ROMA NELLE TERRE DEL GIORDANO
di R. Bartoccini
Nonostante il linguaggio a tratti altezzoso, degno di quel
periodo, propongo qui un articolo del 1935
Da: Le vie d’Italia e del Mondo
Anno III, numero 7 – Luglio 1935
In una piccola e disadorna chiesetta di rito
greco-ortodosso, poco fuori di Madaba, nella Transgiordania, dopo aver
inflessibilmente percepita la tassa non indifferente che gli spetta, secondo un
cartello-tariffa di dubbio colore che vi vien mostrato, un papas scarno
ed incolto nel vestito, nella lunga chioma e nella barba fluente, si chinerà al
suolo per toglierne, aiutato da qualcuno dei numerosi figlioli che a turno lo
seguono sperando in una mancia, le tavole che lo ricoprono. Si rivela così ai
nostri occhi uno strano pavimento a mosaico ricco di colori, irto di nomi: si
tratta di una carta geografica, concepita come quelle di un tempo, del resto
non molto lontano, che spesso formano la nostra delizia, cosparse di gruppi di
animali o di piante, che ne illustrano la fauna e la flora, o di pittoresche
figure umane variamente atteggiate per definirne gli usi ed i costumi, di
sommarie vedute di città, distinte con qualcuno dei più caratteristici edifici.
In questa, ecco, infatti, che, prima ancora di decifrarne la leggenda,
indoviniamo il Giordano, in cui navigano a ritroso pesci che fuggono dalle
inospitali acque del Mar Morto, e, poco distante, il panorama a volo di uccello
di un grande centro urbano: Gerusalemme. La città santa, presentata in una
scala maggiore, doveva costituire nella mente dell'artista il punto di partenza
e di arrivo di tutte le genti vicine e lontane. Purtroppo lo
stato frammentario dell'opera musiva non ci fa sapere quanto essa abbracciasse
del mondo allora conosciuto; dobbiamo quindi ringraziare là buona sorte che ce
ne ha conservato il tratto più importante. Il mosaico può essere datato dal VI
secolo dell'era volgare: di Gerusalemme si distingue nettamente l'edificio a
cupola del Santo Sepolcro, ma per tutto il resto essa appare ancora la romana Aelia
Capitolina, con le sue mura, con le porte turrite, con l'ampio decumano,
fiancheggiato da portici, che l'attraversava in tutta la sua lunghezza.
La città, che Roma ricostruì sulle rovine della metropoli ebraica,
due volte distrutta, riappare così in questo lembo di pavimento meglio di quanto
non si riesca a veder oggi fra le moderne costruzioni che l'hanno completamente
sconvolta e sommersa. Sorte, del resto, comune a quasi tutte le città romane
della Palestina, vittime del notevole grado di civiltà raggiunto da questa
regione e, quindi, del suo sviluppo urbanistico, prodottosi sovente a spese
degli antichi edifici. Ove se ne tolgano infatti le rovine di Samaria,
l’odierna Sebaste, e di Cesarea – scarsamente esplorate, giacchè qui
l’attenzione degli archeologi delle numerose missioni straniere è per lo più
rivolta alle superstiti testimonianze dei centri biblici – la Palestina è la
regione del Mediterraneo più povera di complessi monumentali romani. Ciò
dipende però anche da una speciale ragione storica. Roma, pur dopo aver
fiaccato e disperso il popolo ebraico, non solo non credette utile ai suoi fini
di sostituirsi ad esso nelle sue terre, ma ne praticò costantemente una
politica di isolamento e di accerchiamento, incoraggiando invece lo sviluppo
dei centri posti a oriente del Giordano, e di questi tutelando la sicurezza con
la sorveglianza del limes ai margini del deserto, e l'esistenza con la
protezione delle vie commerciali sulle quali si convogliavano i prodotti
dell'Egitto, dell'Arabia, della Persia, e quelli locali verso la Siria, l'Asia
Minore ed oltre. Pochi e piccoli erano i nuclei di popolazione sedentaria
costituitisi in questa regione, alla quale la guerra mondiale ha dato un Emiro,
una larvata indipendenza controllata da una potenza mandataria. L’Inghilterra,
ed un nome: Transgiordania. La abitavano genti di razza semita, in parte
distaccatesi dal ceppo ebraico: su di esse avevano successivamente dominato
Assiri, Babilonesi, la dinastia di David, Siriani, Egiziani, Greci, ma con
scarsi effetti sulla loro compagine etnica e sulla loro fisonomia politica.
Divise in grandi tribù, che riconoscevano l'autorità di capi senza poteri ben
definiti, dedite in massima parte alla pastorizia o al servizio delle carovane,
esse non sentivano il bisogno di legarsi a un punto determinato del territorio
se non per motivi di difesa. La cultura ellenistica aveva dato loro
un'apparenza di civiltà, ma limitata, per lo più, agli elementi dirigenti e
anche per costoro alle forme esteriori, chè sempre era pronta a rilevarsi
l’indole astuta, incostante, subdola, infrenabile del loro istinto.
Petra, la città nella roccia
Un’unica grande arteria percorreva il paese da sud a
nord; divenuta la via dei pellegrinaggi musulmani, il Dar bel-Hagg, e doppiata
dalla ferrovia che da Damaso avrebbe dovuto raggiungere Medina, mentre per ora
si arresta a Maan, essa costituisce ancora la spina dorsale dell'Emirato. Essa
partiva da Petra, dove si concentravano le carovane provenienti dai deserti del
Sinai, dell'Arabia, della Mesopotamia; risaliva, costeggiando il deserto,
attraverso il paese di Moab fino a toccare Rabbat Ammon, e proseguiva per
Bostra e Damasco. Invano i Seleucidi, avversari e successori dei Tolomei,
avevano tentato di deviare questo cammino verso le costa fenicie e siriane;
mancò loro la forza, e soprattutto mancò loro la possibilità d'imporsi sul
centro che controllava tale movimento: Petra.
Nessun paese, fra quanti vennero in potere di Roma,
ha, come Petra, una uguale forza di suggestione sul visitatore. Una ripida,
irta corona di montagne recinge il luogo e lo rinserra gelosamente. Una sola
via vi penetra: uno stretto canalone, aperto fra strapiombanti pareti di roccia
eròse dalla millenaria azione del torrente che ancora vi serpeggia sul fondo
ghiaioso. E il Sik. Il silenzio profondo che vi regna è rotto solo dall'urto
degli zoccoli delle cavalcature contro i ciottoli: la voce non riesce a
esprimere le sensazioni profonde di stupore che provoca nel viaggiatore lo
spettacolo, sempre nuovo e mutevole, offerto dalla colorazione violenta e varia
della roccia, costituita di gneis calcareo a grandi zone alternate, purpuree,
violacee, gialle, verdi, azzurrine, bianco-candide, sulle quali batte a tratti
qualche vivido faggio di sole, traendone violenti, magici effetti di luci e di
colori. Ancora una svolta, ed ecco si apre uno spiraglio, attraverso il quale
si intravvedono forme che non sono più quelle rudi e caotiche della selvaggia
natura. Ci si avvicina con l'animo sospeso; lo spiraglio si allarga: ecco delle
colonne, delle nicchie, dei rilievi. Si varca l'estremo limite del passo,
e ci si arresta stupefatti. Sta davanti, una liscia parete di roccia,
perpendicolare. Genî, più che uomini, l'hanno affrontata, scavandola,
tormentandola, intagliandola, fino a plasmarla quasi in masse architettoniche
degradanti verso il fondo, su due piani sovrapposti, traendone motivi
ornamentali che a stento ti persuadi non siano stati applicati in pezzi separati,
tutto addolcito, aggraziato da una profusione di ornati a fiori, a volute, a
figure di fiabesco sapore.
Tempio, tomba di sovrano o di governatore romano?
Ipotesi così diverse e lontane nel tempo e nel fine denotano quanta impressione
può destare questo superbo monumento, El-Khaznet (il Tesoro), anche sull'animo
freddo e compassato dei dotti. Si esita, ci si rifiuta quasi di pensare che
tanta meraviglia abbia potuto prodursi per la volontà di un semplice mortale.
La sua datazione non si può far scendere oltre la fine del I secolo dell'Impero. Attraverso forme tanto
perfette, che denotano un'arte eccellente, il pensiero risale alle condizioni
che ne hanno reso possibile lo sviluppo in regione così remota, al clima
politico di pace e di benessere creatovi dalla lex romana, fondata
sul diritto, poggiata su solide armi, intesa a civili progressi.
Roma era venuta a contatto coi Nabatei già al tempo
di Pompeo; Augusto li aveva conosciuti subito dopo la battaglia d'Azio.
Astutissimi, essi erano sempre riusciti a sfuggire ad una diretta
sottomissione, mostrandosi indispensabili come organizzatori e conduttori di
carovane, per le quali fornivano anche scorte di armati. I loro arcieri andavano ad arruolarsi in
speciali reparti dell'esercito romano, ma con la stessa disinvoltura altri si
ponevano agli ordini dei Persiani. In tal modo finirono col destare i sospetti
di Roma, preoccupata di assicurarsi il fianco nel secolare conflitto con le
genti di oltre Eufrate; e Traiano decise di occuparne il territorio e la capitale,
Petra. Cessò così l'importanza politica dei Nabatei, ma non quella economica.
Il governo di Roma, anzi, tenne a dare molteplici prove del proprio
interessamento per Petra e vi fece sorgere numerosi edifici, in base a un tipo
di piano regolatore ormai diffuso in quasi tutte le città beneficate in questo
periodo con uguali provvidenze. Al pari di Leptis Magna e di Amman, che vedremo
fra poco, si ricoprì il torrente che scorre in mezzo alla vallata con un ampio
voltone. Il collettore era così bell’e pronto e bastò farvi sboccare le
fognature laterali per assicurare il primo indispensabile servizio igienico del
nuovo centro urbano. Sopra venne distesa un'ampia strada lastricata,
fiancheggiata da portici, annunciata a nord da un doppio ninfeo e conclusa all'estremità
opposta con un triplice arco monumentale. Da un lato e dall'altro della via si
costruirono templi, terme, un gymnasium, vasti mercati e, verso lo
sbocco del Sik, un ampio teatro fu intagliato nella sponda rocciosa, sia pure a
scapito delle tombe che vi esistevano già, e la natura speciale del terreno
donò ai gradini della cavea le sue tinte multicolori, così che ancora oggi si
presenta in modo da sembrare addobbata con fantasiosi tappeti. È l'impronta
indelebile di Roma, segnata in un paese che forse mai aveva veduto una
costruzione elevata all'aria aperta, di solida muratura; affacciati alle
imboccature delle loro caverne, occhieggianti numerose dalle balze circostanti,
i Nabatei di Petra dovettero allora capire che i nuovi signori erano ben decisi
a rimanere. Più che le armi, potè convincerli questo a una leale e duratura
sottomissione.
Barocco "avanti lettera”
La recente conquista fu in certo modo solennemente sanzionata
dalla visita che, intorno al 131, vi fece Adriano. Non è improbabile che
l'imperatore, singolare prototipo del turista moderno, oltre che da motivi
politici, vi fosse attratto dalla fama del singolare aspetto esteriore del
capoluogo dei Nabatei, aspetto che certo aveva dovuto subito colpire i primi
Romani che vi erano penetrati, e che seguitò sempre a esercitare un forte
potere di suggestione: funzionari, comandanti, cittadini di Roma, morti in
Petra, si fecero infatti costruire sempre tombe all'uso locale, che soltanto lo
stile, confortato in qualche caso da iscrizioni, consente di distinguere dalle
più antiche. Sono, queste, caratterizzate di solito da un coronamento a «
gradinate » contrapposte, oppure munito di uno o due ordini di merlature a scalini; più tardi, evolvendosi, cominciarono a ornarsi di
elementi propri dell'arte greca, come la inquadratura delle porte, pilastri
agli spigoli, timpani triangolari. Sotto l'influsso romano tutto l'insieme si
appesantisce, sovraccaricandosi di elementi diversi. Il timpano si arrotonda e
si spezza, o le due linee si alternano, se lo consente la larghezza della
facciata; delle semicolonne si frappongono fra la porta e i pilastri d'angolo,
tra l'attico e la gola si allineano file di colonnette. Infine hanno inizio e
si impongono le facciate, decisamente romane per concezione e per esecuzione, a
più piani, con colonnati antistanti e laterali, e persino nicchie con statue.
Una di esse porta l'epigrafe del legatus L. Sextus Florentinus, vissuto
forse al tempo degli Antonini. La più colossale è quella detta Ed-Deir, a circa
due ore di marcia dal centro della città, sulla catena montagnosa occidentale,
a 1150 m. di altitudine: è del tipo di quella di El-Khaznet, ma priva di
ornamenti e più massiccia nelle proporzioni grandiose: la fronte misura metri
quarantanove di larghezza per trentuno di altezza: l'urna che la sovrasta si
eleva ancora di nove metri. Chi non la direbbe un prodotto di architettura
barocca romana? Come non rievocare, al pari di tanti altri, il nome del
Borromini? A distanza di secoli, gli stessi principi, gli stessi cànoni si sono
imposti ad artisti diversissimi per origine e per cultura, dando vita ad opere
che si direbbero sorte da un identico cervello. Né sono soltanto architetti, i
Romani. Nel tempio maggiore di Petra, conservato per quasi tutta la sua
altezza, notiamo a due terzi di questa, sull'esterno delle muraglie, una
cintura lignea non ancora del tutto scomparsa: è un primo tentativo di
provvidenza antisismica, necessaria in un paese soggetto a movimenti
tellurici. Anche se il mezzo è semplice, è però sempre un espediente che giustifica
la nostra affermazione di una ingegneria romana, la quale con esso precorre le
moderne cinture di cemento armato.
L'acropoli di Amman
La carovana che ci ha condotti fin qui sta per
ripartire. Ci si distacca da Petra con un senso di profonda malinconia. Il
senso di mistero, che ancora in gran parte circonda il paese, le sue origini,
le sue vicende e i suoi monumenti, dai primitivi a quelli eretti da Roma,
mistero che nessuno scavo ha fino ad oggi tentato di squarciare, soggioga
i nostri animi col fascino dell'ignoto; non si vorrebbe rinunciare a gettarvi
uno sguardo più addentro. Ma quando potrà avvenire questo? Chi compirà
l'impresa? L'Italia ha una sua Missione Archeologica in Transgiordania, che ha
dovuto limitarsi per ora a compiere un'accurata visita alla zona, per dedicarsi
invece quasi esclusivamente all'esplorazione dell'acropoli di Amman, capitale
dell'Emirato, che nel suo nome conserva integro il ricordo di quello
antichissimo, Rabbat Ammon, solo più tardi mutato in quello di Philadelphia, in
onore di Tolomeo II d'Egitto.
Sorgeva qui una delle più conservate città romane della regione. Essa si
era incuneata, con i suoi edifizi più caratteristici, in mezzo a costruzioni
preesistenti del periodo ellenistico, le quali, però, secondo quel che è dato
presumere da ciò che ne resta, si erano limitate a dare una veste
architettonica e un assetto planimetrico ad alcuni antichissimi centri di
culto e a cingerli con solide mura di difesa. Tutto questo aveva
però avuto come obbiettivo quasi unico la collina che domina e sbarra la
vallata in cui scorrono le acque dell'antico Yabbok, già
munita di vetusti bastioni a grossi blocchi non squadrati,
probabilmente databili intorno al XV secolo
prima dell'era volgare, con la roccia sacra elevantesi sul punto più
alto, su cui la gente di Ammon, che pretendeva di discendere da una figlia di
Lot, compiva i suoi riti cruenti.
Gli architetti romani, che attraverso le loro opere dimostrano
sempre la cura con cui hanno tenuto ad adattarle, non soltanto alle esigenze
dell'ambiente fisico, ma anche a quelle dei preesistenti nuclei storici,
secondo un lodevole concetto che i nostri urbanisti non dovrebbero mai
trascurare, ebbero da risolvere qui uno dei più complessi progetti di piano
regolatore. Sull'acropoli, come s'è detto, era il luogo di culto maggiormente
venerato; intorno ad esso, secondo una tradizione comune a tutti i popoli dalla
più remora antichità ad oggi, doveva svolgersi ogni attività pubblica, politica
e commerciale degli Ammoniti durante i grandi convegni della loro gente, i
quali, pur essendo determinati da motivi religiosi, in realtà costituivano
l'occasione propizia per trattare degli interessi comuni nei rapporti con i
popoli vicini e per scambiare i prodotti, sotto l'egida propiziatrice della
divinità nazionale. Proprio sopra l'acropoli, quindi, cominciò
a sorgere un grande tempio in antys, nella cui alta base fu inclusa, occultandola per
sempre alla vista dei fedeli, la roccia sacra, e lì presso venne aperta una
piazza ampia, bene adorna, agorà o fòro, con botteghe.
Il nome dell'imperatore Marco Aurelio, conservato su un frammento
del fregio del tempio, ci offre un sicuro elemento di datazione di questo
complesso monumentale; di qualche anno prima sono forse le opere costruite a
valle. Era qui che passava la grande strada carovaniera per cui transitavano le
merci provenienti dall'India e dall'Arabia, e a contatto dell'acqua le carovane
dovevano trovare tutti gli impianti necessari per una tappa, indispensabile a
questo punto per far riposare e ristorare uomini e animali, e per smistare le
merci dirette verso Damasco o in Palestina o alle guarnigioni del Limes orientale.
Ecco quindi portici ombrosi e magazzini, ai lati della bella via centrale
lastricata con grandi basoli rettangolari di pietra, e poi un grandioso ninfeo
dal quale, fra colonne e nicchie adorne di statue, sgorgava l'acqua condottata,
e il fiume ricoperto per funzionare da fognone, e poi terme e templi per le
esigenze delle più svariate divinità. Non vi mancavano neppure i divertimenti,
offerti in un magnifico e ben capace teatro, e in un più piccolo ma grazioso
odeon. Si ebbero così come due centri di vita, separati da un dislivello di
circa duecento metri, ma che vennero presto collegati con scalee e viali,
iniziati da maestosi propilei foggiati a guisa di archi trionfali: in tal modo
la città assunse un suo carattere definitivo, unitario ed omogeneo.
La Missione Archeologica ltaliana
Una parte delle rovine, nota a noi per relazioni di viaggiatori
del secolo scorso, non esiste già più. Intorno al 1878 il sultano Abdul-Hamid
stanziò in Amman, per esaudire la loro richiesta di asilo, alcune tribù di
Circassi musulmani, che avevano abbandonato le proprie sedi occupate dai Russi
cristiani, e necessariamente i ruderi fecero le spese della loro istallazione.
Più di recente qualche altra cosa è stata sacrificata all'affrettato
adattamento del luogo a capitale dell'Emirato, per cui la popolazione si è più
che decuplicata, ma, con tutto ciò, la località, grazie anche alla sua nuova
funzione, suscita sempre un grande interesse. Come ho detto sopra, l'Italia è
presente ad Amman con una sua Missione Archeologica, diretta da chi scrive
queste note; essa, come è ovvio, non trascura lo studio della città romana, per
quanto forse la maggiore speranza sia quella di mettere la mano sopra documenti
molto più antichi, come potrebbero essere, ad esempio, quelli della primitiva
città di Rabbat Ammon, cui toccò in sorte di essere assediata e distrutta dallo
stesso re David. Si tratta di una impresa nella quale l'Italia si è impegnata
per la prima volta, in confronto di numerose e ben attrezzate e antiche
missioni straniere sparse per tutta la vicina Palestina e di qualcuna che già
si è spinta in Transgiordania, tutte con un unico obbiettivo: ricercare in
queste terre, che conobbero le più imponenti emigrazioni di popoli, dominazioni
di ogni genere e civiltà multiformi, i documenti della sua storia antichissima,
intimamente connessa
con quella delle altre genti mediterranee. E un mondo
tuttora in fermento, campo aperto a speculazioni etniche, religiose, filosofiche,
politiche, spinte sovente agli estremi, ed è bene che non vi manchi la parola
solenne ed equilibrata di Roma, della quale anche un archeologo
può essere vigile e fedele interprete. Ecco, adunque,
più che giustificata la nostra presenza laggiù e non inutile il lavoro che vi
compiamo, scevro di sottintesi politici, ma, appunto per questo, squisitamente
politico, in quanto ci consente di far conoscere alle popolazioni e ai dotti,
che vi convengono da ogni parte del mondo, attraverso l'esaltazione delle sue
più antiche testimonianze, la forza e il valore della nostra millenaria e
inesauribile civiltà.
Come non sentirne il profondo contenuto spirituale, allorché
cogliamo i maschi aspetti del volto inconfondibile di Roma, in questi territori
lontani, posti un tempo ai limiti estremi del suo impero, estranei talvolta anche
ai suoi diretti interessi? Questo appunto ci colpisce della civiltà romana, e
cioè il fascino che essa seppe esercitare su genti e paesi di costumi, lingue,
idee tanto differenti e che pure tennero a darsi una fisonomia romana per la
sola ambizione di assomigliare, almeno esteriormente, a questa Dea potente, la
quale, sola ormai, dettava legge, e legge civile, al mondo.
Gli avanzi di Gerasa
Abbiamo visto Petra ed Amman assumere una veste romana per il
preciso intervento dell'Urbe, che ne aveva fatto due diretti strumenti della
sua azione politica e militare nel settore orientale, ma ecco una terza città,
posta fuori delle principali vie di comunicazione e di traffico, che non vuole
rimanere addietro alle sue vicine e ne imita la sistemazione e i monumenti con
uno sforzo costruttivo, che ancora ci riempie di ammirazione. È questa Gerasa.
Non sappiamo come sorse, come visse, come cadde in abbandono. Le epigrafi sono
ancora parche di notizie sulla sua storia. Nel 78 a. C. se ne impossessò il
condottiero ebreo Alessandro Janneo; qualcuno dei sovrani Seleucidi dovette
beneficarla, perchè assunse il nome di Antiochia dei Geraseni; poi le fu data
l'autonomia da Pompeo ed entrò a far parte della Decapoli. Da allora la sua
vita si svolge senza scosse. Convertita al Cristianesimo nel VI secolo, le
chiese vi si moltiplicarono in numero eccezionale e con una notevole ricchezza
di decorazione, specialmente musiva, anche se le murature e i colonnati furono
frutto di depredazioni di templi pagani caduti in disuso. Le invasioni persiane
e musulmane e il terremoto del 18 gennaio del 746 dovettero causarne la rovina
quasi definitiva e il principio dell'abbandono. Poi un giorno, come ad Amman,
la Turchia vi insediò alcune tribù Circasse, ma, per fortuna, non proprio sul
posto occupato un tempo dagli edifici pubblici. Tuttavia questa ripresa di vita
segnò la distruzione dei quartieri privati dell'antica città, di cui dovevano
esistere ancora avanzi notevoli, dai quali gli studiosi avrebbero potuto trarre
notizie preziose sulla vita e sulle vicende dei Geraseni, popolazione mista di
Greci, Arabi ed Ebrei, e sulle fonti della loro prosperità.
Una visita a Gerasa lascia un ricordo indimenticabile ed è il
complemento necessario a quelle fatte a Petra e ad Amman. Vi si giunge da
quest'ultima città per una strada comoda e pittoresca. Un fiume incassato fra
sponde folte di alberi ombrosi divide la zona monumentale dal moderno villaggio
di Gerash; restano avanzi imponenti dei tre ponti romani che mettevano in
comunicazione i due quartieri. Da una parte e dall'altra del corso d'acqua, il
Chrysorrhoas degli antichi, il terreno è collinoso, e la topografia
della città dovè quindi adattarsi a questa caratteristica del luogo. La sponda occidentale
del fiume costituisce in certo modo l'asse di Gerasa; su di essa si sviluppa
una maestosa strada ben lastricata, con portici, dei quali sono ancora in piedi
una settantina delle cinquecento colonne che si calcola avessero. Verso
Amman la via ha inizio con un triplice portale ad archi, di tipo trionfale,
posto fuori le mura. Accanto ad esso è un gruppo di rovine indicate per molto
tempo come naumachia, ma nelle quali è da riconoscere piuttosto uno stadio.
Poco dopo si entra nella città vera e propria, attraverso un'altra porta: sulla
sinistra si innalza sopra una collina un tempio periptero, con le pareti adorne
di nicchie. Succeduto forse a un luogo di culto più antico, esso fu così
ricostruito nel 163 d. C. e dedicato a Giove. Sul fianco dell'altura si addossa
un bel teatro, eccezionalmente conservato nella cavea e nella scena ricca di
colonne. I due monumenti
hanno un orientamento differente da quello del resto
della città; stanno quindi a testimoniare l'esistenza di un nucleo più antico,
al quale si addossò la nuova città romana. Varcate le mura, la grande arteria
ha inizio con uno strano Foro circoscritto da un porticato ovoidale, ionico,
sotto il quale dovevano un tempo aprirsi numerose botteghe; poi prosegue,
intersecata di tanto in tanto da vie trasversali: due crocicchi sono coperti
con tetrapili, di cui il secondo è dedicato all'imperatore Settimio Severo e
alla sua famiglia. Una prima interruzione del colonnato: un maestoso e ben
architettato ninfeo a fondale ricurvo, adorno di numerose nicchie con statue,
poneva quasi una zona di ristoro e di frescura nella linea assolata della via,
e le donava decoro: l'acqua, riversatavi in abbondanza da vari getti, fluiva da
bocchettoni a teste di animali, e persino i fori delle sottoposte chiaviche
erano adorni di pòlipi a rilievo. Al suo pregevole restauro è legato il nome
dell'architetto romano Ricci, spentosi giovanissimo in Transgiordania, fra il
compianto degli stessi colleghi inglesi dell'ufficio delle Antichità
dell'Emirato.
Tradizione orientale e civiltà romana
Proseguendo, ecco un altro ingresso monumentale: da esso parte una
lunga scalinata che, attraverso una serie di terrazze, sale fino al tempio di
Artemide, superbo nel suo altissimo colonnato quasi intatto, di un bel tono
dorato, stagliantesi sull'azzurro del cielo. Quasi di fronte, a ridosso del
fiume, sono resti di terme ben conservate, con qualche ambiente ancora coperto
dalle vòlte; infine, verso la porta settentrionale, si innalza un altro teatro,
con un ampio piazzale a ridosso della scena. Con una passeggiata di pochi
minuti si arriva fino alle sorgenti del Chrysorrhoas, che i Romani
avevano raccolto entro un vasto bacino, dal quale partiva l'acquedotto. Esso è
ancora in parte in funzione, ed i greggi degli attuali abitanti di Gerasa si
abbeverano a un'antica fontana nelle immediate vicinanze dell'attuale
villaggio.
Un terzo piccolo teatro e un tempietto si ricollegano a dissoluti
riti sacri, che si svolgevano in questo luogo in onore di una divinità
semitica di nome Maiumas, di cui parla ancora una iscrizione del 533 d. C, eco
di una tradizione pagana tenacemente radicata negli abitanti, ad onta degli sforzi che faceva la
chiesa cristiana per combatterla. Ma è questa appunto la caratteristica
costante dei paesi d'Oriente: persistenza dei costumi, attaccamento tenacissimo
alle proprie idee, e, più che tolleranza, differenziazione ostentata nelle
pratiche religiose, per cui anche in periodo di intransigenza, vediamo
coesistere templi pagani, chiese cristiane, forse anche di rito diverso, e
sinagoghe, tanto nel VI secolo dopo Cristo come ai nostri giorni. Ma sempre,
fra tutti e sopra tutti, è Roma che vediamo assidersi sovrana immortale. Ancora
oggi, per tutto l'Oriente, i suoi monumenti costituiscono l'unica testimonianza
di un secolare passato di civili ordinamenti, di sagace politica, di solida
economia, di pace sicura.
RENATO BARTOCCINI
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