ivi stanca delle sue inchieste tutti i conoscenti che ancora sopravvivevano. Finalmente gli è noto come Adriana, scampando dagli eterni silenzi del chiostro, e rompendo ogni relazione colla sua famiglia, aveva cercato nell'arte lo splendido stato che la nascita le avrebbe dato diritto
d'ottenere nel mondo.
Ritorna a Parigi, ed alle otto ore di sera trovasi seduto, come il giorno innanzi, in una sedia dell'orchestra: ma invano tentò di penetrare fino alla bella attrice; veggendola tanto corteggiata, sentì squarciarsi il cuore e gli corsero di nuovo le lagrime agli occhi.
All'indomani Gerardo si presenta ad Alessandro Dumas.
– Volete scrivere con me un libretto d'opera comica ? fu la sua prima inchiesta.
– Un libretto d'opera comica?... Preferirei un dramma, disse l'autore dei Tre Moschettieri.
–No; è precisamente un'opera comica. Ho qui meco il soggetto, il titolo e la distribuzione delle parti: ho impiegato tutta la notte a scrivere. Ho bisogno di una splendida parte per la prima donna.
Dumas prese in mano il fascicolo che gli era presentato da Gerardo.
– A meraviglia! Lo leggerò, lo esaminerò... La Regina di Saba.... Capperi! che bel titolo ! Questa sera ceno con Meyerbeer; egli ne farà la musica.
– Ciò che solo mi preme è la parte della prima donna, insisteva Gerardo.
– Siamo intesi.
Uscendo dalla casa di Dumas, Nerval disse fra sè:
– Ecco trovato il mezzo: nulla di più semplice. Alle prove sarà necessario che le parli.
Otto giorni dopo il libretto era nelle mani di Meyverbeer.
Aspettando che l'illustre maestro ne componesse le melodie, Gerardo passava le sere al teatro dell'Opera-Comica, a contemplare Adriana «bella come un raggio di sole al chiarore della ribalta che la illuminava dal basso, pallida come la notte, quando, spenta la ribalta, era rischiarata dall'alto, e si mostrava in tutta la pompa della sua bellezza.»
Il lettore crederà forse, che stendendo questa biografia prendiamo a prestito i vivi colori di un romanzo; ma tale è il preciso ritratto di Gerardo di Nerval, anima tenera, timida, melanconica e fantastica; ed è impossibile lo scrivere la sua vita senza narrare questo amore che l'attraversa dagli anni di gioventù a quelli più maturi della virilità.
In questo mentre però Meyerbeer, che ebbe motivo di contese con Dumas, rifiutò il libretto.
Disperato da tale contrattempo, scrisse ad Adriana una lunga lettera dettata nel delirio della più ardente passione; e tosto parti per un lungo viaggio in Italia. Qui l'aere mite, il cielo sereno ed il suolo ospitale, valsero ad alleggiargli il dolore. Qui la poetica anima sua poté trovare uno sfogo negli studi geniali della letteratura; e le pagine ch'egli dettò, e che infiorarono la Rivista dei due Mondi, sono meravigliose per sentimento, squisite per pensiero, e caste per lo stile.
«Di tutta la colluvie letteraria, dice un critico francese, che da venticinque anni ingombra i nostri gabinetti di lettura, alla fine del secolo non sopravviveranno, (ne ho ferma credenza) che pochi romanzi di Balzac, due o tre volumi di Giorgio Sand ed i libri di Gerardo di Nerval.»
Questi libri, se peccano dal lato dell'invenzione, sono però scritti con gusto perfetto, bella temperanza di frasi e verità somma di pensiero.
«Come romanziere pittoresco e delicato, come scrittore di gusto e di stile, Gerardo di Nerval è superiore a Dumas e ad Eugenio Sue.» dice E. di Mirecourt.
Le avventure che ebbe in Italia (e citansi particolarmente alcune con una bellissima inglese, in cui erasi imbattuto a Marsiglia, a Nizza ed a Firenze) non gli fecero dimenticare il suo amore per Adriana, o chiamandola col nome con cui avea esordito sulle scene, Jenny Colon.
Da Genova e da Civitavecchia scrisse due ardenti lettere all'attrice.
Giunto a Napoli, si accorse d'aver dato fondo al suo peculio: gli restava a mala pena da pagare il tragitto, ai terzi posti, su di un battello a vapore.
Ritornò a Parigi a domandare in persona una risposta alle sue lettere. Sarebbe indiscrezione la nostra esporre la storia degli amori di Gerardo di Nerval ai pudibondi sguardi delle nostre leggitrici[4].
Onde cantare perpetuamente le lodi della amante, accettò di collaborare nella appendice delle Presse.
Quelli che conobbero di persona il nostro eroe a quest'epoca raccontano di lui cose strane e fantastiche. In due o tre anni dissipò il suo patrimonio, non come sogliono ordinariamente gli emancipati figli di famiglia, in orgie e crapule, ma in oggetti d'arte, in quadri, in vecchie porcellane.
Si racconta che avesse fatto acquisto, per ottomila franchi, del letto in cui Margherita di Valois era solita dormire nel castello di Tours. Quando si volle erigerlo nella sua camera, si dovette col martello del muratore allargarne l'entrata, precisamente come si costumò di fare colla carrozza di Luigi XIV, quando le porte delle città erano troppo strette. Gerardo non dormì giammai in quel letto, per un senso di rispetto a cui collegava una dolce superstizione d'amore.
Ma frattanto non aveva rinunciato all'idea di scrivere un'opera comica per la sua Adriana, e collaborando con Dumas, diede vita alla fine a Piquillo. Monpon ne scrisse la musica: l'opera eccitò straordinario entusiasmo, e Dumas volle firmare da solo il lavoro.
Gerardo era troppo lieto per badare a tale soperchieria; autore anonimo, poteva a suo bell'agio rimanere in platea, ammirare la sua bella diva, ed aggiungere i suoi applausi a quelli del pubblico.
Ma poco appresso, scrivendo medesimamente con Dumas un altro dramma, Leo Burkart, vi appose, come ragion voleva, il solo suo nome.
Noi giungiamo ad un'epoca fatale in cui il lutto stese un funebre drappo fra il poeta ed il suo amore.
Adriana o Jenny Colon morì in mezzo a suoi trionfi in tutto lo splendore della sua giovanile bellezza.
Quale fosse il dolore di Gerardo non bastano a dirlo le nostre parole. Il soggiorno di Parigi gli diviene increscioso; il demone de’ viaggi lo porta sulle sue rapide ali. Trascorre dall'Occidente all'Oriente, da Roma a Venezia, da Vienna a Berlino, da Costantinopoli al Cairo. Oggi in Europa, domani in Africa ed in Asia.
Venutogli meno il denaro, s'acconcia come collaboratore presso alcuni giornali di Vienna, e scrive le reminiscenze dei suoi viaggi ai periodici diParigi, nelle quali, non ultimo argomento, furon le sue tribulazioni pecuniarie.
Ricondottosi in patria, sia per gl'infiniti stenti ch'ebbe a patire, sia per la insistenza del dolore che gli avea piagato il cuore, cadde malato.
Riavutosi in salute, e fatto denaro colle reliquie della sostanza materna, imprese un viaggio in Oriente, e ne scrisse egli stesso la storia, che forma uno dei più bei libri della moderna letteratura.
Il poeta attraversa di nuovo l'Austria, s'imbarca a Trieste, visita le Cicladi, scorre la Grecia e veleggia alla volta del Delta, fermando la sua dimora al Cairo. Ivi, prende in affitto una casa: ma dopo alcun tempo il proprietario vuole scacciarmelo.
– Perché? gli chiede Gerardo.
– Perché non siete ammogliato, rispose l'egiziano, ed i vicini ne sono inquieti.
– Se non è che questo il motivo, prenderò moglie ! disse Gerardo.
Ed il nostro eroe corre per le vie della città, come altre volte Diogene, ma senza lanterna: cercava una donna.
Gliene mostrano di tutte le nazioni e di tutti i colori. I monelli del Cairo gli traevano dietro burlandosi del suo paletot e del cappel tondo: Gerardo, per cavarsi dalle brighe, si fa radere il capo e tagliare la barba all'ultima moda di Stambul, si veste da perfetto musulmano; e, giunto al mercato degli schiavi, compera per seicento franchi una donna gialla.
Convien leggere il suo libro de Viaggi in Oriente per conoscere le molte disgrazie di che questa compera fu cagione allo sventurato autore. Stanco finalmente volle restituirle la libertà, ma la schiava rifiuta e pretende d'essere ricondotta al Bazar.
– Ma, mia cara, un europeo non vende una donna; sarebbe per noi un vergognoso delitto intascarne il prezzo.
Gerardo fu costretto a condurla seco in molti viaggi. Finalmente, la lasciò alla superiora di un convento di Beyruth, la quale, mediante lo sborso di altri seicento franchi, promise a Gerardo di convertirla al cristianesimo.
Si restituì a Parigi sul principiare del 1844.


 Place Dauphine a Parigi di Marcel Pille dal primo capitolo de La Main enchantée edito a Parigi nel 1901.

Fu allora che manifestò i primi sintomi di pazzia; venne posto a Passy, in casa di un suo amico, il dottor Blanche. Il suo disordine cerebrale era dolce ed inoffensivo. Cosa strana ! Questo stato mentale gli lasciava la sana disposizione delle sue facoltà letterarie, e fra tutte le sue opere, soltanto alcune poesie (I versi dorati) offrono pensieri incomprensibili.
Ecco cosa scrisse Dumas di quel periodo di vita del suo amico Gerardo:
«Di tempo in tempo, quando un lavoro qualunque lo ha fortemente preoccupato, la imaginazione scaccia momentaneamente la ragione dalla sua mente, e regna sola e possente in quel cervello nudrito di sogni e di allucinazioni. Ora gli sembra d'essere il re Salomone, che ha trovato il suggello con cui evocare gli spiriti; ora è sultano di Crimea, conte d'Abissinia, duca d'Egitto, barone di Smirne. Un altro giorno si crede pazzo, e racconta in qual modo lo divenne, con tale una gaiezza, che è un delirio l'udirlo; altre volte finalmente, la malinconia diviene la sua musa, ed allora trattenete le lagrime se potete, poiché né Werther, né Renato, né Antony misero gemiti più
strazianti dei suoi, più dolorosi singhiozzi, parole più tenere, grida più poetiche !...»
Un giorno fuggi dal dottor Blanche, e giunse da Paolo Lacroix (celebre sotto il nome di Bibliophile Jacob). Ivi, dopo mille aberrazioni di mente, dichiarò esser figlio naturale dell'imperator Napoleone, saperlo il re, il quale temendo ch' é rivendicasse i suoi diritti, lo perseguitava.
Le cure degli amici lo restituirono in salute; ma si diede allora ad una vita eccentrica, senza domicilio conosciuto, negletto nel vestire, non curante della vita pratica, errante e vagabondo la notte pei caffè e le taverne dei più umili quartieri di Parigi.
Egli stesso volle tuttavia spiegare il fenomeno delle sue pazzie, e scrisse a Dumas:
«Vi sono, voi lo sapete, alcuni scrittori che non possono inventare senza identificarsi coi personaggi della loro imaginazione. Vi ricorderete con quanta convinzione il nostro vecchio amico Nodier raccontò come avesse avuto la sciagura d'essere stato ghigliottinato all'epoca della Rivoluzione; e giungeva talmente a persuadere, che noi gli domandavamo in qual modo gli riuscì di farsi riappiccare la testa: ... Ebbene, la foga della narrazione produce in me un effetto simile...»
In una serie di racconti[5] dimostrò inoltre, che il misticismo di certi uomini, e la loro tendenza a voler squarciare il velo del mondo esterno, ha forse il marchio d'idea fissa, ma non quello di alienazione mentale[6]. Era un perorare vittoriosamente la propria causa.
Negli ultimi tempi di sua vita prese inoltre a scrivere, per la Rivista di Parigi (1854), la storia completa delle sensazioni che provò nel periodo successivo al suo terzo attacco di follia. Diede a questo strano racconto per titolo: Il sogno e la vita!
Però, dopo averne pubblicata la prima parte, diceva ad un amico: «Non so come uscire da questo lavoro; mi sono trasportato in alcune zone metafisiche, ove mi smarrisco... Non vedo più chiaro nel mio stesso pensiero... e non so come finire !»
Ma purtroppo tragicamente strana fu la fine del sogno della sua vita!
L'ultima pagina della sua biografia è un atto di accusa a questa Francia che profonde l'oro ai ceretani della letteratura, e lascia morire nella miseria il genio, che non sa ordire intrighi, ed il talento che non compra le lodi !
Mercoledì, 24 gennaio del corrente anno, scriveva ad un amico d'infanzia:
«Vieni a prendermi al circondario, poiché le guardie di polizia mi hanno questa notte arrestato.» Il signor Millot vi accorse, e non appena ebbe reclamato Giorgio di Nerval, il povero poeta usci dalla carcere accompagnato da due soldati, nel contegno umiliato di chi non ha più né casa, né tetto, né un soldo nelle tasche, vestito in abito da ballo come negli ardenti giorni di luglio!
Un commissario di polizia venne ad interrompere l'amplesso dei due amici, e stimò suo debito di rampognare quel povero genio di Gerardo, stretto dalla fame, dal freddo, dalla pazzia e dalla morte. Gerardo ascoltò paziente quel lungo discorso, che finì colle parole d'uso: «Andate, e badate di non più cadere fra le nostre mani.»
Gerardo chinò la fronte, e sembrò colpito da quella terribile minaccia.
– Ove dovrò dunque andare quando la notte non potrò più rientrare a casa mia? mormorò Gerardo.
Il commesso di polizia, senz'accorgersi, aveva chiuso a Gerardo l'ultima porta della vita.
– Caro amico, – gli chiese Millot colle lagrime agli occhi – spiegami ora perché ti trovi qui in questo stato.
– La cosa è semplicissima, rispose Gerardo; passai la notte in una taverna, aspettando l'aurora onde riprendere il lavoro del romanzo che scrivo per la Rivista di Parigi. Mentre contemplava da filosofo i quadri e le scene notturne del vecchio Parigi, sorge una querela fra alcune buone lane che, brilli dal vino, si rinfacciavano reciprocamente i loro delitti. La guardia notturna invade la taverna, e fummo tutti arrestati. Invano protestai la mia innocenza. « Chi siete voi ?» chiesemi il commissario. « Gerardo de Nerval » – « Che fate? » « Studio. » «Avete mezzi di sussistenza ? » e in così dire mi frugarono da capo a piedi. « In tasca non ho un soldo; ma ho pagato il mio scotto.» «Ebbene, passerete la notte in prigione.» – Dopo questo breve colloquio fui cogli altri condotto al corpo di guardia.
– Povero Gerardo, tu devi morir di freddo, vestito così !
– No, – disse il poeta, tremante ed agghiacciato – ma .... ho fame.
– Faremo colazione. Vuoi che andiamo a casa?
– No, aspetterò il tramonto, giacché da quando mandai il mio mantello al monte di pietà....
– Capisco! Vuoi che nessuno de’ tuoi amici sappia che sei intirizzito dal freddo; resterai sempre un fanciullo, mio povero Gerardo !
– Sì, è vero. Fra gli arrestati vi erano appunto anche tre fanciulli! Non puoi credere quanta poca cura si abbia dei poveri prigionieri! Fummo avvertiti di non addormentarci, perché correvamo rischio di morire gelati. Onde evitare il pericolo di prender sonno, questi poveri fanciulli cantarono, si raccontarono delle storielle e giuocarono a gatta cieca. Io giuocai con essi loro: finalmente non potendo resistere al sonno mi addormentai. Nello svegliarmi mi sono trovato cosi intorpidito dal freddo, che durai fatica a scriverti.
– Ti ringrazio d'esserti ricordato di me, mio caro Gerardo. E tuo padre, è molto tempo che non lo vedi?
– Non è molto, ma, dacché ho posto in pegno il mantello, schivo di incontrarmi con lui per non crucciarlo.
L'amico lo condusse nel vicino caffè, lo ristorò, gli apportò il denaro necessario per ricuperare gli abiti voluti dalla stagione; e lo lasciò intento al lavoro.
Millot non vide più Gerardo né quel dì, né il giorno appresso, e non doveva più saperne notizia che dopo la catastrofe della strada Vieile-Lanterne, Questo viottolo, frequentato soltanto da notturni vagabondi, era forse noto unicamente a Gerardo di Nerval e ad Eugenio Sue. Esso non si estende più di trenta braccia sopra tre di larghezza, e termina con una scala che conduce ad un immonda stanzuccia, dove gl'infelici senza tetto possano passare la notte per una meschina moneta.
Ivi si rinvenne il povero Gerardo di Nerval appiccato all'inferriata di una sucida finestra, col cappello in testa, ma sempre senza mantello !
La padrona della spelonca fu la prima ad accorgersene, e chiamò spaventata i vicini, che accorsero tostamente: ma nessuno osò toccarlo prima che sopraggiungessero le guardie di polizia, che tagliarono la corda.
Gerardo di Nerval non era ancor morto: gli astanti gli rivolsero parole di conforto, ed egli accennò di voler rispondere; fu trasferito all'attiguo corpo di guardia, ma invano s'ebbe ricorso ad un medico.
L'infelice giaceva col sorriso sulle labbra, da sembrare ancor vivo, ma il cuore avea cessato di battere. A giudicarne dall'aspetto severo e sorridente, la sua morte non fu dolorosa; e ne sia prova l'essere stato trovato a capo coperto! Al piùpiccolo movimento il suo cappello gli sarebbe sbalzato di testa. Il freddo intenso gl'impedì d'avere maggior rispetto per la morte! Furono trovate nella
tasca del suo frac (poiché si appiccò in abito da ballo, coll'abito istesso che portava lo scorso anno alla corte del duca di Sassonia[7]) le bozze di stampa della seconda parte del suo romanzo Il sogno e la vita[8], ed un passaporto vidimato per l'Oriente.... Il povero pazzo aveva alcuni giorni prima assicurato un amico, d'essere nominato Sultano...
Fu l'inverno, il rigoroso inverno di quest'anno che uccise Gerardo. Aveva dato in pegno il suo mantello per cavarsi la fame, e sperava che la primavera avesse dovuto sorridergli ancora: ma l'inverno gli ha soffiato un mantello di neve sulle spalle!
Come passò egli il suo tempo dal mezzogiorno di mercoledì sino alla mattina del venerdì, giorno della sua morte? Mercoledì possedeva circa tre franchi. Per lui questa somma era bastante per mangiare e per dormire. Ma cosa avrà fatto il giorno dopo, il terribile giovedì, vigilia della sua morte? Convien dire che l'intenso freddo e la fame avessero intieramente sconvolta l'alta intelligenza di Nerval.
A tre ore del mattino, la proprietaria dell'immondo albergo in strada Vieile Lanterne aveva udito bussare: ma non rimanendogli più posto da dare alloggio a chicchessia, non erasi degnata di rispondere. Stanco dal girovagare, Gerardo non si attentava di por piede in qualche taverna: la minaccia
del commissario di polizia gli suonava ancora all'orecchio: in tasca non gli potevano restare che due soldi, ed aveva libera la scelta fra un bicchiere d'acquavite, che lo poteva richiamare in vita, od una corda che lo avrebbe condotto in mezzo ai sogni di che aveva piena la mente.
Scelse la corda.
Era fatalista e si appese in un venerdì, al 26 del mese (due volte tredici!)
Un certificato, reclamato dalla Chiesa, che attestasse lo stato di demenza del defunto, permise a’ suoi funerali d'essere circondati di pompa religiosa. Il suo corpo fu trasportato nella Chiesa di Nostra-Signora. Tutti i letterati di Parigi, e buon numero d'artisti, accompagnarono la mesta e gloriosa bara al cimitero di Pére-Lachaise. Teofilo Gautier, Dumas, Houssaye, Denis, Janin, Méry diffusero nel pubblico le dolorose rimembranze che suscitava nell'animo loro questa vita simpatica, questa morte terribile.


La Rue de la Vieille lanterna ou allégorie sur la mort de Gérar de Nerval di G. Doré.

La società de’ gens de lettre, sebben povera di mezzi, ha nullameno fatto perpetuo acquisto del terreno ove riposa il corpo di Gerardo di Nerval:
Due suoi amici, raccogliendo gli ultimi scritti che si rinvennero in casa del dottor Blanche, s'apprestano a pubblicarne due volumi postumi; uno di Poesie, l'altro avrà per titolo: Viaggi nell'azzurro.
Come dicevamo nelle prime righe di questi cenni, il suo nome non ha mai potuto prima d'ora rendersi abbastanza popolare in Francia; perché, sia capriccio, o segreta ragione, Gerardo pubblicò una parte dei suoi lavori sotto strani pseudonimi, come: Beuglant, Fritz, – Gracian, Lord Pilgrim, ecc. ecc.
Oltre le opere che già abbiamo citate, s'hanno di lui: Raoul Spifame; Gli amori di Vienna; Il banchetto d’antichi scolari; Il Forte di Bitche; La Mano di Gloria; I due convegni; Viaggio nel Belgio, ecc. ecc., oltre ad un infinito numero di articoli, riviste, varietà che pubblicò nel Nazionale, nel Messaggero, nel Gabinetto di Lettura, nell'Artista, nel Costituzionale, nella Guardia nazionale, nel Figaro, ecc. Nel corso dell'anno non mancheremo di farlo meglio conoscere ai lettori nostri, pubblicando alcuni dei suoi più ameni racconti.


Rovine del castello di  Vauvert, incisione del XIX° secolo. «Vi si udivano delle urla spaventevoli. E vi si vedevano degli spettri trascinare delle catene», affermava lo scrittore Germain-François Poullain di Saint-Foix nel 1753. V. http://www.la-croix.com/Culture/Actualite/Aller-au-diable-vauvert-_NG_-2012-07-29-836633


IL MOSTRO VERDE
Da Il Fuggilozio anno 1° n. 8, Milano 8 settembre 1855. Pagg. 568 – 570


Copertina dell’Almanacco dove fu pubblicato il racconto

 (Nel numero 8 del nostro giornale [Il Fuggilozio – Milano 1833], narrando la vita di Gerardo di Nerval, fu da noi annunciata la pubblicazione di qualche suo lavoro. Compiremo in breve la promessa stampando la Mano Incantata, [In realtà sembra che non fu mai stampato… questione di diritti? Nota di Puga] una delle sue fantasie più popolari. Intanto facciamo precedere qualche racconto, tolto dal suo libro Contes et Faceties.)

Cap. I - IL CASTELLO DEL DIAVOLO.

Voglio parlarvi del più antico abitante di Parigi; lo si chiamava altre volte il diavolo Vauvert. Donde nacque il proverbio: « E il diavolo Vauvert! Andate al diavolo Vauvert![9]»
È a dire: Andate..... a passeggiare ai Campi Elisei. I portieri dicono generalmente: «E sino a casa del diavolo !» per esprimere un luogo ben lontano.
Questo significa che bisogna pagare molto cara la commissione che loro affidate. – Ma questa, inoltre, è una locuzione viziosa e corrotta, come molte altre famigliari al popolo parigino.
Il diavolo Vauvert è senza alcun dubbio un abitante di Parigi, ove dimora già da molti secoli, se si debba credere agli storici. Saural, Felibien, Sainte-Foix e Dulaure hanno raccontato lungamente le sue gesta. Sembra alla prima, ch'egli abbia abitato il castello di Vauvert[10], che era situato nel luogo occupato oggigiorno dall'allegro ballo della Certosa, all'estremità del Lussemburgo, ed in faccia degli aditi dell'osservatorio nella via dell'inferno.


Immagine del castello da http://ktakafka.free.fr/F_CHARTREUX.htm

Quel castello, di una trista rinomanza, fu demolito in parte, e i ruderi divennero una dipendenza d'un convento di Certosini, nel quale mori, nel 1414, Giovanni della Luna, nipote dell'antipapa Benedetto XIII. Giovanni della Luna era stato sospettato d'aver relazioni con un certo diavolo, che forse era lo spirito famigliare dell'antico castello di Vauvert; ciascun di quegli edifizi feudali avendo il suo, come lo si sa.
Gli storici non ci hanno lasciato nulla di preciso su questa fase interessante.
Il diavolo Vauvert fece di nuovo parlare di sé all'epoca di Luigi XIII.
Durante molto tempo s'udiva tutte le sere un gran rumore in una casa fatta cogli avanzi dell’antico convento, i cui proprietari erano assenti da più anni.
Ciò che spaventò molto i vicini.
Essi andarono a prevenire il luogotenente di polizia, il quale inviò alcuni arcieri.
Quale fu la meraviglia di quei militari, udendo uno strepito di bicchieri, misto a risa stridenti !
Si credete da prima che fossero falsi monetari i quali si abbandonassero ad un'orgia, e giudicando dal loro numero e dall'intensità del rumore, si mandò in cerca di rinforzo.
Ma si giudicò ancora che una squadra non era sufficiente, nessun sergente amava di condurre gli uomini in quel nascondiglio, dove sembrava che si udisse il fruscio di un intero esercito.
Giunse finalmente, verso il mattino, un corpo di truppe sufficiente: si penetrò nella casa. Nulla vi si trovò.
Il sole dissipò le ombre. In tutta la giornata si fecero ricerche, poi si congetturò che lo strepito venisse dalle catacombe, situate, come si sa, sotto que’ quartieri.
Si preparavano a penetrarvi, ma mentre la polizia prendeva le necessarie disposizioni, sopraggiunse la sera, ed il rumore ricominciò più forte di prima.
Questa volta nessuno ardì discendere, perché ell'era cosa evidente, che nella cantina non vi erano che bottiglie, e che in tal caso era certo fosse il diavolo che le mettesse in danza.
Si accontentarono d' occupare i primi luoghi della via e chiedere preghiere al clero.
Il clero fece una quantità d'orazioni, e si mandò anche acqua benedetta con sciringhi pei spiragli della cantina.
Il tafferuglio seguitava della bella.

Cap. II - IL SERGENTE.


Illustrazione tratta sempre dall’Almanacco e ristampata nel 1928, in Nouvelles et fantaisies, con note di Jules Marsan[11].
Durante un'intera settimana, la folla dei parigini non cessò di accorrere là, ove il grande avvenimento succedeva, e facendosi strada pigiando a diritta e a manca chiedevano notizie.
Finalmente un sergente della prevostura, più coraggioso degli altri, s'offerse di penetrare nella cantina maledetta, mediante una pensione versibile, in caso di morte, ad una crestaja nominata Margot.
Quest'era un uomo ardito e più amoroso che credulo. Egli adorava questa crestaja, che era una persona ben corredata ed economa, la si poteva dire alquanto avara, e che non aveva voluto isposare un semplice sergente privo di fortuna.
Ma guadagnando la pensione, il sergente diveniva un altro uomo. Incoraggiato da questa prospettiva, gridò: « Che non credeva né a Dio, né al diavolo, e che egli conoscerebbe la causa di quel trambusto. »
– A che cosa dunque credete voi? gli disse un suo compagno.
– Credo – rispos'egli – a monsignor il luogotenente criminale, ed a monsignor il prevosto di Parigi.
Ciò era dir troppo in poche parole.
Egli prese la sciabola fra i denti, una pistola in ciascuna mano, e s'avventurò giù per la scala.
Lo spettacolo il più straordinario l’attendeva toccando il suolo della cantina.
Tutte le bottiglie si abbandonarono a una sarabanda agitatissima, formando figure le più graziose.
I sigilli verdi rappresentavano gli uomini, i rossi le donne. Colà eravi stabilita un'orchestra sulle panche delle bottiglie.
Le bottiglie vuote risuonavano come strumenti a fiato, le bottiglie spazzate come cembali e triangoli, e le bottiglie fesse rendevano qualche cosa dell'armonia penetrante dei violini.
Il sergente, che aveva tracannato prima d'intraprendere la spedizione, non scorgendo in quel luogo che bottiglie, si sentì rassicurato, e si mise a danzare anch'egli per imitazione.
Poi, di più in più incoraggiato dalla gioia, dalla bellezza dello spettacolo, raccolse un'amabile bottiglia dal lungo collo, di un bordò pallido, come pareva, accuratamente sigillata di rosso, e la compresse amorosamente sul cuore.
Risa frenetiche partirono da tutte le parti; il sergente, imbarazzato, lasciò cadere la bottiglia, che si ruppe in mille pezzi.
La danza cessò, grida di spavento si fecero udire in tutte le parti della cantina, il sergente senti i capegli a dirizzarsi vedendo che il vino sparso sembrava formare un mare di sangue,
Il corpo di una donna nuda, i cui biondi capegli si spargevano a terra e s'imbevevano dell'umidità, era steso ai suoi piedi.
Il sergente non avrebbe avuto timore del diavolo in persona, ma questa vista lo riempiè di orrore; però riflettendo che doveva rendere conto della sua missione, egli s'impadronì di una bottiglia verde che sembrava ghignare davanti a lui, e gridò:
– Almeno ne avrò una !
Un immenso sogghigno gli rispose.
Mentre risaliva fa scala, e mostrava le bottiglie a suoi gridava:
– Ecco il diavolo!..... siete ben paurosi voi.... (egli pronunziò un'altra parola più viva ancora), da non osare discendere là giù !
La sua ironia era amara. Gli arcieri si precipitarono nella cantina, ove non si trovò che una bottiglia di bordò spezzata. Il resto era al suo posto.
Si permise loro di berle.
Il sergente della prevostura disse:
– Quanto alla mia, la serberò pel giorno del mio matrimonio.
Non gli si poté rifiutare la pensione promessa. Sposò la cresiaja, e.....
credereste forse che avessero in seguito molti figli ?
n’ebbero un solo.

Cap. III - Ciò che segue.

Il giorno delle nozze, che ebbero luogo alla Rapée[12], il sergente mise la famosa bottiglia dal verde sigillo tra esso lui e la sposa, e fece in modo di non versare questo vino che a lor due.
La bottiglia era verde come appio, e il vino era rosso come sangue.
Nove mesi dopo, la crestaja mise alla luce un piccolo mostro tutto verde, con delle corna rosse in fronte.
Ora, andate, o fanciulle! andate a danzare alla Certosa.... sullo spiazzo del castello di Vauvert!
Tuttavolta il fanciullo cresceva, se non in virtù, almeno in altezza: due cose contrastavano i suoi parenti: il suo color verde, e un appendice caudale, che sembrava essere prolungamento di coccige, ma che a poco a poco prendeva l'aspetto di una vera coda.
Si consultarono persone dotte, che dichiararono essere impossibile di operare l'estirpazione senza compromettere alla vita del fanciullo. Essi aggiunsero che era un caso assai raro, ma trovarsi esempii citati in Erodoto e in Plinio il giovane. Non si conosceva allora il sistema di Fourier.
Per ciò che riguardava il colore, lo si attribuiva ad una predominanza del sistema bilioso. Però, si tentò ogni mezzo per attenuare il colore troppo pronunciato dell'epidermide, e si giunse, dopo una quantità di lavature e fregagioni, a renderlo prima al verde bottiglia, poi al verde d'acqua, e finalmente al verde mela. Un momento la pelle sembrò tutta bianca, ma alla sera riprendeva la sua tinta.
Il sergente e la crestaja non potevano consolarsi della malinconia che recava loro quel piccolo mostro, che diveniva di più in più ostinato, colerico e malizioso.
La malinconia ch'essi provarono li condusse a un vizio troppo comune per le persone della loro classe. Si diedero alle bevande.
Solamente il sergente non voleva mai bere che del vino sigillato di rosso, e sua moglie di verde.
Ogni volta che il sergente era ubbriaco morto, vedeva in sogno la donna insanguinata,la cui apparizione l'aveva spaventato nella cantina dopo ch'egli aveva spezzata la bottiglia.
Quella donna gli diceva: – Perché m'hai tu compressa sul tuo cuore, e in seguito sacrificata io che t'amava tanto ?
Ogni volta che la sposa del sergente aveva troppo festeggiato il sigillo verde, ella vedeva ne' suoi sonni apparire un gran diavolo, d'un aspetto spaventevole, che le diceva: – Perché sbigottirti nel vedermi..... poiché hai bevuto nella bottiglia.....
Non sono forse il padre di tuo figlio?....
Oh mistero!....
Giunto all'età di tredici anni, il fanciullo disparve.
I suoi parenti, inconsolabili, continuarono a bere, ma essi non videro più rinnovarsi le terribili apparizioni che solevano tormentare il loro sonno.

Cap. IV - MORALITA'.

E in tal guisa il sergente fu punito della sua empietà, – e la crestaja della sua avarizia.

Cap. V - COSA SIA DIVENUTO DEL MOSTRO VERDE.

Non si è mai potuto saperne notizia[13].

Fine.
§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§

LA REGINA DEI PESCI



Une naïade ou Hylas avec une nymphe, par John William Waterhouse (1893)

Eravi nella provincia di Valois, vicino alla selva di Villers-Coterets, un garzoncello ed una fanciulla che s'incontravano di tratto in tratto sul greto delle piccole riviere del paese, l'uno obbligato da uno spacca-legna, chiamato Tord-Chène, che era suo zio, d'andare a raccorre la legna morta; l'altra inviata da suoi parenti per pigliare delle anguillette che l'abbassamento delle acque permette di scorgere fra la sabbia in certe stagioni.
Ella doveva ancora, mancanza di meglio, rovistare fra le pietre i granchi numerosi che sogliono annidare fra i ciottoli.
Ma la povera fanciulletta, sempre china e coi piedi nell'acqua, era sì tocca dalle sofferenze degli animali che, il più delle volte, vedendo il contorcersi dei pesci che ella traeva dalla riviera, ve li rigettava e non portava a casa, che i granchi, pei quali diveniva allora meno indulgente.
Il garzoncello, alla sua volta, faceva dei fastelli di legna morta; si vedeva esposto sovente ai rimproveri di Tord-Chène, sia perché non ne portava a casa abbastanza, sia perché egli era troppo occupato a ciarlare colla piccola pescatrice.
Eravi un certo giorno della settimana in cui quei due fanciulli non s'incontravano mai..... E qual era tal giorno? Lo stesso, senza dubbio, in cui la
fata Melusina si cangiava in pesce, e in cui le principesse dell'Edda si trasformavano in cigni.
L'indomani di uno di questi giorni, il piccolo spacca-legna, disse alla pescatrice : – Ti sovvieni che ieri ti vidi passare, là giù nell'acqua di Challepont, co'tuoi pesci che ti facevano corona.... perfino i carpi e i lucci, e tu eri un bel pesce rosso, con le coste tutte rilucenti di scaglie d'oro?
- Mi sovvengo benissimo, disse la piccola fanciulla, poiché ti ho veduto sulla riva dell'acqua, che rassomigliavi a una bella quercia , ove i rami alti erano d'oro fino; e tutti gli alberi del bosco si curvavano a terra salutandoti.
– E vero, disse il garzoncello, ho sognato così.
- Ed anch'io ho sognato ciò che or ora mi dicevi: ma come mai ci siamo incontrati tutti due nei sogni?...
In quel momento, la conversazione fu interrotta dall'apparizione di Tord-Chène, che percosse il nipote con un grosso randello, rimproverandolo di non aver avvinchiato neppur un fastello.
– E poi, soggiunse, non ti ho raccomandato forse di torcere i rami che cedono facilmente, e aggiungerli a tuoi fastelli?
– E che – disse il piccolo – il guarda-boschi mi metterebbe in prigione se trovasse nei miei fastelli della legna viva... E poi, quando volli farlo come mi avete detto, udiva l'albero lamentarsi.
– Ciò succede a me pure, disse la piccola fanciulla; quando porto via dei pesci nella mia cesta li sento cantare sì tristamente, che li rigetto nell'acqua... Allora andando a casa sono certa di essere percossa.
– Taci, piccola strega! – disse Tord-Chène, che sembrava animato dal vino – col tuo dire distogli mio nipote dal suo lavoro. Ti conosco bene, agli acuti tuoi denti color di perla.... Sei la regina dei pesci! Ma saprò ben io prenderti a un certo giorno della settimana, e perirai fra i vimini!...
Le minacce che Tord-Chène aveva fatte nella sua ebbrezza non tardarono a compiersi.
La piccola fanciulla si trovò pescata sotto forma di pesce rosso, che il destino l'obbligava a prendere ad un tal giorno determinato. Fortunatamente, allorquando Tord Chène volle, facendosi aiutare dal trarre dall'acqua la rete di vimini, quest'ultimo riconobbe il bel pesce rosso dalle scaglie d'oro, che aveva veduto in sogno, tale essendo la trasformazione accidentale della piccola pescatrice. Egli la difese percuotendo Tord-Chène colla sua galoscia. Quest'ultimo, furioso, prese il fanciullo pei capelli, cercando farlo cadere boccone, ma stupì nel trovare in lui molta resistenza. Ed il motivo era che il fanciullo teneva i piedi in terra con tanta forza che suo zio non poteva venire afine dal rovesciarlo o dal vincerlo, e facendolo invano girare in tutti i sensi.
Al momento in cui la resistenza del fanciullo era sul punto di cedere, gli alberi della foresta fremettero di un sordo gemito; i rami agitati lasciarono fischiare il vento, e la tempesta fece scostare Tord-Chène, il quale si ritirò nella capanna dello spacca-legna.
Egli ne uscì ben tosto, minacciante, terribile e trasfigurato come un figlio d'Odine: nella sua mano brillava un'accetta scandinava che minacciava gli alberi, simile allo scalpello di Thor che spezza le rocce.
Il giovane principe delle foreste, vittima di Tord-Chène, - zio usurpatore, – sapeva già qual fosse il suo rango, che gli si voleva celare.
Gli alberi lo proteggevano, ma solamente colla loro massa e colla loro resistenza passiva.
Invano le siepi e le gemme s'intralciavano da tutte le parti per trattenere i passi di Tord-Chéne; questi aveva chiamato i suoi taglia-legna e si faceva così strada a traverso quegli ostacoli. Già più alberi, sacri al tempo dei vecchi Druidi, erano caduti sotto le accette e le scuri.
Fortunatamente, la regina dei pesci non aveva perduto tempo. Ella era andata a gettarsi ai piedi della Marna, dell'Aisne e dell'Oise, i tre grandi fiumi vicini, sponendo loro che se non distoglievano Tord-Chène e i suoi compagni dai
loro progetti, le foreste troppo illuminate non formerebbero più vapori, che producono le pioggie e che forniscono l'acqua ai ruscelli, alle riviere, ed agli stagni: e che le sorgenti stesse sarebbero asciugate e non farebbero più zampillare l'acqua necessaria ad alimentare i fiumi; senza contare che tutti i pesci si vedrebbero distrutti in pochissimo tempo; come pure le bestie selvaggie e gli uccelli.
I tre gran fiumi presero su di ciò tali disposizioni che il suolo ove Tord-Chène, con i suoi terribili spacca-legna, lavoravano alla distruzione degli alberi, senza aver potuto tuttavolta giungere ancora al giovane principe delle foreste, fu intieramente annegato dall'immensa inondazione, la quale non si ritrasse che dopo la distruzione degli aggressori.
Fu allora che il principe delle foreste e la regina dei pesci poterono di nuovo riprendere la loro innocente conversazione.
Non erano più un piccolo spacca-legna ed una piccola pescatrice, ma un silvano e un'ondina, che più tardi unironsi in legittimo vincolo d'alleanza.
Fine
GERARD DE NERVAL
Dalla rivista IL Fuggilozio del 1855


[1] In un suo racconto che ha per titolo Silvia.
[2] Il Fausto fu da Gerardo pubblicato nel 1828: prima di quell'epoca aveva dato in luce (1826) le Elegie nazionali, la Morte di Talma, Napoleone e Talma, L'Accademia, o i Membri introvabili, commedia satirica in versi; Il signor Dentscourt o il Cuciniere di un grand'uomo, altra commedia satirica. Tutti quei libri furono firmati Gerardo di Nerval, nome perciò con cui fu sempre conosciuto nel mondo letterario.
[3] L'Appendice dell'Indipendenza Belgica del 4 febbrajo 1855 narra, che Göthe gli scrivesse: « Signore, io non mi sono mai così bene compreso come leggendo la vostra versione.»
[4] Narra Giulio Lecomte (lad. belge del 4 febbr.) che la prima volta che a Gerardo venne dato di penetrare nel gabinetto dell'amabile attrice, era cosi confuso, che rovescio un ammirabile e prezioso vassoio di vecchio Sévres, e, spaventato dalla disgrazia, s'involo tostamente di là, e nel colmo del turbamento errò piangendo tutta la notte
[5] Eccone i titoli: Il re di Bicêtre, Le conſidenze di Nicola, Quinto Aucler, l'Abate Bucquoy, Gazotte e Cagliostro.
[6] Si narra che Gerardo di Nerval, rispondendo ad una persona che gli parlava della sua Jenny Colon, dicesse: « Tacete ! ella è morta; e sono convinto che le anime dei morti ci vagolano d'intorno ascoltando le nostre parole!» 
[7] Gerardo di Nerval crasi recato, poco tempo fa, a Weimar onde assistere all'anniversario della nascita di Gölhe. Il Granduca ereditario di Sassonia scrisse poscia a Gerardo di Nerval una lettera molto lusinghiera, mandandogli in dono un autografo di Göthe.
[8] La Rivista di Parigi pubblicò il giorno 15 del corrente febbrajo la fine di questo fantastico lavoro di Gerardo.
[9] In Italia si usa popolarmente la frase “Và al diavolo” oppure ancora “Andare a casa del diavolo”. Per altre espressioni europee v.  http://www.cafebabel.it/societa/articolo/vai-al-diavolo.html
Anche il grande Peyo ha usato l'espressione popolare francese per un episodio ["Sagratamabarb", un cugino di Gargamella] dei suoi Puffi. Da il Giornalino.

[10] Nel XI° secolo, il re Roberto il Pio decide di stabilire la sua residenza fuori Parigi, in un vallone pieno di vigne allora chiamato Vauvert (la Valle verde val vert). Quello che è oggi conosciuto come i Giardini del Lussemburgo  [Jardin du Luxembourg].
Alla sua morte, il castello di Vauvert [château de Vauvert] viene ben presto abbandonato e diventa un luogo inquietante. I suoi muri cadono in rovina e servono da rifugio per briganti e mendicanti, in pratica una vera corte dei miracoli. Le testimonianze dell’epoca parlano di grida e urla da lì provenienti. Si conclude così che è un luogo malefico, e dà origine all’espressione popolare di andare dal diavolo Vauvert [aller au diable Vauvert].
Nel 1257, re Luigi IX concede la terra ai Certosini che vi fondano un monastero, la Chartreuse de Paris.  V. https://fr.wikipedia.org/wiki/Vauvert_(Paris)  
[11] L’incisione della rivista fa allusione a un’operazione di polizia eseguita  il 26 novembre 1849, con l’aiuto della truppa, nella casa di un certo Patras de Compaigno, un ex guardiano abitante al 16 di rue Rumfort, dietro la Madeleine. Un gruppo legittimista, la Légion de Saint-Hubert, vi teneva le sue riunioni e si fecero ben quarantasei arresti. L'inchiesta però non diede dei gran risultati e l’almanacco comico non si lasciò sfuggire l’occasione  per prender in giro il nuovo prefetto di polizia, Pierre Carlier. Riguardo alla fantasia di Gérard, pubblicata il mese dopo, è difficile attribuigli un disegno politico. 
[12] Il quai [molo] de la Râpée era conosciuto per i suoi cabarets, che non erano frequentati solo dalla gente del porto. Jules Marsan consiglia a questo proposito: Vadé, le Déjeuner de la Râpée.
[13] On n'a jamais pu le savoir. Marsan in nota spiega che di tempo in tempo, si rinnovavano le inesplicabili diavolerie [lutineries] della vecchia Certosa e del castello di Vauvert.
A volte, v’erano colpi di pistola uditi ogni giorno al calar del sole. A volte degli applausi misteri, non imputabili a nessun autore, attore o oratore che dir si voglia. A volte delle piogge di rospi, senza alcuna nube che giustificasse la caduta.
Per non parlare della pioggia di monete da cento avvenuta nel 1821, nella rue Montesquieu. Per cui qualcuno aprì un magazzino chiamandolo il diavolo d’argento [Diable d'Argent], e un altro sotto il titolo del povero diavolo. [du Pauvre Diable]. Diavolo a cui qualcuno a provato a tirare la coda e che fu sempre rappresentato come un diavolo verde, verde come la Speranza.
Tutti si ricordano (scrive sempre Marsan) della caduta di pietre che ebbe luogo tutti i giorni nel quartiere d’Enfer [un nome, una garanzia, nota di Puga], presso la Sorbonna, senza scoprirne la causa più di un anno prima, nel 1927. Fu semplicemente il risveglio del diavolo verde.
Da allora numerosi curiosi o semplici sfaccendati hanno creduto di vederlo. Si mormora che abbia una missione segreta da svolgere affidatagli dal Regno Oscuro. Lui osserva, vestito come il primo venuto, le monarchie che passano. Segue il corso degli eventi. Scrive lettere umoristiche che firma con i suoi artigli e che, dicono, le getta poi nel pozzo di Grenelle, appesantite con una palla di piombo. È la posta dell’Inferno.
In genere, non si sa perché, i diavoli sono sempre rinchiusi nelle bottiglie. E questo da quando, nei racconti delle Mille e una notte, i negromanti li rinchiudevano in vasi di piombo. Si capisce però il perché il sergente e sua moglie bevendo da quella particolare bottiglia assorbano uno di quei spiriti fantastici, riproducendo così sulla terra uno spirito maligno.

§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§
va agli

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.