Cecco d'Ascoli era uno studioso del basso
Medioevo, misterioso e affascinante, di cui si sa ben poco. Ma su di lui ho
trovato nella biblioteca comunale di Macerata, un articolo apparso in uno
sconosciuto quotidiano locale uscito nel '41, in piena seconda guerra mondiale.
Non so chi era l'autore, anche se è firmato, però è bello e ve lo voglio far
leggere. Era intitolato:
Cecco d'Ascoli
cavaliere dell'Invisibile Impero
Ascoli, 22
Chi
viene in Ascoli Piceno, in questa città di ponti, di torri, di campanili,
miracoli d'architettura per accordi di linee e movenze costruttive, giunto in
piazza Vitt. Emanuele non può non sentire il bisogno di sostare davanti alla
bella statua in bronzo di messer Francesco Stabili, mirabile opera artistica di
E. Camilli di Firenze, inagurata or sono vent'anni, nel 1921.
Guardando
questa statua l'uomo può essere sordo alla musica del vento e a quella delle
acque che spumeggiano nel torrente Castellano, e magari confondere un larice
con un abete, ma non può fraintendere il linguaggio che parte da essa.
Qui
sostando, un'ondata di pensieri investe lo spirito e lo trasporta lontano nei
secoli a rivivere i tempi in cui fioriva la cavalleria e le giostre d'amore e
tubavano trovatori e menestrelli; in cui diavoli e streghe, magia ed occultismo
offrivano abbondanti documenti dello smarrimento dello spirito.
I
popoli ridivenuti fanciulli si pascevano di illusioni e di fantastico. L'uomo
peccatore ed infelice attingeva dagli stregoni la scienza del bene e del male,
offriva fiori all'amore divino e a quello profano e al mito dei boschi e delle
caverne chiedeva il motivo della perpetua guerra tra il mondo della luce e
quello delle tenebre.
I
due massimi poemi dell'umanità, la Commedia e il Faust, nascono quasi in questo
periodo e sulla scorta di quegli insegnamenti il popolo prende a meditare sul
giudizio universale e sull'ignota vita dei regni ultraterreni.
Messer
Cecco, figlio singolare della sua età, insofferente di mistica e di dommatica,
respira quell'aria, ma trova modo di tramutarla in propria superba grandezza.
Egli appunta lo sguardo verso il Cielo e interroga gli astri. Il suo è un
colloquio pieno di pietà, attraverso il quale disvela quella scienza
astrologica che un giorno, in un libro famoso, definirà maestra della
filosofia, chiave e cardine dell'immenso mistero dell'Universo.
Nascono
così i suoi studi filosofici, letterari, matematici, nasce la sua fama che
varca le mura della città natia e che, gli procura discepoli ed ammiratori:
mentre il volgo, colpito da tanta rinomanza, gli attribuisce un potere non
umano e al pari dell'alighieri, di Pico della Mirandola, di Leonardo, lo crede
uno stregone avente commercio cogli stessi diavoli.
Sono
essi ormai padroni della sua anima, per un contratto firmato e da valere in
punto di morte: ma sono essi che durante la sua vita terrena gli debbono
piena ubbidienza.
E
una notte sulla via Salaria, ecco una teoria di spiriti infernali che
sgnignazza e brontola. È guidata da un capo minaccioso e feroce che sulla
corrente impetuosa del Castellano naviga con un barchetto incantato.
Questo
gruppo tenebroso, ad un cenno si ferma e s'affana a rotolare sassi, a
percuotere macigni, a scavare, tagliare, ordinare, a legare blocchi su blocchi,
senza un lamento.
E
nell'alba caliginosa, fra roboanti tuoni e paurosa tregenda, s'estolle il ponte
magico e, timido e spaurito, il popolo lo guarda con ingenua meraviglia.
Cecco
è lì vicino in attitudine di comando, guardato in cagnesco dai fetidi e
puzzolenti spiriti che fiutano la ghiotta preda loro assicurata per l'eternità.
Il ponte ha un nome: ponte Cecco.
Su
di esso anche oggi dice la leggenda vi stanno accoccolati cinque spiriti del
male, ai quali l'ascolano dal vicino monumento tiene allocuzione per spiegare
la catena dei suoi sillogismi.
Questa
la leggenda, non in perfetta armonia coi nostri tempi, ma ancora piena di
suggestione e di evocazione.
Altra
leggenda, ma spoglia del respiro infernale, aleggia intorno a Cecco e ci porta
l'eco delle sue battaglie dottrinali col divino Poeta.
Sosteneva
costui nei suoi insegnamenti scolastici, ispirati a pretese scientifiche, che
l'educazione può modificare l'istinto: al contrario lo Stabili gli opponeva che
la natura è più possente dell'abitudine.
E
la leggenda racconta che Dante per convincere il contraddittore gli mostrò un
giorno un magnifico gattone che reggeva colle zampe una candela accesa mentre
egli scriveva o leggeva. Ma Cecco per nulla impressionato della regia dantesca
e tanto meno convinto della spiritosa trovata, con furbizia professorale
preparò la sua risposta.
E
un giorno capitò in casa dell'amico con un pentolone sotto il braccio, entro
cui aveva nascosto dei topi. E fattosi a lui avanti diede completa libertà agli
immondi animali, i quali scorti dal gatto ammaestrato furono da costui
inseguiti ed agguantati nonostante il richiamo del padrone.
Voi
potete immaginare la gioia dell'uno e il disperato scoramento dell'altro.
La
novelletta che esalta la genialità dell'ascolano, ancora oggi si sente ripetere
in Ascoli.
Ma
un'altra pagina, pur essa leggendaria, viene ad attestarci la fierezza di
Cecco.
Firenze
che porta scritta sui suoi monumenti, come un libro aperto, tutta la sua
gloriosa storia, è la città che condannò al rogo il professor stabili.
Costui
eccolo, a testa bassa avviarsi al luogo del supplizio fra il bargello da un
lato e i suoi carnefici dall'altro. Il popolo lo segue perchè veramente lo
crede uno stregone e desidera vederne la fine.
Ad
un tratto una voce si ode, nella piazza di S. Mara Maggiore: è un prete che da
una piccolissima finestrella della chiesa, arringa la folla per dimostrare che
colui che va al rogo, non è un uomo qualunque del quale bisogna avere pietà, ma
un messo diabolico della cui furberia e scaltrezza bisogna aver paura. Era egli
riuscito a scoprire che Satana aveva promesso a Cecco di salvarlo da morte
qualora in pericolo estremo avesse chiesto da bere e, concludeva esortando gli
esecutori della legge, con queste parole:
«
Non gli date da bere, non morirà mai »
Al
che Cecco, ruggendo come un leone, oppose la sua sentenza, gridandogli:
«
E tu la testa di lì non caverai mai »
E
continua la leggenda che immediatamente si pietrificò la testa di quel prete,
la quale ancora oggi si può ammirare confitta al centro della finestrella, cosi
come si trovava nel pauroso pomeriggio del 16 settembre 1327.
Come
Cecco anche Savonarola fu bruciato vivo
Sono
stato a Firenze e ho voluto anch'io vedere questa testa appena visibile, perchè
posta molto in alto. Qualcuno mi ha detto che trattasi di testa di donna, altri
che porta scolpito il nome di «Berta ». Negasi insomma da uomini scettici e
nemici delle gustose leggende che sia quella, la testa del disgraziato prete di
sei secoli fa. Essi così vogliono distruggere una tradizione tuttora però viva
che consacra nei secoli il doppio aspetto sotto il quale è pervenuta fino a noi
la memoria dell'ascolano, cioè quella di poeta ( che, in un momento sì tragico
della sua vita risponde per le rime a chi osa disperdere l'ultima sua
speranza ) e quella di taumaturgo infernale. Ma in verità Cecco non fu ne
l'uno ne l'altro. Egli, scrisse, è vero il suo poema l'«Acerba» in terzina, ma
non per conferirsi aria di poeta, bensì per criticare l'Alighieri e
dimostrargli che filosofia, matematica ed astrologia, potevano trattarsi anche
in rima.
altra
leggenda che delizia il popolo e lo aiuta a fantasticare è quella che
narra li ultimi momenti di quest'uomo prodigioso.
Cecco
per ordine del bargello trovasi incatenato ad un palo circondato da cataste di
legna. Ma egli sa che non può morire e sfugge ai suoi carnefici ora
tramutandosi, per ordine di satana, in un covone di paglia, ora in un fascio di
sterpi. Fida in quella profezia che lo ha sempre assicurato che non sarebbe
morto se non tra Africo e Campo dei Fiori, raion per cui durante la sua vita
evitò sempre di uscire da casa mentre spirava il vento, denominato « Africo » e
trovandosi a Roma cercò di stare il più possibile lontano da Campo dei Fiori.
Ma
anche la speranza, ultima dea fugge i sepolcri; e in quell'ora triste del suo
destino si trovò solo ed abbandonato: la realtà era diversa dal sogno, perchè
apprendeva che lì nei dintorni scorreva un fiumiciattolo detto « Africo » ed
essere Fiorenza il vaticinato « Campo dei Fiori ».
Ormai
poteva esclamare col salmista: « Tutto si è avverato ». Calmo, rassegnato,
sereno ordina ai suoi carnefici di dar fuoco alla catasta.
Muore
così un uomo, che aveva saputo armonizzare nella propria opera, la fiamma della
fede e il travaglio della scienza.
Un
illustre avvocato romano, Bruno Cassinelli, nel suo recente volume « Io difendo
» prova davanti a Frate accursio l'innocenza di Cecco accusato di magia e di
stregoneria.
Io
però debbo pensare che queste accuse tuttora lo perseguitano, perchè in
qualunque biblioteca romana o fiorentina si vada, si scorge il codice
dell'acerba, detto « il libro del Comando » che si ritiene donatogli dal
diavolo perchè colle sue formule potesse comandare alle forze dell'inferno bene
incatenato... al leggio, forse per evitare che se ne voli via... sotto il
mantello di qualche bibliomane senza scrupoli.
Angelo Caratello
va agli
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