I Romani in America
L’avventura di Francisco Raposo
Dagli scritti del colonnello
Fawcett detto il sognatore
Il colonnello come è stato raffigurato da Angelo Maria Ricci dal
numero 29 di Martin Mystère,
dove Alfredo Castelli ipotizza che Fawcett abbia
raggiunto un mondo da sogno.
Chi ha un temperamento avventuroso troverà in quanto
ho detto le premesse per una storia affascinante quant'altre mai. Io ne venni a
conoscenza attraverso un vecchio documento ancora conservato a Rio de Janeiro,
e implicitamente vi credetti, sulla base di prove raccolte da molte parti. Non
darò qui la trascrizione letterale dello strano racconto contenuto nel
documento, — il rozzo scritto portoghese è interrotto in parecchi punti, — ma
riferirò la storia che incomincia nel 1743, quando un nativo di Minas Gerais,
di cui non si conosce il nome, decise d'andare alla ricerca delle perdute
miniere di Muribeca[1].
Una
Spedizione parte alla ricerca dell'Eldorado. Dalla prima avventura di Alvar
Mayor
Francisco Raposo — debbo pur chiamarlo in qualche modo[2] — era disposto ad affrontare le
bestie feroci, i serpenti velenosi, gl'indigeni selvaggi e gl'insetti pur
d'arricchire se stesso e i suoi compagni, come gli Spagnoli avevan fatto nel
Perù e nel Messico solo due secoli prima. Eran uomini arditi e duri, quegli
antichi pionieri, superstiziosi forse, ma se appena l'oro li chiamava ogni
ostacolo veniva da essi posto in non cale.
Era sempre difficile portare animali da trasporto
attraverso l'entroterra privo di passaggi e di sentieri, attraversato dovunque
da fiumi e paludi, con l'erba dura e i continui attacchi dei
pipistrelli-vampiri che finivano con l'eliminare presto le bestie da soma. Il
clima passava da un freddo intenso a un calore eccessivo, e alla siccità totale
potevano seguire giorni di vero diluvio, il che costringeva a portarsi dietro
un notevole equipaggiamento. Ma, senza curarsi di queste difficoltà, Raposo e
la sua banda partirono pieni di speranza alla volta della zona selvaggia.
Soltanto da poco sono riuscito a precisare che essi
avevano preso la via del Nord. In quei tempi non esistevano carte del paese e
nessuno sapeva come orientarsi su terra, cosicché i punti di riferimento da
essi lasciati non possono dare affidamento alcuno. Gli indiani li
accompagnarono per qualche tratto, indicando loro le vie da prendere; altre
volte vagarono nell’ignoto, affidandosi alla fortuna. Come tutti i pionieri, si
nutrivano del pesce e della selvaggina che potevano procurarsi, e dei frutti
e delle verdure rubacchiati nelle coltivazioni degli Indigeni o ottenuti
dalle tribù amiche, ma era un vitto scarso perché la selvaggina è paurosa e poco
avvicinabile nelle foreste sud-americane; gli uomini però, a quei tempi,
vivevano più semplicemente e quindi la loro resistenza era maggiore. Raposo, i
suoi compatrioti e i loro schiavi negri resistettero a quell’incerto
vagabondaggio per ben dieci anni. Senza contare gl'Indiani che si avvicinavano
di quando in quando e che scomparivano appena lo credevano opportuno, il
gruppo era composto di meno di venti uomini. Per
questo forse riuscirono a sopravvivere; le bandeiras eran costituite in
genere di cinquecento unità, e se ne ricorda una di ben 1.400 uomini, di cui
non si salvò neanche uno! Essendo pochi, questi di Raposo riuscirono a vivere
dove in molti sarebbero morti di fame.
A un certo punto il gruppo mosse di nuovo all'Est, verso le
colonie sulla costa, stanco di quel girovagare senza fine, scoraggiato, e
indotto a credere che le miniere fossero un mito. Poi, dopo aver ancora
camminato attraverso paludi e foreste, si trovarono di fronte a montagne erte
di punte frastagliate, all'estremità d'una pianura erbosa interrotta da una
sottile fascia di foresta verde. Raposo dice che quelle cime « sembravano
toccare le regioni eteree e servire da trono al vento e alle stelle ».
Ma quelle non erano montagne comuni. A misura che il gruppo
vi si avvicinava, ne vedeva i fianchi accendersi, infocati. Aveva appena smesso
di piovere e il sole al tramonto veniva riflesso dalle rocce ricche di
cristalli e di quel quarzo leggermente opaco cosi comune in questa parte del
Brasile. Agli occhi degli avidi esploratori esse parvero tempestate di gemme.
C'eran cascate che precipitavano da una roccia all'altra e al di sopra della
cresta della catena s'era formato un arcobaleno, come a indicare un tesoro
nascosto ai suoi piedi.
« Questo è un segno! » gridò Raposo. « Guardate! Abbiamo
trovato il tesoro del grande Muribeca! ».
Scese la notte e li costrinse ad accamparsi prima d'aver
raggiunto la base di quelle meravigliose montagne; e il mattino seguente,
quando il sole sorse dietro di esse, le rocce scoscese apparvero scure e
minacciose. L'entusiasmo svanì; ma c'è pur sempre nelle montagne qualcosa che
affascina l'esploratore. Che cosa si vedrà dalla vetta più alta?
Agli occhi di Raposo e dei suoi compagni quelle montagne
apparivano altissime e quando le raggiunsero vi scoprirono ripidi e
inaccessibili precipizi. Per tutto il giorno errarono faticosamente tra
pietraie e spaccature alla ricerca d'un passaggio per scalare quelle levigate
pareti. I serpenti a sonagli abbondavano: e non c'è rimedio per il morso di
quelli del Brasile. Affranto dal duro cammino e dalla continua tensione per
evitare i serpenti, Raposo ordinò l'alt.
«Abbiamo fatto tre leghe e ancora non abbiamo trovato un
passaggio per salire », disse. Meglio sarebbe tornare alla vecchia pista e
cercare una strada verso il Nord. Che cosa ne dite? ».
« Campo! » fu la risposta. « Accampiamoci. Ne abbiamo
abbastanza per oggi. Domani potremo tornare indietro ».
« Benissimo », rispose il capo. Poi si rivolse a due degli
uomini:
« Voi, José e Manoel... andate a cercare legna per il
fuoco! ».
L'accampamento fu preparato e gli uomini stavano riposando
quando un confuso vocio e rumore nel bosco li fece balzare in piedi, col fucile
in mano. Ecco spuntare José e Manoel.
« Patrào, patrào! » gridavano, «
abbiamo trovato la via per salire! ».
Mentre cercavano legna per il fuoco tra i bassi cespugli,
avevano visto un albero abbattuto al margine d'una piccola insenatura boscosa.
Era il miglior combustibile che si potesse trovare e stavano dirigendovisi
quando un cervo era balzato fuori dall'altro lato dell'insenatura ed era
scomparso dietro un angolo di roccia. Imbracciato il fucile, i due uomini lo
avevano seguito il più velocemente possibile, poiché significava carne
sufficiente per diversi giorni.
L’animale era scomparso; ma, superata la sporgenza
rocciosa, i due giunsero a una profonda fenditura di fronte al precipizio, e
videro che era possibile risalirla fino alla sommità. Nell'eccitazione
dimenticarono cervo e legna.
Tolsero il campo immediatamente, si misero i sacchi in
spalla e partirono guidati da Manoel. Con esclamazioni di meraviglia, entrarono
nella fenditura in fila indiana, e scoprirono che si allargava un po'
all'interno. Era una marcia difficile, ma qua e là si trovavan tracce di quel
che pareva un vecchio selciato e in certi punti le pareti verticali della
fessura sembravano portare i segni quasi del tutto cancellati di utensili e di
lavoro umano. Grappoli di cristalli di rocca e spumeggianti blocchi di quarzo
davan loro l'impressione d'essere entrati in un paese incantato e nella luce
opaca che filtrava attraverso la fitta massa dei rampicanti sopra di loro si
sentirono ripresi dalla magia della prima impressione.
Uno
dei meravigliosi disegni con cui Brian Fawcett illustrò le memorie del padre.
La salita era cosi difficile che per emergere, laceri
e senza fiato, su una specie di terrapieno alto sulla pianura circostante,
impiegarono tre ore. Nessun ostacolo più li separava dalla vetta e ben presto
s’affollarono sulla cima, guardando, ammutoliti dallo stupore, l'ampia visione
che s'apriva sotto di loro.
Ai loro piedi, a circa quattro miglia di distanza, sorgeva
una enorme città.
Subito si gettarono a terra e si nascosero dietro le rocce,
sperando che gli abitanti non avessero notato di lontano le loro figure contro
il cielo. Temevano che fosse una colonia degli odiati Spagnoli. Ma poteva anche
essere una città come Cuzco, antica capitale degli Incas del Perú, abitata da
un popolo d'alta civiltà che ancora resisteva contro l'usurpazione degli
Europei. E se fosse stata una colonia portoghese? Poteva essere la piazzaforte
degli Orizes Procazes, superstiti dei misteriosi Tapuyas, che rivelavano con
segni inconfondibili d'essere stati un tempo un popolo civilissimo.
Raposo strisciò fino sulla cresta una seconda volta e,
rimanendo disteso a terra, si guardò attorno. La catena si estendeva a perdita
d'occhio da Sud-Est a Nord Ovest, e oltre ancora verso Nord, indistinta per la
lontananza, si vedeva la foresta intatta. Nell'immediata vicinanza, si apriva
una vasta pianura pezzata di verde e di scuro, interrotta a tratti da
scintillanti specchi d'acqua. Vide la continuazione della strada rocciosa seguita
nella scalata, che scendendo lungo il fianco del monte scompariva poi, coperta
dalla montagna, per riapparire ancora, serpeggiando, nella pianura fino a
perdersi nella vegetazione attorno alle mura della città. Ma non vide il menomo
segno di vita: né fumo s'innalzava nell'aria, né suono spezzava il
profondissimo silenzio.
Fece allora un rapido cenno ai suoi seguaci ed essi, ad uno
ad uno, superarono strisciando la vetta e iniziarono la discesa, al riparo di
rocce e cespugli. Scesero poi cautamente lungo il fianco della montagna fino
alla valle, e lasciarono la pista per accamparsi presso un ruscello di limpida
acqua.
Quella notte non si accesero fuochi e gli uomini parlarono
bisbigliando. Erano terrorizzati dalla vista della civiltà dopo tanti lunghi
anni passati in luoghi selvaggi, e non si sentivano per niente tranquilli. Due
ore prima che scendesse la notte, Raposo inviò due Portoghesi e quattro negri
in perlustrazione a scoprire che razza di gente vivesse in quel luogo
misterioso. Innervositi, gli altri attesero il loro ritorno; e ogni suono della
foresta — i canti degl'insetti e lo stormir delle fronde — assumeva per essi un
tono sinistro. Ma quando tornarono gli esploratori non avevano nulla da dire.
La mancanza di ogni possibile riparo aveva loro impedito di avvicinarsi troppo
alla città, ma nessun segno faceva pensare che fosse abitata. Gl'Indiani della
compagnia non erano meno perplessi di Raposo e dei suoi. Superstiziosi per
natura, consideravano alcune parti del paese come tabú, ed erano vivamente
preoccupati.
Raposo, comunque, riuscì a convincere uno
degl'Indiani ad andare in avanscoperta, disarmato, il mattino seguente dopo
l'alba. Nessuno aveva dormito molto nella notte, e l'ansia circa la sorte
dell'indigeno impedì loro di riposarsi anche nella tranquillante luce del
giorno. A mezzodì l'esploratore ritornò strisciando al campo, evidentemente
impressionato, dicendo che la città era disabitata. Era troppo tardi ormai per
andare avanti quel giorno; passarono quindi un'altra notte insonne ad ascoltare
gli strani rumori della foresta, pronti ad affrontare in qualsiasi momento
qualche pericolo ignoto.
Il mattino seguente di buon'ora Raposo mandò avanti una
pattuglia composta di quattro Indiani e li seguì col resto della compagnia.
Quando furon vicini alle mura ricoperte di vegetazione gl'Indiani insistettero
a dire che la città era deserta; andarono perciò avanti con minori precauzioni
fino a un'entrata fatta di tre archi costruiti con enormi lastroni di pietra.
Cosi impressionante era questa costruzione ciclopica — simile, probabilmente, a
quanto ancora si può vedere a Sacsahuaman nel Perú — che nessuno osò parlare,
e, rapidi e furtivi come gatti, oltrepassarono le pietre annerite dal tempo.
Tarzan
entra nella città perduta di Opar. Tavola di Jesse March dei primi anni '50,
dall'edizione messicana.
Al di sopra dell'arco centrale dei caratteri erano
profondamente incisi nella pietra consumata dalle intemperie. Raposo,
nonostante la sua ignoranza, riuscì a capire che non si trattava di scrittura
moderna. Un'atmosfera di straordinaria vecchiezza regnava su tutto ed egli
dovette fare un vero sforzo per dare, con voce rauca e innaturale, l'ordine di
procedere innanzi.
Gli archi erano ancora in buono stato di conservazione, ma
due o tre dei colossali pilastri apparivano leggermente spostati alla base. Attraversandoli,
gli uomini entrarono in quella che era stata una volta un'ampia strada, ora
tutta cosparsa di pilastri spezzati e di frammenti di muro su cui era cresciuta
la vegetazione parassita dei tropici. Su entrambi i lati si elevavano case di
due piani costruite con grandi blocchi messi insieme senza calce, ma con
precisione quasi incredibile, sui cui porticati, stretti in basso e larghi in
alto, erano incise elaborate figure ch'essi presero per demoni.
Non si può non dar fede a questa descrizione fatta da
uomini che non avevano mai visto Cuzco e Sacsahuaman, o altre meravigliose
città del vecchio Perú, già incredibilmente antiche quando gli Incas le
trovarono per la prima volta. Quel che videro e riferirono corrisponde
perfettamente a molti aspetti che possiamo vedere ancor oggi. Difficilmente
avventurieri ignoranti avrebbero potuto inventare cose confermate in modo cosi
preciso dai ciclopici resti oggi familiari a tanti.
Tutto appariva in rovina, ma molti edifici avevano
ancora un tetto formato da grandi lastroni di pietra. Quelli che osarono
entrare negli interni oscuri e parlare ad alta voce, fuggiron via subito udendo
gli echi che rimbombavano dalle mura e dai soffitti a volta. Impossibile dire
se rimaneva ancora qualche resto di arredamento, perché nella maggior parte dei
casi i muri interni erano crollati ricoprendo di detriti i pavimenti, e, col
passare dei secoli, gli escrementi di pipistrello avevano formato in terra uno
spesso tappeto. Il luogo era cosi antico, che cose deperibili come mobili e
stoffe dovevano essersi disintegrate da tempo.
Ammassati come un gregge di pecore spaurite, gli uomini
procedettero lungo la strada finché giunsero a una vasta piazza. Si levava al
centro un'enorme colonna di pietra nera, su cui si scorgeva la figura,
perfettamente conservata, di un uomo con una mano sul fianco e l'altra puntata
verso il Nord. La maestà della statua colpì profondamente i Portoghesi, che si
fecero con reverenza il segno della croce. Obelischi con incisioni, della
medesima pietra nera, parzialmente in rovina, si ergevano ad ogni angolo della
piazza, mentre sulla lunghezza d'un intero lato si levava un edificio magnifico
per costruzione e decorazione che doveva essere stato un palazzo. Le mura e il
tetto erano crollati in molti punti, ma le grandi colonne quadrate erano ancora
intatte. Un'ampia scalinata di gradini di pietra in rovina conduceva a una
vasta sala, dove tracce di colore apparivano ancora sugli affreschi e sulle
sculture. Pipistrelli innumerevoli, a migliaia, volavano ruotando per le tetre
stanze rese soffocanti dalle acri esalazioni dei loro escrementi.
Fu con piacere che gli esploratori uscirono all'aria
aperta. La figura d'un giovane era scolpita su quello che pareva l'ingresso
principale. Era una figura senza barba, nuda dalla cintola in su, con uno scudo
in mano e una fascia attorno a una spalla. Portava in testa qualcosa che parve
loro una ghirlanda di alloro, a giudicare dalle statue romane che avevano visto
in Portogallo. In basso eran incisi caratteri straordinariamente simili a
quelli dell'antica Grecia. Raposo li ricopiò su una tavoletta e li riprodusse
poi nel suo racconto.
Hubert
Robert. Rovine di un tempio dorico
Di fronte al palazzo c'eran le rovine di un altro gigantesco
edificio, evidentemente un tempio. Corrose figure scolpite di animali e uccelli
ricoprivano i tratti di muro rimasti, e al disopra del portale c'erano altri
caratteri che furono anch'essi ricopiati con la massima fedeltà possibile da
Raposo o da uno dei suoi compagni.
Oltre la piazza e la via principale, la città si presentava
come una completa rovina, in alcuni punti letteralmente seppellita sotto
monticelli di terra su cui non cresceva né un filo d'erba né altro. Qua e là
s'aprivano abissi, e quando gli esploratori vi gettarono dentro delle pietre
nessun suono venne a indicare che avessero toccato il fondo. La causa della
distruzione era evidente. I Portoghesi conoscevano i terremoti e le loro
terribili conseguenze. Interi edifici erano stati inghiottiti, lasciando forse
solo alcuni frammenti scolpiti a mostrar dove si ergevano un tempo. Non era
difficile immaginare lo spaventoso cataclisma che doveva aver devastato quello
splendido luogo, facendo crollare colonne e blocchi del peso di cinquanta e forse
più tonnellate, e distruggendo nello spazio di pochi minuti il faticoso lavoro
di migliaia d'anni!
L'estremo lato della piazza terminava in un fiume largo
circa trenta metri, che fluiva diritto e veloce da Nord-Ovest, per scomparire
nella lontana foresta. Una bella banchina aveva un tempo costeggiato il fiume,
ma ora era frantumata e in gran parte crollata nell'acqua. Dall'altro lato del
fiume si estendevano campi un tempo coltivati, e ancora ricoperti di abbondante
e fitta erba e da un tappeto di fiori: Il riso, propagandosi, aveva attecchito
nelle basse paludi attorno, dove navigavano le anitre.
Raposo e i suoi guadarono il fiume e attraversarono la
palude dirigendosi verso un edificio isolato alla distanza di circa un quarto
di miglio, e le anitre si spostarono appena al loro passaggio. All'edificio si
giungeva attraverso una scalinata di gradini di pietra di diversi colori;
s'ergeva infatti su un'altura, con una facciata larga circa 250 passi.
L'imponente ingresso dietro un monolito quadrato, che portava alcune lettere
profondamente incise, conduceva a un'ampia sala in cui sculture e decorazioni
avevano resistito in modo sorprendente alle ingiurie del tempo. Quindici stanze
si aprivano sulla grande sala, e in ognuna era scolpita la testa d'un serpente
da cui sgorgava ancora una sottile vena d'acqua che ricadeva nella bocca d'un
altro serpente di pietra più in basso. Probabilmente quella era stata la sede
d'un collegio di sacerdoti.
La città era disabitata e in rovina, ma i ricchi campi
attorno offrivano agli esploratori assai più cibo di quanto non potessero
trovarne nella foresta vergine. Nessuna meraviglia quindi che, nonostante il
terrore ispirato dal luogo misterioso, nessuno volesse veramente andarsene. La
paura lasciò il posto all'avidità della ricchezza, che aumentò quando João
Antonio, l'unico membro del gruppo di cui si dia il nome nel documento, trovò
tra i rottami una piccola moneta d'oro, la quale portava su un lato l'effigie
di un giovane inginocchiato e sull'altra un arco, una corona e uno strumento
musicale. Quel luogo doveva esser pieno d'oro, si dissero; fuggendo gli
abitanti s'eran portati via soltanto le cose essenziali per sopravvivere.
Il documento accenna alla scoperta d'un tesoro, ma
non fornisce ulteriori particolari. La greve aria di sventura che pesava sul
luogo si dimostrò forse a lungo andare troppo pesante per i nervi di quei
superstiziosi pionieri o forse i milioni di pipistrelli li atterrirono. È
improbabile comunque che portassero seco il tesoro, poiché dovevano affrontare
ancora un viaggio terribile per tornare in luoghi civili, e nessuno avrebbe
potuto aggiungere altro peso a quello dell'equipaggiamento di cui già era
carico.
Incisione
di un anaconda del 1890
Raccogliere il riso nelle paludi e cacciare le anitre era
pericoloso. C'era una quantità di anaconde tanto grandi da poter uccidere un
uomo; e i serpenti velenosi, attratti dalla selvaggina, strisciavano ovunque,
nutrendosi non solo di uccelli, ma anche di gerboè, « topi che saltano
come pulci » li definisce lo scrittore. Cani selvatici, grosse bestie grigie
simili a lupi, erravano per la pianura, e tuttavia nessuno volle dormire nella città.
Drizzarono l'accampamento subito dietro la porta per cui erano entrati, e di li
potevano osservare al tramonto le legioni di pipistrelli che si levavano dai
grandi edifici per disperdersi nel crepuscolo con un secco fruscio d'ali simile
al primo soffio d'una tempesta che s'avvicina. Di giorno il cielo era nero di
rondini, avide d'insetti che si riproducevano incessantemente.
Francisco Raposo non sapeva minimamente dov'era, ma alla
fine decise di seguire il fiume attraverso la foresta, sperando che gl'Indiani
avrebbero ricordato i punti di riferimento quando fosse tornato con una
spedizione equipaggiata a dovere per portar via il tesoro dalle rovine. A
cinquanta miglia più in basso trovarono una possente cascata e nella parete
d'una montagna vicina segni che rivelavano l'esistenza di miniere. Qui si
trattennero più a lungo. La selvaggina era abbondante, parecchi uomini avevano
la febbre e gl'indigeni erano innervositi dal timore di tribù ostili in
vicinanza. Sotto la cascata il fiume si allargava in una serie di lagune
paludose, come fanno spesso questi fiumi.
Esplorando, si vide che le supposte miniere erano buchi in
cui non c'era modo di penetrare, ma intorno all'apertura era sparso in
abbondanza un ricco minerale d'argento. Qua e là si aprivano nella montagna
grotte scavate dalla mano dell'uomo, alcune di esse chiuse da grandi lastre di
pietra su cui erano incisi strani segni. Si trattava forse delle tombe dei
monarchi della città e degli alti sacerdoti? Ma gli uomini cercarono invano di
rimuovere le lastre pesanti.
Credendosi ormai ricchi, gli avventurieri stabilirono di
non rivelare la loro scoperta a nessuno, tranne che al viceré, verso cui Raposo
aveva un debito di gratitudine. Contavano di ritornare il più presto possibile,
per prender possesso delle miniere e portar via tutte le ricchezze dalla città.
Un pellerossa in canoa del NordAmerica
Intanto una pattuglia d'avanscoperta era stata inviata a
esplorare il fiume più in basso. Dopo aver per nove giorni attraversato
laghetti e lagune, avvistarono una canoa in cui remavano due « bianchi » dai
lunghi capelli neri, coperti di qualche indumento. Spararono un colpo per
attirare la loro attenzione, ma la canoa si allontanò e scomparve. Esausti per
la fatica dei lunghi giri
che avevan dovuto compiere intorno alle paludi, non
osando continuare a scendere in gruppo cosi esiguo, ritornarono alla cascata.
Raposo sentiva il dovere di usar prudenza, ora che assieme
ai suoi seguaci aveva la fortuna a portata di mano, e di non correre il rischio
d'incontrare Indiani ostili, e perciò si diresse verso Est. Dopo alcuni mesi di
duro viaggio, raggiunse la riva del fiume São Francisco, l'attraversò a Paraguassu
e alla fine arrivò a Bahía. Di là inviò al viceré, Don Luiz Peregrino de
Carvalho Menezes de Athayde, il documento da cui è tratto questo racconto.
Il viceré non fece nulla e non sappiamo se Raposo
ritornasse o meno al luogo da lui scoperto. Comunque, non se ne senti più
parlare. Per circa un secolo il documento rimase archiviato a Rio de Janeiro
finché il Governo di allora non lo tirò fuori, incaricando un giovane prete di
far delle ricerche. La spedizione, evidentemente condotta con poca
intelligenza, non ebbe alcun risultato.
Difficilmente un'amministrazione imbevuta dell'ottuso
bigottismo d'una Chiesa strapotente poteva dar credito all'esistenza di
un'antica civiltà. L'Egitto era in quei tempi ancora un mistero, e lo spirito
ecclesiastico, che ostinatamente distrusse le incalcolabili testimonianze del
Perù e del Messico, era più potente che mai.
So che la città morta di Raposo non è l'unica del genere. Un
console britannico a Rio venne condotto in un posto simile nel 1913 da un meticcio
indiano; ma si trattava di una città assai più facilmente raggiungibile, in
territorio non montagnoso e completamente nascosta nella foresta. Anch'essa era
caratterizzata dai resti d'una statua su un grande piedestallo nero nel mezzo
di una piazza. Sfortunatamente una tempesta improvvisa li privò degli animali
costringendoli a tornare indietro senza indugio se non volevano morire di fame.
§§§§§§§§§
Spezzone tratto dal primo capitolo del libro:
ESPLORAZIONE FAWCETT
di P. H. FAWCETT
In
copertina Brian con alcuni indios
Il colonnello inglese Percival Henry Fawcett scomparve nel
Matto Grosso, con il figlio Jack e il compagno Raleigh Rimell, nel
Luglio del 1925. Doveva essere quella l’impresa conclusiva di tutta una vita
dedicata all'esplorazione dell'America Latina, in vent’anni di viaggi ininterrotti. Fawcett era
convinto dell’esistenza di una favolosa città soffocata dalla foresta
equatoriale (l'Eldorado della leggenda). Straordinari racconti filtrati
attraverso la foresta vergine accreditarono di poi la speranza che i tre esploratori
fossero vivi, prigionieri di una tribù selvaggia. Prove certe della loro morte
non furono peraltro mai trovate. Alcuni anni or sono la moglie rivelò che in
suo possesso erano tutte le carte dello scomparso e le consegnò al figlio
Brian, affidandogli l’incarico di ordinarle in un volume.
Il libro ricostruisce la fisonomia d’uno di quei mistici
dell’azione di cui è tanto doviziosa la razza anglosassone; di un idealista
che, mentre in Brasile imperversa la febbre del caucciù con tutta la sua
corruzione e le sue crudeltà, si mette sulla traccia di civiltà scomparse per
risolvere l’enigma del mondo preistorico.
Sono nel libro i più bei temi: l'avventura, il pericolo, il
fascino delle città misteriose, i lunghi viaggi su mulattiere a strapiombo sugli
abissi, le navigazioni in canoa lungo fiumi vorticosi pieni di morte, l'insidia
continua degli Indios spesso selvaggi e crudeli, dei serpenti velenosi, delle
belve, dei caimani, delle febbri.
Ma vi e anche il ritratto di un'epoca e di un paese nel suo
passato e nel suo presente, un paese ancora sconosciuto che Fawcett descrive
con l'interesse dell'esploratore, dell’etnologo, dell’archeologo e,
soprattutto, dell’artista che profonde in quel che narra lo smagliante
tesoro dell'esperienza visiva. Dalla prefazione nel
risvolto della sovracoperta
Volume di 352 pagine, finito di stampare il 28 dicembre 1953 da
Bompiani. Traduzione dall’inglese di Paolo Gobetti
[1] Si riferisce alle miniere perdute di
Muribeca. Ecco la storia succinta, sempre riferita dal Colonnello: Ventiquattro
anni dopo lo sbarco di Colombo nel cosiddetto “Nuovo Mondo”, Diego Alvares
naufraga sulle coste del Brasile, dove oggi sorge Bahía. Un territorio popolato
dai cannibali Tupinamba, ma – come scherzo del destino – i “selvaggi” si
dimostrarono più civili dei Bianchi e non lo divorarono. E questo scherzo aveva
le fattezze di una ragazza di nome Paraguassu, della tribù dei Pocahontas […?!]
che lo sposò.
Tex diventa Aquila della Notte; Come la
fantasia ha spesso riferimenti alla realtà. Dal premiato atelier Gianluigi
Bonelli-Galep 1948
Poi arrivarono altri suoi compatrioti e uno di loro sposò
una sorella di Paraguassu, Melchior Dias Moreira. Il cognato di Alvares
trascorse la maggior parte della sua vita con gli indigeni – fu da essi
chiamato Muribeca – e scoprì molte miniere accumulando grandi quantità di oro,
argento e pietre preziose. Suo figlio Roberio Dias, ambiva a un titolo
nobiliare e chiese al Re del Portogallo, di essere nominato marchese delle
Miniere ( das Minas ). Ma il Re si mostrò spregiante del mezzosangue e tentò di
ingannarlo, perciò Dias rifiutò di indicare e di consegnare le miniere, col
risultato di finire in galera per due anni a Bahía. Dias riebbe la libertà solo
pagando e nel 1622 morì, portandosi il segreto delle miniere nella tomba. Lo
zio Alvares era morto da tempo e nessun Indiano avrebbe mai parlato, neppure
sotto le più orribili torture, così il sovrano rimase a mani vuote.
[2] Secondo Yuri Leveratto «Gli uomini che
viaggiarono nella spedizione, che durò per ben dieci anni, sono rimasti anonimi
(per il fatto che il documento è danneggiato), anche se alcuni studi effettuati
in Brasile sui capitani dell’epoca hanno suggerito che probabilmente i capi
della cosidetta “bandeira” (ovvero viaggio di esplorazione), erano Joao da
Silva Guimaraes e Francisco Raposo.» E di seguito dà la traduzione del
Manoscritto 512 . vedi http://www.progettoatlanticus.net/2013/05/il-manoscritto-512.html
§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§
Marco Pugacioff
va agli
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