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sabato 17 giugno 2017

ROMA NELLE TERRE DEL GIORDANO


ROMA NELLE TERRE DEL GIORDANO
di R. Bartoccini
Nonostante il linguaggio a tratti altezzoso, degno di quel periodo, propongo qui un articolo del 1935
Da: Le vie d’Italia e del Mondo
Anno III, numero 7 – Luglio 1935


   In una piccola e disadorna chiesetta di rito greco-ortodosso, poco fuori di Madaba, nella Transgiordania, dopo aver inflessibilmente percepita la tassa non indifferente che gli spetta, secondo un cartello-tariffa di dubbio colore che vi vien mostrato, un papas scarno ed incolto nel vestito, nella lunga chioma e nella barba fluente, si chinerà al suolo per toglierne, aiutato da qualcuno dei numerosi figlioli che a turno lo seguono sperando in una mancia, le tavole che lo ricoprono. Si rivela così ai nostri occhi uno strano pavimento a mosaico ricco di colori, irto di nomi: si tratta di una carta geografica, concepita come quelle di un tempo, del resto non molto lontano, che spesso formano la nostra delizia, cosparse di gruppi di animali o di piante, che ne illustrano la fauna e la flora, o di pittoresche figure umane variamente atteggiate per definirne gli usi ed i costumi, di sommarie vedute di città, distinte con qualcuno dei più caratteristici edifici. In questa, ecco, infatti, che, prima ancora di decifrarne la leggenda, indoviniamo il Giordano, in cui navigano a ritroso pesci che fuggono dalle inospitali acque del Mar Morto, e, poco distante, il panorama a volo di uccello di un grande centro urbano: Gerusalemme. La città santa, presentata in una scala maggiore, doveva costituire nella mente dell'artista il punto di partenza e di arrivo di tutte le genti vicine e lontane. Purtroppo lo stato frammentario dell'opera musiva non ci fa sapere quanto essa abbrac­ciasse del mondo allora conosciuto; dobbiamo quindi ringraziare là buona sorte che ce ne ha conservato il tratto più importante. Il mosaico può essere datato dal VI secolo dell'era volgare: di Gerusalemme si distin­gue nettamente l'edificio a cupola del Santo Sepolcro, ma per tutto il resto essa appare ancora la romana Aelia Capitolina, con le sue mura, con le porte turrite, con l'ampio decumano, fiancheggiato da portici, che l'attraversava in tutta la sua lunghezza.


La città, che Roma ricostruì sulle rovine della metropoli ebraica, due volte distrutta, riappare così in questo lembo di pavimento meglio di quanto non si riesca a veder oggi fra le moderne costruzioni che l'hanno completamente sconvolta e sommersa. Sorte, del resto, comune a quasi tutte le città romane della Palestina, vittime del notevole grado di civiltà raggiunto da questa regione e, quindi, del suo sviluppo urbanistico, prodottosi sovente a spese degli antichi edifici. Ove se ne tolgano infatti le rovine di Samaria, l’odierna Sebaste, e di Cesarea – scarsamente esplorate, giacchè qui l’attenzione degli archeologi delle numerose missioni straniere è per lo più rivolta alle superstiti testimonianze dei centri biblici – la Palestina è la regione del Mediterraneo più povera di complessi monumentali romani. Ciò dipende però anche da una speciale ragione storica. Roma, pur dopo aver fiaccato e disperso il popolo ebraico, non solo non credette utile ai suoi fini di sostituirsi ad esso nelle sue terre, ma ne praticò costantemente una politica di isolamento e di accerchiamento, incoraggiando invece lo sviluppo dei centri posti a oriente del Giordano, e di questi tutelando la sicurezza con la sorveglianza del limes ai margini del deserto, e l'esistenza con la protezione delle vie commerciali sulle quali si convogliavano i prodotti dell'Egitto, dell'Arabia, della Persia, e quelli locali verso la Siria, l'Asia Minore ed oltre. Pochi e piccoli erano i nuclei di popolazione sedentaria costituitisi in questa regione, alla quale la guerra mondiale ha dato un Emiro, una larvata indipendenza controllata da una potenza mandataria. L’Inghilterra, ed un nome: Transgiordania. La abitavano genti di razza semita, in parte distaccatesi dal ceppo ebraico: su di esse avevano successivamente dominato Assiri, Babilonesi, la dinastia di David, Siriani, Egiziani, Greci, ma con scarsi effetti sulla loro compagine etnica e sulla loro fisonomia politica. Divise in grandi tribù, che riconoscevano l'autorità di capi senza poteri ben definiti, dedite in massima parte alla pastorizia o al servizio delle carovane, esse non sentivano il bisogno di legarsi a un punto determinato del territorio se non per motivi di difesa. La cultura ellenistica aveva dato loro un'apparenza di civiltà, ma limitata, per lo più, agli elementi dirigenti e anche per costoro alle forme esteriori, chè sempre era pronta a rilevarsi l’indole astuta, incostante, subdola,  infrenabile del loro istinto.


Petra, la città nella roccia
   Un’unica grande arteria percorreva il paese da sud a nord; divenuta la via dei pellegrinaggi musulmani, il Dar bel-Hagg, e doppiata dalla ferrovia che da Damaso avrebbe dovuto raggiungere Medina, mentre per ora si arresta a Maan, essa costituisce ancora la spina dorsale dell'Emirato. Essa partiva da Petra, dove si concentravano le carovane provenienti dai deserti del Sinai, dell'Arabia, della Mesopotamia; risaliva, costeggiando il deserto, attraverso il paese di Moab fino a toccare Rabbat Ammon, e proseguiva per Bostra e Damasco. Invano i Seleucidi, avversari e successori dei Tolomei, avevano tentato di deviare questo cammino verso le costa fenicie e siriane; mancò loro la forza, e soprattutto mancò loro la possibilità d'imporsi sul centro che controllava tale movimento: Petra.
   Nessun paese, fra quanti vennero in potere di Roma, ha, come Petra, una uguale forza di suggestione sul visitatore. Una ripida, irta corona di montagne recinge il luogo e lo rinserra gelosamente. Una sola via vi penetra: uno stretto canalone, aperto fra strapiombanti pareti di roccia eròse dalla millenaria azione del torrente che ancora vi serpeggia sul fondo ghiaioso. E il Sik. Il silenzio profondo che vi regna è rotto solo dall'urto degli zoccoli delle cavalcature contro i ciottoli: la voce non riesce a esprimere le sensazioni profonde di stupore che provoca nel viaggiatore lo spettacolo, sempre nuovo e mutevole, offerto dalla colorazione violenta e varia della roccia, costituita di gneis calcareo a grandi zone alternate, purpuree, violacee, gialle, verdi, azzurrine, bianco-candide, sulle quali batte a tratti qualche vivido faggio di sole, traendone violenti, magici effetti di luci e di colori. Ancora una svolta, ed ecco si apre uno spiraglio, attraverso il quale si intravvedono forme che non sono più quelle rudi e caotiche della selvaggia natura. Ci si avvicina con l'animo sospeso; lo spiraglio si allarga: ecco delle colonne, delle nicchie, dei rilievi.  Si varca l'estremo limite del passo, e ci si arresta stupefatti. Sta davanti, una liscia parete di roccia, perpendicolare. Genî, più che uomini, l'hanno affrontata, scavandola, tormentandola, intagliandola, fino a plasmarla quasi in masse architettoniche degradanti verso il fondo, su due piani sovrapposti, traendone motivi ornamentali che a stento ti persuadi non siano stati applicati in pezzi separati, tutto addolcito, aggraziato da una profusione di ornati a fiori, a volute, a figure di fiabesco sapore.


   Tempio, tomba di sovrano o di governatore romano? Ipotesi così diverse e lontane nel tempo e nel fine denotano quanta impressione può destare questo superbo monumento, El-Khaznet (il Tesoro), anche sull'animo freddo e compassato dei dotti. Si esita, ci si rifiuta quasi di pensare che tanta meraviglia abbia potuto prodursi per la volontà di un semplice mortale. La sua datazione non si può far scendere oltre la fine del I secolo dell'Impero. Attraverso forme tanto perfette, che denotano un'arte eccellente, il pensiero risale alle condizioni che ne hanno reso possibile lo sviluppo in regione così remota, al clima politico di pace e di benessere creatovi dalla lex romana, fondata sul diritto, poggiata su solide armi, intesa a civili progressi.


   Roma era venuta a contatto coi Nabatei già al tempo di Pompeo; Augusto li aveva conosciuti subito dopo la battaglia d'Azio. Astutissimi, essi erano sempre riusciti a sfuggire ad una diretta sottomissione, mostrandosi indispensabili come organizzatori e conduttori di carovane, per le quali fornivano anche scorte di armati. I loro arcieri andavano ad arruolarsi in speciali reparti dell'esercito romano, ma con la stessa disinvoltura altri si ponevano agli ordini dei Persiani. In tal modo finirono col destare i sospetti di Roma, preoccupata di assicurarsi il fianco nel secolare conflitto con le genti di oltre Eufrate; e Traiano decise di occuparne il territorio e la capitale, Petra. Cessò così l'importanza politica dei Nabatei, ma non quella economica. Il governo di Roma, anzi, tenne a dare molteplici prove del proprio interessamento per Petra e vi fece sorgere numerosi edifici, in base a un tipo di piano regolatore ormai diffuso in quasi tutte le città beneficate in questo periodo con uguali provvidenze. Al pari di Leptis Magna e di Amman, che vedremo fra poco, si ricoprì il torrente che scorre in mezzo alla vallata con un ampio voltone. Il collettore era così bell’e pronto e bastò farvi sboccare le fognature laterali per assicurare il primo indispensabile servizio igienico del nuovo centro ur­bano. Sopra venne distesa un'ampia strada lastricata, fiancheggiata da portici, annunciata a nord da un doppio ninfeo e conclusa all'estremità opposta con un triplice arco monumentale. Da un lato e dall'altro della via si costruirono templi, terme, un gymnasium, vasti mercati e, verso lo sbocco del Sik, un ampio teatro fu intagliato nella sponda rocciosa, sia pure a scapito delle tombe che vi esistevano già, e la natura speciale del terreno donò ai gradini della cavea le sue tinte multicolori, così che ancora oggi si presenta in modo da sembrare addobbata con fantasiosi tappeti. È l'impronta indelebile di Roma, segnata in un paese che forse mai aveva veduto una costruzione elevata all'aria aperta, di solida muratura; affacciati alle imboccature delle loro caverne, occhieggianti numerose dalle balze circostanti, i Nabatei di Petra dovettero allora capire che i nuovi signori erano ben decisi a rimanere. Più che le armi, potè convincerli questo a una leale e duratura sottomissione.



Barocco "avanti lettera”
   La recente conquista fu in certo modo so­lennemente sanzionata dalla visita che, intorno al 131, vi fece Adriano. Non è improbabile che l'imperatore, singolare prototipo del turista moderno, oltre che da motivi politici, vi fosse attratto dalla fama del singolare aspetto esteriore del capoluogo dei Nabatei, aspetto che certo aveva dovuto subito colpire i primi Romani che vi erano penetrati, e che seguitò sempre a esercitare un forte potere di suggestione: funzionari, comandanti, cittadini di Roma, morti in Petra, si fecero infatti costruire sempre tombe all'uso locale, che soltanto lo stile, confortato in qualche caso da iscrizioni, consente di distinguere dalle più antiche. Sono, queste, caratterizzate di solito da un coronamento a « gradinate » contrapposte, oppure munito di uno o due ordini di merlature a scalini; più tardi, evolvendosi, cominciarono a ornarsi di elementi propri dell'arte greca, come la inquadratura delle porte, pilastri agli spigoli, timpani triangolari. Sotto l'influsso romano tutto l'insieme si appesantisce, sovraccaricandosi di elementi diversi. Il timpano si arrotonda e si spezza, o le due linee si alternano, se lo consente la larghezza della facciata; delle semicolonne si frappongono fra la porta e i pilastri d'angolo, tra l'attico e la gola si allineano file di colonnette. Infine hanno inizio e si impongono le facciate, decisamente romane per concezione e per esecuzione, a più piani, con colonnati antistanti e laterali, e persino nicchie con statue. Una di esse porta l'epigrafe del legatus L. Sextus Florentinus, vissuto forse al tempo degli Antonini. La più colossale è quella detta Ed-Deir, a circa due ore di marcia dal centro della città, sulla catena montagnosa occidentale, a 1150 m. di altitudine: è del tipo di quella di El-Khaznet, ma priva di ornamenti e più massiccia nelle proporzioni grandiose: la fronte misura metri quarantanove di larghezza per trentuno di altezza: l'urna che la sovrasta si eleva ancora di nove metri. Chi non la direbbe un prodotto di architettura barocca romana? Come non rievocare, al pari di tanti altri, il nome del Borromini? A distanza di secoli, gli stessi principi, gli stessi cànoni si sono imposti ad artisti diversissimi per origine e per cultura, dando vita ad opere che si di­rebbero sorte da un identico cervello. Né sono soltanto architetti, i Romani. Nel tempio maggiore di Petra, conservato per quasi tutta la sua altezza, notiamo a due terzi di questa, sull'esterno delle muraglie, una cintura lignea non ancora del tutto scomparsa: è un primo tentativo di provvidenza anti­sismica, necessaria in un paese soggetto a movimenti tellurici. Anche se il mezzo è semplice, è però sempre un espediente che giustifica la nostra affermazione di una ingegneria romana, la quale con esso precorre le moderne cinture di cemento armato.





L'acropoli di Amman


   La carovana che  ci ha condotti fin qui sta per ripartire. Ci si distacca da Petra con un senso di profonda malinconia. Il senso di mistero, che ancora in gran parte circonda il paese, le sue origini, le sue vicende e i suoi monumenti, dai primitivi a quelli eretti da Roma, mistero che nessuno scavo ha fino ad oggi tentato di  squarciare, soggioga i nostri animi col fascino dell'ignoto; non si vorrebbe rinunciare a gettarvi uno sguardo più addentro. Ma quando potrà avvenire questo? Chi compirà l'impresa? L'Italia ha una sua Missione Archeologica in Transgiordania, che ha dovuto limitarsi per ora a compiere un'accurata visita alla zona, per dedicarsi invece quasi esclusivamente all'esplorazione dell'acropoli di Amman, capitale dell'Emirato, che nel suo nome conserva integro il ricordo di quello antichissimo, Rabbat Ammon, solo più tardi mutato in quello di Philadelphia, in onore di Tolomeo II d'Egitto. Sorgeva  qui una delle più conservate città romane della regione. Essa si era incuneata, con i suoi edifizi più caratteristici, in mezzo a costruzioni preesistenti del periodo ellenistico, le quali, però, secondo quel che è dato presumere da ciò che ne resta, si erano limitate a dare una veste  architettonica  e un assetto planimetrico ad alcuni antichissimi centri di culto e a cingerli con solide mura di difesa. Tutto questo  aveva però  avuto come obbiettivo quasi unico la collina che domina e sbarra la vallata in cui scorrono le acque dell'antico Yabbok,  già  munita  di vetusti  bastioni  a grossi blocchi non squadrati, probabilmente databili intorno al XV secolo prima dell'era volgare,  con la roccia sacra elevantesi sul punto più alto, su cui la gente di Ammon, che pretendeva di discendere da una figlia di Lot, compiva i suoi riti cruenti.




Gli architetti romani, che attraverso le loro opere dimostrano sempre la cura con cui hanno tenuto ad adattarle, non soltanto alle esigenze dell'ambiente fisico, ma anche a quelle dei preesistenti nuclei storici, secondo un lodevole concetto che i nostri urbanisti non dovrebbero mai trascurare, ebbero da risolvere qui uno dei più complessi progetti di piano regolatore. Sull'acropoli, come s'è detto, era il luogo di culto maggiormente venerato; intorno ad esso, secondo una tradizione comune a tutti i popoli dalla più remora antichità ad oggi, doveva svolgersi ogni attività pubblica, politica e commerciale degli Ammoniti durante i grandi convegni della loro gente, i quali, pur essendo determinati da motivi religiosi, in realtà costituivano l'occasione propizia per trattare degli interessi comuni nei rapporti con i popoli vicini e per scambiare i prodotti, sotto l'egida propiziatrice della divi­nità nazionale. Proprio sopra l'acropoli, quindi,  cominciò  a  sorgere un grande   tempio in antys, nella cui alta base fu inclusa, occultandola per sempre alla vista dei fedeli, la roccia sacra, e lì presso venne aperta una piazza ampia, bene adorna, agorà o fòro, con botteghe. 



Il nome dell'imperatore Marco Aurelio, conservato su un frammento del fregio del tempio, ci offre un sicuro elemento di datazione di questo complesso monumentale; di qualche anno prima sono forse le opere costruite a valle. Era qui che passava la grande strada carovaniera per cui transitavano le merci provenienti dall'India e dall'Arabia, e a contatto dell'acqua le carovane dovevano trovare tutti gli impianti necessari per una tappa, indispensabile a questo punto per far riposare e ristorare uomini e animali, e per smistare le merci dirette verso Damasco o in Palestina o alle guarnigioni del Limes orientale. Ecco quindi portici ombrosi e magazzini, ai lati della bella via centrale lastricata con grandi basoli rettangolari di pietra, e poi un grandioso ninfeo dal quale, fra colonne e nicchie adorne di statue, sgorgava l'acqua condottata, e il fiume ricoperto per funzionare da fognone, e poi terme e templi per le esigenze delle più svariate divinità. Non vi mancavano neppure i divertimenti, offerti in un magnifico e ben capace teatro, e in un più piccolo ma grazioso odeon. Si ebbero così come due centri di vita, separati da un dislivello di circa duecento metri, ma che vennero presto collegati con scalee e viali, iniziati da maestosi propilei foggiati a guisa di archi trionfali: in tal modo la città assunse un suo carattere definitivo, unitario ed omogeneo.


La  Missione Archeologica ltaliana


   Una parte delle rovine, nota a noi per relazioni di viaggiatori del secolo scorso, non esiste già più. Intorno al 1878 il sultano Abdul-Hamid stanziò in Amman, per esaudire la loro richiesta di asilo, alcune tribù di Circassi musulmani, che avevano abbando­nato le proprie sedi occupate dai Russi cristiani, e necessariamente i ruderi fecero le spese della loro istallazione. Più di recente qualche altra cosa è stata sacrificata all'affrettato adattamento del luogo a capitale dell'Emirato, per cui la popolazione si è più che decuplicata, ma, con tutto ciò, la località, grazie anche alla sua nuova funzione, suscita sempre un grande interesse. Come ho detto sopra, l'Italia è presente ad Amman con una sua Missione Archeologica, diretta da chi scrive queste note; essa, come è ovvio, non trascura lo studio della città romana, per quanto forse la maggiore speranza sia quella di mettere la mano sopra documenti molto più antichi, come potrebbero essere, ad esempio, quelli della primitiva città di Rabbat Ammon, cui toccò in sorte di essere assediata e distrutta dallo stesso re David. Si tratta di una impresa nella quale l'Italia si è impegnata per la prima volta, in confronto di numerose e ben attrezzate e antiche missioni straniere sparse per tutta la vicina Palestina e di qualcuna che già si è spinta in Transgiordania, tutte con un unico obbiettivo: ricercare in queste terre, che conobbero le più imponenti emigrazioni di popoli, dominazioni di ogni genere e civiltà multiformi, i documenti della sua storia antichissima, intimamente connessa con quella delle altre genti mediterranee. E un mondo tuttora in fermento, campo aperto a speculazioni etniche, religiose, filosofiche, politiche, spinte sovente agli estremi, ed è bene che non vi manchi la parola solenne ed equilibrata di Roma, della quale anche un  archeologo  può  essere  vigile  e  fedele interprete. Ecco, adunque, più che giustificata la nostra presenza laggiù e non inutile il lavoro che vi compiamo, scevro di sottintesi politici, ma, appunto per questo, squisitamente politico, in quanto ci consente di far conoscere alle popolazioni e ai dotti, che vi convengono da ogni parte del mondo, attraverso l'esaltazione delle sue più antiche testimonianze, la forza e il valore della nostra millenaria e inesauribile civiltà.


Come non sentirne il profondo contenuto spirituale, allorché cogliamo i maschi aspetti del volto inconfondibile di Roma, in questi territori lontani, posti un tempo ai limiti estremi del suo impero, estranei talvolta an­che ai suoi diretti interessi? Questo appunto ci colpisce della civiltà romana, e cioè il fascino che essa seppe esercitare su genti e paesi di costumi, lingue, idee tanto diffe­renti e che pure tennero a darsi una fisonomia romana per la sola ambizione di asso­migliare, almeno esteriormente, a questa Dea potente, la quale, sola ormai, dettava legge, e legge civile, al mondo.

Gli avanzi  di  Gerasa


Abbiamo visto Petra ed Amman assumere una veste romana per il preciso intervento dell'Urbe, che ne aveva fatto due diretti strumenti della sua azione politica e mili­tare nel settore orientale, ma ecco una terza città, posta fuori delle principali vie di comunicazione e di traffico, che non vuole rimanere addietro alle sue vicine e ne imita la sistemazione e i monumenti con uno sforzo costruttivo, che ancora ci riempie di ammirazione. È questa Gerasa. Non sappiamo come sorse, come visse, come cadde in abbandono. Le epigrafi sono ancora parche di notizie sulla sua storia. Nel 78 a. C. se ne impossessò il condottiero ebreo Alessandro Janneo; qualcuno dei sovrani Seleucidi dovette beneficarla, perchè assunse il nome di Antiochia dei Geraseni; poi le fu data l'autonomia da Pompeo ed entrò a far parte della Decapoli. Da allora la sua vita si svolge senza scosse. Convertita al Cristianesimo nel VI secolo, le chiese vi si moltiplicarono in numero eccezionale e con una notevole ricchezza di decorazione, specialmente musiva, anche se le murature e i colonnati furono frutto di depredazioni di templi pagani caduti in disuso. Le invasioni persiane e musulmane e il terremoto del 18 gennaio del 746 dovettero causarne la rovina quasi definitiva e il principio dell'abbandono. Poi un giorno, come ad Amman, la Turchia vi insediò alcune tribù Circasse, ma, per fortuna, non proprio sul posto occupato un tempo dagli edifici pubblici. Tuttavia questa ripresa di vita segnò la distruzione dei quartieri privati dell'antica città, di cui dovevano esistere ancora avanzi notevoli, dai quali gli studiosi avrebbero potuto trarre notizie preziose sulla vita e sulle vicende dei Geraseni, popolazione mista di Greci, Arabi ed Ebrei, e sulle fonti della loro prosperità.



Una visita a Gerasa lascia un ricordo indimenticabile ed è il complemento necessario a quelle fatte a Petra e ad Amman. Vi si giunge da quest'ultima città per una strada comoda e pittoresca. Un fiume incassato fra sponde folte di alberi ombrosi divide la zona monumentale dal moderno villaggio di Gerash; restano avanzi imponenti dei tre ponti romani che mettevano in comunicazione i due quartieri. Da una parte e dal­l'altra del corso d'acqua, il Chrysorrhoas degli antichi, il terreno è collinoso, e la topografia della città dovè quindi adattarsi a questa caratteristica del luogo. La sponda occidentale del fiume costituisce in certo modo l'asse di Gerasa; su di essa si sviluppa una maestosa strada ben lastricata, con portici, dei quali sono ancora in piedi una settantina delle cinquecento colonne che si calcola avessero. Verso Amman la via ha inizio con un triplice portale ad archi, di tipo trionfale, posto fuori le mura. Accanto ad esso è un gruppo di rovine indicate per molto tempo come naumachia, ma nelle quali è da riconoscere piuttosto uno stadio. Poco dopo si entra nella città vera e propria, attraverso un'altra porta: sulla sinistra si innalza sopra una collina un tempio periptero, con le pareti adorne di nicchie. Succeduto forse a un luogo di culto più antico, esso fu così ricostruito nel 163 d. C. e dedicato a Giove. Sul fianco dell'altura si addossa un bel teatro, eccezionalmente conservato nella cavea e nella scena ricca di colonne. I due  monumenti  hanno   un   orientamento diffe­rente da quello del resto della città; stanno quindi a testimoniare l'esistenza di un nucleo più antico, al quale si addossò la nuova città romana. Varcate le mura, la grande arteria ha ini­zio con uno strano Fo­ro circoscritto da un porticato ovoidale, ionico, sotto il quale dovevano un tempo aprirsi numerose botteghe; poi prosegue, intersecata di tanto in tanto da vie trasversali: due crocicchi sono coperti con tetrapili, di cui il secondo è dedicato all'imperatore Settimio Severo e alla sua famiglia. Una prima interruzione del colonnato: un maestoso e ben architettato ninfeo a fondale ricurvo, ador­no di numerose nicchie con statue, poneva quasi una zona di ristoro e di frescura nella linea assolata della via, e le donava decoro: l'acqua, riversatavi in abbondanza da vari getti, fluiva da bocchettoni a teste di animali, e persino i fori delle sottoposte chiaviche erano adorni di pòlipi a rilievo. Al suo pregevole restauro è legato il nome dell'architetto romano Ricci, spentosi giovanissimo in Transgiordania, fra il compianto degli stessi colleghi inglesi dell'ufficio delle Antichità dell'Emirato.



Tradizione orientale e civiltà romana

Proseguendo, ecco un altro ingresso monumentale: da esso parte una lunga scalinata che, attraverso una serie di terrazze, sale fino al tempio di Artemide, superbo nel suo altissimo colonnato quasi intatto, di un bel tono dorato, stagliantesi sull'azzurro del cielo. Quasi di fronte, a ridosso del fiume, sono resti di terme ben conservate, con qualche ambiente ancora coperto dalle vòlte; infine, verso la porta settentrionale, si innalza un altro teatro, con un ampio piazzale a ridosso della scena. Con una pas­seggiata di pochi minuti si arriva fino alle sorgenti del Chrysorrhoas, che i Romani avevano raccolto entro un vasto bacino, dal quale partiva l'acquedotto. Esso è ancora in parte in funzione, ed i greggi degli attuali abitanti di Gerasa si abbeverano a un'antica fontana nelle immediate vicinanze dell'attuale villaggio.


Un terzo piccolo teatro e un tempietto si ricollegano a dissoluti riti sacri, che si svol­gevano in questo luogo in onore di una di­vinità semitica di nome Maiumas, di cui parla ancora una iscrizione del 533 d. C, eco di  una   tradizione pagana tenacemente radicata negli abitanti, ad onta degli sforzi che faceva la chiesa cristiana per combatterla. Ma è questa appunto la caratteristica costante dei paesi d'Oriente: persistenza dei costumi, attaccamento tenacissimo alle proprie idee, e, più che tolleranza, differenziazione ostentata nelle pratiche religiose, per cui anche in periodo di intransigenza, vediamo coesistere templi pagani, chiese cristiane, forse anche di rito diverso, e sinagoghe, tanto nel VI secolo dopo Cristo come ai nostri giorni. Ma sempre, fra tutti e sopra tutti, è Roma che vediamo assidersi sovrana immortale. Ancora oggi, per tutto l'Oriente, i suoi monumenti costituiscono l'unica testimonianza di un secolare passato di civili ordi­namenti, di sagace politica, di solida economia, di pace sicura.
RENATO BARTOCCINI

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