Documentario n. 284
tratto dall'enciclopedia LA VITA
MERAVIGLIOSA - Ed. M. Confalonieri Milano 1957 - pagg. 873-878.
illustrazioni di Carlo Jacono
§§§
In Ludovico Ariosto, lo spirito del Rinascimento trova il suo più
alto e perfetto compimento poetico. L'amore che l'immortale cantore sentì per
lo vita e la natura si esprime nell'Orlando Furioso come pura e universale manifestazione artistica.
Ludovico Ariosto nacque a Reggio Emilia, il 1474, da
Niccolò, capitano della rocca di quella città, e da Daria Malaguzzi. A dieci
anni circa si trasferì con la famiglia a Ferrara, continuandovi la sua
educazione; il padre prima lo indusse a studiare legge e solo dopo cinque anni
(1489-1494) gli concesse di dedicarsi agli studi letterari. Suo maestro, sino
all'anno 1499, fu Gregorio Elladio da Spoleto. Ludovico, sotto di lui,
studio eloquenza latina e greca, ma pare che non approfondisse molto la
conoscenza di quest'ultima lingua. La serena vita di studi
del poeta fu interrotta nel 1500 quando, mortogli il padre, egli, primo di
dieci figli, dovette provvedere all'avvenire di cinque sorelle, ed educare
quattro fratelli, uno dei quali, Gabriele, paralitico, rimase con lui per tutta
la vita. Il poeta si procurò allora, per fronteggiare le necessità della
famiglia, un impiego presso gli Estensi. Nel 1503 entrò al servizio del
Cardinale Ippolito d'Este, figlio di Ercole I e fratello di Alfonso I, duca di
Ferrara dal 1505 al 1534. Il Cardinale, da quell'uomo battagliero che era,
sempre occupato in maneggi politici, si valse del poeta per affidargli
ambascerie e missioni e l'Ariosto, che recava nei cuore il sogno di
un'esistenza placida e raccolta, dedicata agli studi e alla poesia, si lamento
della vita nomade e instabile che era costretto a condurre, ma non mancò per
questo, in ogni occasione, di usare energia e avvedutezza. Egli fu
particolarmente occupato negli anni 1509 e 1512, durante le guerre della Lega
di Cambrai e della Lega Santa: combatté contro i Veneziani al seguito del
Cardinale; fu più volte mandato a Roma a chiedere aiuto al Papa Giulio II e per altre incombenze del Cardinale;
accompagnò a Roma, nel 1512, il duca che, alleato della Francia durante la
guerra per la Lega Santa, si recava da Giulio II per placarne l'ira e dovette invece allontanarsi dalla città,
insieme con il poeta, in una fuga romanzesca attraverso gli Appennini, per
sottrarsi al terribile sdegno del Pontefice.
L'Ippogrifo, di cui si parla
nel poema in diverse occasioni, è il destriero alato, con il corpo
di cavallo e il petto e il piumaggio
di grifone, che trasporterà
Astolfo nella Luna alla ricerca dell'ampolla contenente il senno d'Orlando.
Nel 1513, venne eletto Papa, con il nome di Leone X, Giovanni de' Medici, che era stato prodigo di
affettuose manifestazioni con il poeta, il quale andò a Roma, nella speranza di
ottenere una più comoda e tranquilla occupazione; ma il Papa fu assai benigno
con lui, senza però lasciargli sperare nulla, perciò l'Ariosto si rassegnò a
tornare dal suo irrequieto signore. Nel 1517, essendo stato Ippolito nominato
vescovo di Buda in Ungheria, il poeta si rifiutò di seguirlo e perdette il
posto; l'anno seguente, però, passò al servizio del duca; un servizio,
comunque, secondo quanto egli stesso diceva, preferibile per il fatto che non
lo costringeva a correre sempre da un luogo all'altro e gli consentiva di
starsene a Ferrara. Tuttavia, nel 1522, fu costretto ad accettare la carica di
commissario del duca nella Garfagnana e rimase in quel paese infestato dai
briganti, sempre inquieto per le discordie faziose dei signori locali,
governando con saggezza ed energia, per quanto glielo consentivano le sue
condizioni, perché spesso il duca era sordo alle sue richieste di soldatesche e
di aiuti per ristabilire l'ordine. Finalmente, nel 1525, poté ritornare a
Ferrara e nel 1527 si divise dai fratelli e si ridusse ad abitare nella casa
che si era fatto costruire nella contrada Mirasole, confortato dall'affetto di
Alessandra Benucci, la donna che egli amò da quando l'incontrò a Firenze nel
1513 e che sposò, ma segretamente, forse nel 1527. Gli ultimi anni
furono i più felici della vita del poeta, trascorsi nella serenità domestica e
nella stesura — una fatica della quale non si stancò mai — del suo poema. Si
spense il 6 luglio dell'anno 1533 lasciando ai posteri un capolavoro di
perfezione artistica, l'Orlando Furioso. L'azione più importante, la
spina dorsale del corpo del poema cavalleresco è la guerra fra Oriente e
Occidente, il grande conflitto tra paganesimo e Cristianesimo. Fu assai
probabilmente questa guerra che, con i suoi motivi avventurosi ed eroici,
scaldò la fantasia dell'Ariosto e gli ispirò la cornice e lo sfondo del grande
quadro. Il poema si inizia là dove s'interrompe L'Orlando Innamorato del
Boiardo di cui è, specie nel principio, una vera continuazione.
Angelica, la bella figlia del re
del Catai, per sottrarsi all'amore dei due cugini Rinaldo e Orlando, fugge
dalla tenda di Namo e, dopo varie peripezie, incontra, in una valle, un
eremita dall'aspetto venerabile.
Angelica, la bellissima figlia di Galafrone, re del
Catai, viene in Francia alla corte di Carlo Magno accompagnata da un cavaliere
che sfida i più vittoriosi paladini di Francia. Tutti i più famosi guerrieri al
servizio del re sono innamorati di lei, compresi i cugini Rinaldo di Montalbano
e Orlando di Bretagna, nipote di Carlo Magno,
Questi ultimi, per amore della fanciulla che vuole sottrarsi ad
entrambi, incrociano le armi; ma Carlo Magno, ad evitare contese, consegna
Angelica al vecchio Namo, duca di Baviera, promettendola a quello dei due
cavalieri che avrebbe dato maggiori prove di valore nell'imminente battaglia
sotto Parigi. I Cristiani
vengono sconfitti e Angelica riesce a fuggire dalla tenda di Namo. Da questo
punto si iniziano i mille casi della fanciulla e dei cavalieri che la
inseguono.
L'eremita non è altri che un
negromante il quale, attirata Angelica nell'isola di Ebuda, sulla spiaggia
spruzza negli occhi della fanciulla un farmaco che la fa addormentare. Giungerà
poi Ruggiero a liberarla.
Orlando abbandona l'esercito per correre alla ricerca
della donna amata. Durante il suo viaggio incontra Olimpia, figlia del Re
d'Olanda, che era stata costretta dal malvagio Cimosco, uccisore del padre, a
sposarne il figlio. Orlando ricongiunge Olimpia all'amato Bireno, Duca di
Selandia, e ciò lo riempie di gioia. Purtroppo per la buona
Olimpia anche questo matrimonio non doveva essere fonte di felicità.
Infatti, Bireno s'innamora di una figliola del Re Cimosco ed abbandona la sposa
che, trasportata nell'isola di Ebuda, sta per essere data in pasto all'Orca.
Il cavaliere Orlando insegue la
bella Angelica che, nel frattempo, è andata sposa a Medoro, un povero soldato
ch'essa ha raccolto ferito ed ha curato. Un pastore narra ad Orlando, giunto al
rifugio dei due giovani, la storia della coppia felice.
Ancora una volta Orlando giunge a salvarla, facendola
poi sposare al buon re d'Ibernia e procurandole, finalmente, tranquillità e
benessere. Altre infinite peripezie condurranno il Paladino, dopo duelli ed
affannose traversie, sulla strada di Angelica. Colma di pathos e di suggestiva
bellezza è la scena che descrive Orlando sulla soglia dell'antro che ospita
l'oggetto dei suoi sogni in compagnia dello sposo Medoro. Il giovane è Un
semplice fante africano al servizio di Dardinello, che, sorpreso
dai nemici durante un'azione
rischiosa, viene ferito gravemente ed è soccorso da Angelica la quale se ne
invaghisce e lo sposa. Essi decidono di comune intesa d'imbarcarsi per la
Spagna e di ritornare insieme al Catai. Ma un giorno, mentre vagano a cavallo
su un lido spagnolo, vengono sorpresi da Orlando che, già impazzito dalla
rivelazione fattagli dal pastore che aveva ospitato Angelica e Medoro nel
proprio antro, si abbandona nuovamente a manifestazioni di pazzia furiosa,
caratterizzate da una forza erculea che gli permette di sradicare alberi, di
frantumare pietre e di uccidere il cavallo del saraceno con un pugno. Gli
episodi della pazzia di Orlando danno il titolo al poema, ma intorno ad essi, e
spesso indipendentemente da essi, mille e mille altri casi si moltiplicano e si
aggrovigliano.
Alla notizia del matrimonio di
Angelica, un immenso dolore devasta il cuore di Orlando che per tre
giorni e tre notti non prende cibo. Il quarto giorno il cavaliere viene
preso da un accesso di furore: si strappa di dosso l'armatura e, con
un'inverosimile forza, sradica alberi e scaglia lontano enormi massi.
Sempre in preda al furore, con un
gesto di rabbia, egli getta via la sua fida Durindana [o Durlindana], la spada
che si era conquistato ad Aspramonte e che, secondo il Boiardo autore
dell'Orlando Innamorato, in origine apparteneva ad Ettore
Con notevole rilievo spicca la figura di Astolfo,
figlio del re Ottone d'Inghilterra e cugino di Orlando e di Rinaldo. E' un
giovane vivace, pronto allo scherzo e alle vanterie, con un innegabile fondo di
buon senso di cui, spesso, i più insigni cavalieri del poema non sono dotati.
Lo distingue il pregio inestimabile di dire sempre la verità. A cavallo
dell'Ippogrifo entra nel Paradiso Terrestre e in compagnia di San Giovanni
Evangelista sale sulla Luna, dove si possono trovare tutte le cose che si
perdono sulla Terra e da dove egli riporterà l'ampolla del senno che restituirà
ad Orlando la ragione perduta.
Accompagnato dalla sua furia
devastatrice, Orlando si sposta da un luogo all'altro e, giunto su una spiaggia
della Spagna, decide di adattarsi un giaciglio nella sabbia. Intanto Angelica e
Medoro gli passano accanto e la fanciulla non riconosce il cavaliere a causa
del viso scarno e della chioma lunga ed arruffata.
Ma Orlando li ha scorti e si getta
all’inseguimento della coppia. Medoro, accortosi che Orlando insidia la sua
donna, lo percuote sul capo. Il cavaliere, sempre fuori di sé, colpisce allora
il cavallo con un pugno e l'animale stramazza al suolo fulminato.
Bradamante, sorella di Rinaldo
e innamorata di Ruggiero, giunta nella grotta
del mago Merlino, apprende dalla Melissa che dal suo matrimonio con
Ruggiero discenderà la progenie degli Estensi.
E' impossibile tracciare con linea sicura il disegno
dell'opera, di cui il carattere esterno è rappresentato dalla varietà e dalla
molteplicità dei casi. Tuttavia, accanto all'episodio fondamentale della pazzia
di Orlando e alle note d'accompagnamento costituite dalla guerra tra Carlo
Magno e i Saraceni, il terzo importante nucleo narrativo consiste nell'amore
tra Ruggiero, cavaliere saraceno, discendente dal troiano Astianatte, e
Bradamante, sorella di Rinaldo, che, attraverso vicende contrastate, si
conclude con giuste nozze. Da questa felice unione discenderà la famiglia degli
Estensi, almeno secondo quanto immagina il poeta per un fine evidentemente
encomiastico nei confronti della città che l'ha accolto giovanetto e che gli ha
offerto la sicura possibilità di una carriera presso i potenti signori che
l'hanno sempre protetto. Bradamante, infatti, apprende, nella grotta del mago
Merlino, la profezia riguardante la sua gloriosa progenie. Sarà suo figlio
Ruggiero che, dopo aver vendicato la morte del padre, combatterà in Italia
nelle schiere di Carlo Magno contro Desiderio e otterrà in feudo Este e Calaone
nel territorio di Padova.
Sulle tracce d'Orlando giunge
Astolfo, accompagnato da altri cavalieri. Trovatolo, egli immerge il folle
paladino sette volte nel mare; quindi, distesolo sulla sabbia, gli fa aspirare
il senno contenuto in un'ampolla e ritrovato da Astolfo sulla Luna dove vanno a
finire, secondo l'Ariosto, tutte le cose perdute.
Non è facile nella grande varietà del poema
ariostesco trovare quale sia il sentimento che gli conferisce unità poetica
oltre che unità di avvenimenti e di azione. Prima di tutto, se il Furioso è
da annoverarsi tra i poemi cavallereschi, non si può dire che la sua
ispirazione sia il vagheggiamento di un mondo eroico, il sentimento religioso o
una qualsiasi epica serietà chiaramente riscontrabili nei comuni poemi
cavallereschi. D'altro canto, non si può neppure dire che l'anima del poema sia
l'ironia canzonatoria rivolta alla vecchia materia cavalleresca; perché i
motivi ironici nel Furioso sono soltanto occasionali e si dissolvono
nella serenità che pervade tutta l'opera.
Il re saraceno Marsilio e Carlo
Magno decidono di affidare le sorti della loro supremazia
alle armi; dispongono, quindi, che vengano a duello Rinaldo e Ruggiero,
paladini delle due parti: il cavaliere vinto obbligherà il
proprio re a divenire tributario dell'altro.
La grande varietà del poema e la mancanza di un unico
filo conduttore nella vicenda non permettono di definire con esattezza di
giudizio il genere del poema. Infatti, nel Furioso troviamo il gusto
dell'avventura e del fantastico, un giovanile sentimento di letizia e di
libertà, l'amore e l'odio, la saggezza e l'imprudenza sconsiderata, il tragico
e il comico, il patetico e l'elegiaco, ma non ci riesce di affermare che esso
sia il poema dell'uno o dell'altro di questi atteggiamenti spirituali, i quali
appaiono ognuno come espressione di un momento particolare della grande opera e
nessuno come motivo unificatore. Si potrebbe concludere che manca nel Furioso
vera unità poetica, ma ad impedire una simile conclusione negativa sta la
chiara impressione, che anche il più giovane e ingenuo lettore riceve, di una
luce viva e diffusa, di un eguale sorriso che pervadono tutta la favola
incantevole, di cui il poeta tiene in mano le fila dei vari casi movendole con
destrezza e grazia meravigliose.
Baiardo è il famoso
destriero di Rinaldo. Carlo Magno lo donò al cavaliere il giorno della
sua investitura. E’ un animale fatato dall'intelligenza umana. Quando
Angelica fugge dalla tenda di Namo, il destriero l’insegue perché Rinaldo,
dietro a lui, la ritrovi.
Il critico letterario De Sanctis, che per primo pose
nitidamente e affrontò il difficile problema critico della ricerca del motivo
d'ispirazione del Furioso, affermò che il sentimento che anima il poema
è la gioia stessa di cantare, il gusto di fingere una favola varia e di obliarsi
in essa, che, insomma, il fine estetico del poema è l'arte stessa. La prima
edizione del Furioso, iniziato probabilmente tra il 1502 e il 1503, fu
pubblicata a Venezia nel 1516 a spese del Cardinale Ippolito a cui è dedicato e
comprendeva soltanto quaranta canti in ottave. Questo numero, immutato nella
seconda edizione del 1521, crebbe a quarantasei nell'ultima edizione del 1532,
che è quella in cui noi leggiamo il poema. L'opera del poeta fu dunque frutto
di circa trent'anni di fatica e nasconde, sotto la sua semplicità, un forte
travaglio e un'intensa cura di artista, che sono rivelati anche dai manoscritti
ariosteschi, talora assai tormentati.
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