Emilio Salgari
un racconto biografico fantasioso
§§§
Un racconto dalla sbrigliata fantasia sulla
vita e la tragedia
del più famoso narratore avventuroso italiano
L'evocativo
francobollo stampato per la ricorrenza della scomparsa.
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Ricordi di mio padre
TRE ANNI DI GIOVINEZZA AVVENTUROSA
Il
libro da cui è tratto il racconto, edito da Pagani senza data.
Eccomi
seduto al Suo tavolino claudicante: sollevo con dita leggermente
tremanti la «penna magica» che vergò 120 romanzi e 200 novelle e che mai Egli
volle sostituire. E' una cannuccia scheggiata col pennino tenuto aderente da un
avvolgimento di refe sfilacciato.
Un senso di improvviso timore m'invade.
Il pensiero di scrivere con la «penna magica» qualche
ricordo della Sua travagliatissima vita, già prepotente in me, ora mi rimorde
come una profanazione. Fisso la punta del pennino a lungo. Un foglio bianco di
carta è steso sul tavolino e mi invita. Sembra che una mano invisibile mi
prenda lievemente la mia. È la Sua approvazione per quanto mi accingo a
tentare? Forse è così. La mano si porta come per volontà propria sopra il
calamaio. Intingo la penna cauto e lento, poi di scatto ne porto il pennino sul
foglio. Voglio scrivere il titolo: «Ricordi di mio padre Emilio Salgari». Ma la
«penna magica» traccia incerta le prime sillabe: Ricord... e poi sembra decisa
a non proseguire: voglio vincere la sua ritrosia e scrivere l’i. Ma è una a che
esce dallo sbiadito inchiostro.
Ricorda.
Depongo la penna immediatamente. Essa deve essere per me
una reliquia, non uno strumento di lavoro. Essa ha voluto scrivere soltanto la
parola che deve guidare la mia vita: Ricorda.
Si, papà ricordo. Ricordo le ingiurie che ti fecero esosi
mercanti e sarà scopo della mia vita placare la Tua ombra offesa. Ma Tu vedi
con quale spontaneo e generoso entusiasmo l’Italia grida oggi il Tuo nome.
Chino la testa sulle braccia e chiudo gli occhi: il mio
pensiero percorre come in una veduta panoramica la Sua vita. Non la Sua sacra
penna, ma un'altra io debbo usare per riassumere la visione, per scrivere la
Sua vita multiforme che sembra un romanzo. Rimetto la «penna magica» nella sua
custodia: riposi ora, dopo aver lavorato tanti anni tra le angustie più penose,
dopo aver vergato l’ultima lettera che bollò gli esosi mercanti del Suo genio.
A.V.A.T.A.R. Egli credeva nella trasmigrazione delle anime:
credeva nel Suo «avatar», per quanto lo ricordava. non credeva alle date
dell’anagrafe. «Nato a Verona, il 25 settembre 1862».
Va bene. «Ma il Salgàri che fu fatalmente spinto alla più
strana vita avventurosa, è nato certamente prima». Nei ricordi confusi Suo
padre, un negoziante di stoffe, formava sovente una leggenda familiare che
faceva derivare i Salgàri da guerrieri principi persiani[1].
Leggenda.
Ma è perciò certo che Sua madre discendeva da una famiglia di arditissimi
marinai dalmati che avevano combattuto per una nobile causa in Danimarca. Ella,
anzi, diceva che nei tratti del viso del piccolo Emilio riconosceva quelli d'un
eroico avo che aveva compiuto miracoli di coraggio. Nella sua immaginazione le
parole materne si incidevano come prove del suo «avatar», e certo influirono
nel foggiar il Suo temperamento avido di avventure mirabolanti.
Egli non credeva possibile altra vita che quella
dell'uomo che si affida alle onde dell'Oceano per essere portato dal destino e
dall'uragano verso inaudite imprese, su terre ignote, ove tutti gli istinti
selvaggi possono trovare il loro sfogo, ove si gode l'ebbrezza della lotta
contro gli scatenati elementi della natura, ove l'audacia e la volontà sono le
sole virtù necessarie. Sospinto da questo bisogno, Egli non vedeva il momento
di lanciarsi per il vasto mondo. «Che cosa fanno nelle loro piccole case, negli
oscuri negozi, negli oziosi caffè tanti giovani? Perche non fanno i marinai?».
Egli era convinto che ogni uomo avesse il dovere di fare il marinaio. E cosi
Emilio Salgari, mio padre, fu pessimo scolaro: non pensava ad altro che al mare
e manifestava la Sua ossessionante passione con schizzi e disegni su quanto avevano
sottomano; i quaderni, i libri di testo, gli atlanti, i muri di casa, ogni
superficie bianca era da Lui riempita con scene marinaresche.
Malato
di Donchisciottismo.
Ma non bastavano a sfogare il Suo indomabile
desiderio d'avventura che lo infiammava, i pacifici disegni, ed allora
ricorreva... alla schiena e alla testa dei suoi compagni di scuola. Erano però
sfoghi del Suo animo generoso, sempre pronto a difendere il debole; ciò che
faceva dire al Suo buon maestro:
— Emilio, tu sei ammalato di una malattia dalla quale
non si guarisce. Tu sei ammalato di donchisciottismo. «Diagnosi perfetta»,
osservava un critico.
Egli non sapeva che cosa significasse questa parola:
ma più tardi, scrisse: «Un po' della malattia di Don Chisciotte cova nell’animo
di tutti coloro che amano la avventura»... Questa malattia non fa gran danno
all'umanità... Sì, è vero: combattere i finti giganti è goffo: la gente seria
ne ride. Ma io penso pure che combattere i finti mostri sia una ginnastica
utile; che si prepara a combattere i mostri veri.
L'inglesina.
Ebbe anche lui la sua Dulcinea: donchisciottismo
dodicenne, s'invaghì di una inglesina e poi propose di compiere per lei gesta
gloriose.
«Mi trovavo con mio fratello sul Corso Porta Borsari
— egli scrisse — ed ella mi passò dinanzi e mi guardò. Ancor oggi non posso
sottrarmi alla malia di quello sguardo. Mi parve che si formasse attorno a me
un alone di misteriose vibrazioni, provai d'improvviso una strana mescolanza di
gioia e di dolore; un veemente bisogno di gridare e di piangere. Sentii il
formidabile impulso di fare qualche cosa di grande... Non riuscii ad altro che
a farmi rimandare a casa dal mio buon maestro, che aveva trovato un po'
eccessivo il mio donchisciottismo. Aveva rotto la testa ad un disgraziato per
aver egli osato ridere del mio amore».
L'amore precoce creò in Lui una precoce antipatia per
l'Inghilterra; questa, sotto le spoglie di una spaventevole figura di
istitutrice, gli impedì di intrecciare un romanzo sentimentale colla bella
Dulcinea che un bel giorno tornò a Londra, sua città nativa.
Un
libro a quattordici anni.
Il primo libro lo scrisse a quattordici anni per dare
sfogo al suo enorme desiderio di avventure marinare. Era la storia di un nuovo
Robinson Crusoè. Il libro piacque enormemente ai suoi amici, che del resto, mai
avrebbero osato trovarlo stupido per timore delle sue «vigorose» proteste; ma
presto si convinse di aver scritto un fantastico pasticcio e lo getto nel
fuoco. Quel libro però ebbe il pregio di suggerirgli più tardi una osservazione
interessante: «Tutti coloro che si sono dedicati a narrare avventure di
viaggio, hanno incominciato a scrivere la storia di un Robinson». IL libro di
De Foe è infatti un libro tipico, dell’avventura: in fondo ad ogni animo di
fanciullo sonnecchia un piccolo Robinson.
All'istituto
Nautico.
Quantunque i suoi genitori tentassero di
distoglierlo egli volle realizzare il suo sogno ed entrare nella marina. Perciò
parti per Venezia e si iscrisse all'Istituto Nautico di quella città dove si
dedico con impegno ad apprendere tutto quanto gli sarebbe giovato per diventare
un autentico lupo di mare. A diciotto anni ottenne la patente di capitano di
lungo corso e ne fu talmente lieto che distribuì... «pugni senza economia».
«Per festeggiare la mia patente — cosi egli scrisse —
non trovai di meglio che organizzare una spedizione contro gli allievi del
reparto commerciale, la cui scuola si trovava nello stesso edificio!... Come
conseguenza personale di quella memoranda giornata, ebbi un ben meritato colpo
di bastone sulla protuberanza destra dell'attività metafisica — direbbe
Manzoni. — Ma questa bastonata non valse a far nascere in me alcuna attitudine
filosofica.
A quanto pare intensificò invece in Lui il bisogno di
lanciarsi per il vasto mondo.
L'Italia
una.
Gli piaceva il titolo del trabaccolo «Italia Una».
Gli piaceva meno il capitano Varak, un gigante alto un metro e novanta,
tarchiato, di una complessione che non lasciava alcun dubbio sulla forza
erculea. Ma aveva sul viso qualcosa di brutale ed appariva subito ubriacone e
libertino. Accettò l'offerta del capitano Varak di prenderlo a bordo del suo
trabaccolo in qualità di «secondo», ma gli diede di sé una pessima prova per un
aspirante lupo di mare, quando recisamente rifiutò di sigillare il contratto
con «rhum» e con «gin». Il capitano Varak lo guardò, tentennando il capo.
Secondo lui non si poteva navigare senza bere abbondantemente. Quando il
trabaccolo salpò, Egli si sentì ebro come se avesse bevuto Lui tutto il rhum
che aveva bevuto il capitano. Si sentiva ebro di salsedine e di fantasia;
salpava verso l'avvenire, verso mondi ignoti. Ma Egli salpava verso le prime
lotte coi giganti veri ed immaginari. Il capitano Varak era un sarcastico
prepotente. Il primo giorno di navigazione il destino volle dare a mio padre
una lezione ed agì sotto forma di mal di mare. Non c'e più spietata ironia per
un appassionato della vita marinara che inaugurarla con le nausee. Il lupo di
mare avviava male la sua carriera ed il capitano Varak non gli risparmiò la botta:
— Signor Emilio, noi non abbiamo fissato nel
contratto che il «secondo» dovesse patire il mal di mare... Voi siete un
marinaio d'acqua dolce... Ho assunto in servizio una signorina.
Bastò questa battuta sarcastica a guarire mio padre
dalla nausea e ridargli la sua energia. Egli lancio sul gigante ubriacone uno
sguardo di sfida e disse:
— Capitano, la signorina d'acqua dolce attente
l'occasione per dimostrarvi chi è.
L'occasione venne. Fu una scarpa indirizzata ad un
mozzo che era venuto a svegliare bruscamente mio padre e che aveva invece
colpito il capitano Varak... Questi, credendo che il mozzo fosse il colpevole,
lo afferro sollevandolo come una piuma e minacciandolo di gettarlo in mare. Mio
padre gli si porto dinanzi, esclamando:
— Lasciate quel ragazzo. Sono io che vi ho buttato
sul viso la scarpa!
«Il capitano liberò il mozzo — cosi scrisse poi Lui —
e sollevò uno dei suoi poderosi pugni su di me. Ma non poté farlo scendere; il
mio sguardo lo fermò e balbettò»:
— La vostra mancanza è grave.
— Lo so, capitano; ma la Scarpa non era per voi. Vi
chiedo scusa. Appena saremo a terra, mi punirò da me bevendo con voi due
bottiglie di gin.
Quel lancio di scarpa guadagno l'ammirazione di
ventisette marinai del trabaccolo per mio padre il quale, raccontandoci
l'accaduto, diceva:
— Un buon colpo di scarpa non è mai perduto.
Preparazione
alla vita avventurosa.
Veleggiando verso Arsa, «l'Italia Una» si trovò
assalita dalla furia degli elementi e corse un pericolo non certo piccolo: il
povero trabaccolo danzava in modo spaventoso e l'equipaggio non nascondeva la
sua paura. Invece Varak cercava di nasconderla facendo il gradasso:
— Si balla! Dame a scegliere! Cavalieri a posto! —
gridava.
Ma i lampi illuminavano il suo viso alterato da
terrore. Mio padre allora gli disse:
— Capitano, una signorina vi chiede il timone.
— Fate! — rispose Varak, scomparendo.
Mio padre andò alla ribolla e trovò di colpo tutta
l'energia dell’esperto marinaio. Con sangue freddo seppe lottare contro la
minaccia del naufragio, riparando tra gli scogli di Brione. Il lupo di mare
nasceva cosi quasi miracolosamente e la signorina d'acqua dolce veniva proclamata
dallo stesso Varak «eroe della ribolla».
Le avventure che capitarono nel viaggio dell'«Italia
Una» non furono che una idilliaca prefazione a quelle davvero «salgariane» che
si iniziarono nel suo secondo viaggio; ma servirono ad addestrare mio padre
alla vita incomoda, elemento prezioso nella formazione del carattere e del
potenziamento della volontà. Lo stesso capitano Varak lo fece persuaso colla
sua gigantesca figura male servita da un amico inetto, che nella vita non
bisogna lasciarsi spaventare dalle grandi proporzioni degli uomini e degli
avvenimenti.
Sull'Oceano.
Nel secondo viaggio, sul veliero del capitano
Giuffrè, mio padre entrò di botto nel grande mare delle avventure. Una zattera
avvistata in alto mare portava uno strano naufrago. Egli era interamente nudo e
sorrideva di un riso
beato. Non si tardò a capire che il disgraziato era
demente e privo d'ogni memoria. Mio padre cercò invano di trarre dalle poche
parole inconcludenti del mentecatto un indizio per ricostruire l'avventura. Il
capitano Giuffrè lo riteneva un simulatore; un galeotto evaso che si era
liberato dei suoi indumenti, e per costringerlo a parlare e a rivelarsi voleva
farlo picchiare da due marinai.
— Non farete una cosa simile! — esclamò mio padre.
— Chi mi impedirebbe di farlo?
— Io, capitano!
— Chi siete voi? Nulla.
— Sono il vostro secondo.
— E' un errore. Voi eravate il mio secondo; ma ora
non lo siete più, perché rompo il vostro ingaggio.
— Sta bene, ma non farete battere quel disgraziato
finché io sono su questa nave.
Il giorno dopo mio padre si trovava libero a Bombay.
E fu a causa del «pazzo della zattera» che Egli abbandonò il capitano Giuffrè.
Veniva dagli avvenimenti guidato verso il più celebre dei suoi personaggi da un
misterioso personaggio.
Sandokan.
Non è tutta creazione di mio padre, Sandokan. Egli ne
ha tratto romanzi avvincenti che milioni e milioni di giovani in ogni parte del
mondo hanno letto: romanzi a sviluppi immaginari, ma Sandokan fu persona reale.
Era un rajah in una plaga del Borneo e fu a causa del licenziamento del
capitano Giuffrè che Egli lo incontrò. A Bombay venne avvicinato da uno
sconosciuto che gli chiese se sarebbe stato disposto ad ingaggiarsi con lui.
Dopo aver trascorso una serata insieme, mio padre si decise. Lo sconosciuto
aveva detto:
— Si tratta di riparare una grande ingiustizia.
Ed il donchisciottismo di mio padre si era subito
proteso. Quando poi senti che si trattava di difendere un marajah scacciato
dagli inglesi, Egli si senti fiero di aver accettato. Non comprendeva bene
verso quali avventure Egli si impegnava. Aveva appena diciotto, anni, ma il
mistero lo attraeva invincibilmente. Egli andava a difendere un rajah che era
stato dichiarato ribelle con tutti i suoi partigiani. E si affidò alle sorti di
un veliero che levò l'ancora da Bombay per una destinazione che l'attirava:
Mompracem e che fu poi tanta parte dei suoi romanzi. Una grossa taglia era
stata posta sul capo del rajah ribelle e spodestato, che gli inglesi
consideravano ormai un pirata e la strada per giungere al covo di Sandokan non
era esente da pericoli. Con molta precauzione mio padre e la sua guida
raggiunsero la grotta dove era rifugiato l'ex-sovrano. Entrarono in una specie
di vestibolo che precedeva una spaziosa caverna. Il suolo e le pareti erano
rivestite di stoffa e di tappeti ricchissimi.
«I miei occhi furono allucinati dallo scintillio
delle armi stupende che ornavano le pareti. — Egli scrisse — mi trovai
improvvisamente dinanzi ad un uomo di bellissimo aspetto: aitante nelle forme
erculee, due occhi penetranti e vivi si fissarono su di me. Il ribelle, che i
miei lettori hanno conosciuto in molti romanzi sotto il nome di Sandokan,
portava un'ampia tunica di seta bianca, stretta alla cintura da una sciarpa di
velluto rosso e oro, tempestata di perle di ingente valore. La sua testa
leonina, ornata da una prodigiosa capigliatura brizzolata, era avvolta da un
turbante di seta candidissimo, sormontato da un maestoso pennacchio di piume
bianche, tenuto insieme da un grosso brillante. Mi guardò in silenzio. Io
sostenni quello sguardo ipnotico, in cui balenava tutto il prestigio che il
sovrano spodestato esercitava sui suoi seguaci, e l'esame mi sembrò favorevole.
Sandokan affidò a mio padre il comando d'uno dei suoi
rapidi «praho» iniziandolo al noviziato di corsaro.
Con i “Tigrotti della Malesia”
«Giunto a Bombay — cosi egli ci narrava nelle lunghe serate
d'inverno — me ne ritornai a casa e abbandonai a malincuore la vita del mare».
Noi eravamo tutti convinti, compresa la mamma, che cosi fosse stato. L'aver
trovato, dopo la sua morte, mischiate a trame di romanzi le sue memorie, ci
rivelò l'esistenza delle sue più grandi avventure.
Già quando ci narrava il suo secondo viaggio. attribuiva l'incontro col «pazzo
della zattera» ad un «vagabondo del mare» da cui l'aveva appreso, o attribuiva
anche al «vagabondo del mare» la rivelazione d'un autentico Sandokan, d'un vero
Tremal-Naik, d'un verissimo Kammamuri, che tutti i lettori credettero
personaggi fantastici. Il rinvenimento delle memorie che noi facemmo dopo la
tragedia paterna e la demenza materna, ci spiegò perche nostro padre
attribuisse ad altri le proprie avventure. Egli non gradiva intanto che noi
avessimo per padre un corsaro, sia pure un corsaro che combatteva per difendere
una giusta causa, e poi, c'era tra le avventure di lotta, anche un'avventura
d'amore Miss Eva...
Egli scrisse nelle sue memorie: «Queste non dovranno
comparire in pubblico se non dopo la mia morte e la morte di colei che scelsi a
compagna della mia vita... Tutti comprenderanno il mio riserbo. E se nelle
conversazioni private io non feci mai cenno a questa parte veramente romanzesca
della mia vita, la ragione è chiara». Fu così che una lacuna di circa tre anni
si è sempre presentata nella vita che nostro padre ci raccontava: tre anni
durante i quali nessun parente sapeva dove Egli si trovasse. Egli scorazzava i
mari al servizi del rajah spodestato.
Miss
Eva.
Strana e nobile creatura! Donna capace dei più grandi
eroismi, compagna delle più rischiose avventure, anima virile in un corpo di
fanciullo. Pronta alla vendetta ed alle generose riscosse. Egli l'aveva
conosciuta durante un abbordaggio operato da Tremal-Naik su di una nave
inglese, e cioè su di una nave nemica, per impossessarsi del rame e dell'ottone
che conteneva... Era impetuosa, ma d'animo generoso. Volle anche lei conoscere
Sandokan e mio padre l'accompagno nella sua splendida caverna dove l'ex-rajah
le regalò un monile prezioso. Ma la superba inglesina era attesa al varco da un
crudele destino. Ella volle accompagnare mio padre nelle foreste indiane e la
febbre l'assali insidiosa e mortale.
«Il tramonto era disceso rapido — scrisse mio padre. —
Sostammo in una breve radura, nell'intento di passarvi la notte. Tutte le
precauzioni furono prese per allontanare il pericolo di aggressioni da parte
delle belve. I Tigrotti vegliavano. Miss Eva era coricata al mio fianco e
cercava di dissipare il tormento che mi assaliva. Le sue carni bruciavano ed il
suo respiro si era fatto affannoso e quasi rantolante. Questo rantolo pareva
riempire del suo ritmo terribile l'intera foresta.
— «Non morire... Non morire, cara Eva mia —
esclamavo, inginocchiato, vicino a lei. La febbre frattanto aumentava... pareva
divorasse rapidamente la bella creatura... Avrei voluto infonderle la mia vita,
darle tutta la mia giovinezza per salvarla. I Tigrotti avevano abbandonato i
loro posti di guardia e si erano affollati attorno alla morente. Era sorta
l'alba, il coro gaudioso degli uccelli era successo agli ululati delle belve.
Io fissavo il caro viso che diveniva sempre più bianco. Ad un tratto la
fanciulla amata fu scossa da un tremito, ella voltò gli occhi, torse la bocca,
poi si irrigidì lentamente... Mi immersi per lungo tempo in una tacita
preghiera... Nel cuore della foresta divoratrice e la sua tomba... intagliata
in una scorza d'albero, scrissi: «Eva Stevenson prega per noi».
Avventure
intensive.
Colla morte di Eva Stevenson non si diradarono le
avventure del difensore di Sandokan; esse diventarono anzi più intense e
drammatiche. Ormai pareva molto difficile la possibilità di ridare al rajah
spodestato, il suo trono. Il «praho» che i suoi compagni hanno raggiunto, in
una tremenda bufera che imprime nella mente di mio padre la terribile
grandiosità delle collere oceaniche, si sfascia contro la costa. Una
cinquantina di Tigrotti periscono miseramente nella paurosa catastrofe. Mio
padre, Tremal-Naik, Kammamuri si salvano; ma per trovarsi subito in mezzo a
nuovi ed incalzanti pericoli. I soldati coloniali olandesi ed inglesi non
desistono dal compito loro assegnato nella foresta che lascia poche possibilità
di salvezza ai generosi compagni di Sandokan. Una orrenda fine li attende: la
impiccagione. Al pericolo dei tenaci accerchiatori, si aggiunge quello delle
belve. Le «bag» sono numerose ed occorre il coraggio e la furberia dei pirati
malesi per liberarsi da loro. La vita nella foresta diventa ogni giorno sempre
meno sicura nonostante l’audacia degli accerchiati, mio padre è inoltre
insidiato dalla febbre, e le conseguenze di questa si faranno poi ancora
tristemente palesi molti anni dopo, quando Egli si sarà formato una famiglia.
Nel
cerchio di fuoco.
Ma se era difficile salvarsi dall'accerchiamento dei
coloniali olandesi ed inglesi, si presentò ad un tratto impossibile uscire dal
cerchio di fuoco in cui improvvisamente si trovarono rinchiusi. La foresta,
attorno a loro, era in preda alle fiamme! L'accampamento di Sandokan, come
quello di mio padre, erano presi dentro ed ecco come i nemici facevano opera di
civiltà! E se i disgraziati non venivano arrostiti, correvano il pericolo di
venire divorati vivi; il fuoco li minacciava, le belve nel mezzo del cerchio
infernale urlavano spaventosamente. La situazione appariva disperata, ma il
destino non volle che mio padre perisse allora in quella tragica fuga nella
foresta incendiata; voleva per Lui però più tardi una fine altrettanto tragica.
Ad est correva un grande fiume che arrestò l'incendio verso quella zona; con un
seguirsi di sforzi inauditi, mio padre si salvò dalla infernale foresta e venne
raccolto sulla spiaggia, estenuato, dai marinai di un veliero francese. Per
vari giorni Egli non si era nutrito che di frutta selvatiche e per varie notti
non aveva dormito. Dove erano i suoi fidi compagni, i Tigrotti di Mompracem?
Egli non lo sapeva: li aveva perduti di vista quando essi come Lui, con enormi
fatiche erano riusciti ad attraversare il fiume su un tronco d'albero. L'incendio
aveva spinto una diffusa nuvola di fumo che gli impediva di vederli. Gli pareva
di aver udito un saluto di Tremal-Naik, ma non ne era ben certo. Appena
raggiunta la foce del corso d'acqua era stato gettato da un'ondata sulla
spiaggia e non sapeva esattamente spiegarsi come aveva potuto salvarsi...
Rifocillato dal capitano del veliero, Egli fu invitato a salire a bordo. Il
veliero fece rotta per Marsiglia e durante il viaggio Egli si rimise alquanto,
narrando all'equipaggio le sue avventure.
In tre anni, mio padre aveva
fatto una copiosa raccolta di avventure; ma ora si sentiva stanco ed un po'
disilluso, il pensiero di non aver potuto ristabilire sul trono il suo amico lo
pungeva come un rimorso. Anche in questo, Egli rilevava il suo inguaribile
donchisciottismo che lo aveva spinto a far causa comune con un perseguitato
dagli uomini. E gli rimase sempre una antipatia per l’Inghilterra. Antipatia, forse
ricambiata dagli inglesi, perché è soltanto in Inghilterra che le traduzioni
dei suoi romanzi non vennero sollecitate. Infatti soltanto tre romanzi sono
tradotti nella lingua di Albione. Le avventure che ho riassunto valsero per
anni ed anni a fornirgli argomenti di romanzi. Appena ebbe fatto ritorno a
casa, incominciò ad utilizzarli, gettandoli nel
crogiuolo della sua ardente fantasia. Ma valsero anche a guarirlo dal suo quasi
furibondo amore per le avventure e i pericoli, nei quali si era gettato con un
entusiasmo che pareva una follia, o quanto meno valsero a trasformare questo
amore procelloso d'avventure in una specie di mania di ridurle in miniatura
nella vita casalinga.
Come vedremo, questo mi sembra un lato caratteristico
della sua psicologia. Vedremo come il suo ingegno sapesse utilizzare
l'antica passione in intenti educativi e come creasse in giardino la «piccola
giungla» per risuscitare gli echi delle sue lontane gesta che forse si
presentavano alla sua mente come sogni di giovinezza più che come realtà
vissute.
Bonacce ed uragani in terra ferma
Un romanzo per... una focaccia.
Appena ritornato nella sua Verona si iniziò in Lui il
fenomeno da Lui chiamato della «conversione»; il bisogno cioè di convertire in
narrazioni romanzate il triennio avventuroso. Spontaneamente, e come per un
improvviso impulso di creazione, nasceva lo scrittore fantasioso che
trasformava ricordi e impressioni in pagine fitte e vertiginosamente tracciate.
Nasceva il tormentoso bisogno di scrivere.
«Ma — Egli osservo a tal proposito — il bisogno di
scrivere? Ecco una frase che per me va intesa in due sensi. Provai prima il
bisogno di scrivere per dare sfogo al tumulto di impressioni che avevo raccolto
durante la vita perigliosa. Ma poi il bisogno psichico diventò il bisogno
materiale: il triste bisogno di convertire le pagine scritte nel pane
quotidiano».
Successe invece che il primo romanzo, il cui successo
fu subito una affermazione di immediate presa sul pubblico, si convertisse non
in pane, ma in focaccia... Infatti esso venne pubblicato in appendice sulla
«Gazzetta di Vicenza» e il buon direttore non poté altrimenti compensarlo che
con una focaccia: e si trattava del romanzo «I misteri della Jungla nera».
— Il proverbio «pan per focaccia» si risolse al primo
romanzo in focaccia per pane.
Era però una bella e fantasiosa torta dove il
dolciere artista aveva disegnato una ferocissima tigre in zucchero filato. E
mio padre fu soddisfatto del dolce compenso accompagnato dalla ammirata
riconoscenza del direttore del giornale.
Un romanzo energetico.
Data da quel tempo il suo preciso e meditato
proposito di scrivere romanzi potenziatori di coraggio e di eroismo.
«Io avevo una profonda antipatia per quel genere di
letteratura che quasi tutti gli scrittori ammannivamo al pubblico giovanile di
quel tempo.
«I romanzi svenevoli, pieni di sentimentalismo, che
riempivano il mercato librario non servivano ad altro, secondo me, che ad
infiacchire sempre più quella parte di giovinezza italiana che mi pareva già
troppo fiacca ed inerte. I giovani avevano bisogno di libri che ritemprassero
in loro il senso virile, che li preparassero ad una vita ardimentosa, al senso
della liberta personale, che infondessero loro l'amore dei viaggi e delle
avventure».
Romanzo energetico. Questa concezione di romanzo
educativo del coraggio e del rischio in terre lontane trovò subito una
rispondenza entusiasta nella gioventù. Buon sangue non mente: gli italiani
avevano soltanto bisogno di un incitamento sotto forma di appassionate
narrazioni, di gesta compiute da personaggi simpaticamente avventurosi in lotta
cogli elementi malvagi e trionfatori nelle nobili cause per le quali partivano
in guerra. La sua opera rispondeva a tal bisogno, ed ecco perché si
affermò subito in un successo, quale mai ebbe alcun scrittore.
Salgari
giornalista.
Ma non bisogna credere che il narrare potesse
esaurire in Lui il bisogno di azione. Se aveva abbandonato l'idea di lanciarsi
ancora nel mondo in cerca di questi pugnaci, non aveva rinunciato a
difendere le buone cause. La sua vita giornalistica non fu lunga, come non fu
lunga quella di marinaio, ma fu altrettanto intensa. L'irredentismo era sempre
stato per la sua famiglia una appassionata tradizione; e vari episodi
caratteristici dimostravano che il donchisciottismo era in Lui più che
mai attivo. E si buttò al lavoro con la stessa frenesia con la quale si era
avviato alla vita marinaresca. Egli alternava la composizione dei romanzi
al lavoro giornalistico nelle sue diverse forme. E fu come vivace cronista che
Egli si batté in duello. Erano frequenti le polemiche fra l’«Arena » e
l'«Adige», altro giornale di Verona. La scherma era stata una delle sue
passioni e a giudizio di tutti si batteva molto bene; diplomi e medaglie erano
le sue testimonianze. Ed anzi scrisse:
«Ho sempre ritenuto che la scherma dovesse entrare in
ogni sistema educativo, questa nobile ginnastica stimola nell’uomo la facoltà
della pronta decisione, fortifica la volontà.
Essendo stato provocato con un ghigno di scherno da
un redattore dell’ «Adige», mio padre lo punì con un potente manrovescio, poi
con la stessa mano gli porse il biglietto di visita. Dopo quattro furiosi assalti,
il suo avversario cadde fra le braccia dei padrini: era stato ferito alla
fronte. Mio padre pagò la sua vittoria con cinquanta giorni di fortezza a
Peschiera, trascorsi a giocare partite su partite, con gli ufficiali di quella
guarnigione. Si dibatteva alle Assisi di Venezia un importante processo.
«Venni inviato dal direttore a farne il resoconto —
egli scrisse. — Terminato questo lavoro decidemmo con alcuni colleghi di
recarsi col postale da Venezia a Trieste. Appena sbarcati entrammo nel primo
caffè che vedemmo. Cinque ufficiali austriaci ci squadrarono con piglio
piuttosto insolente. Mi adombrai subito; lo sguardo di quel signori feriva
profondamente il mio buon orgoglio di italiano e ridestava i miei rancori atavici. Il mio pensiero corse come ad un simbolo
di odio alla Veronese Aschieri, che le pattuglie austriache in perlustrazione
avevano ucciso con una baionettata nel ventre, mentre la martire era prossima
ad esser madre! Un impeto di ribellione mi prese, il mio sentimento si trasmise
ai miei compagni. — Hanno riso di noi italiani, ridiamo di loro — proposi».
Mio padre così continuava a raccontare:
«Il cameriere stava recando la bottiglia che uno di
noi aveva ordinato. L'ufficiale austriaco intimò al cameriere di portare il
vino indietro. — Portate pirra, pirra e salame per questi mandolinisti
affamati.
«Rapidamente, come se avessimo ricevuto un ordine di
guerra, afferrammo le sedie che avevamo a portata di mano e le scaraventammo
addosso agli insultatori del nostro Paese.
«Subito le bottiglie volarono, il lume fu spento e
tra gli urli e lo scompiglio, qualcuno trasse fuori la pistola, mentre gli
ufficiali, impugnate le sciatole, cercavano di piombarci addosso tentando di
spaccarci la testa. Una detonazione... una vampa; uno di quei miserabili cadde
ferito. Fuggimmo precipitosi: ognuno cercò la via di scampo.
«Subito le bottiglie volarono, il lume fu spento e
tra gli urli e lo scompiglio, qualcuno trasse fuori la pistola, mentre gli
ufficiali, impugnate le sciatole, cercavano di piombarci addosso tentando di
spaccarci la testa. Una detonazione... una vampa; uno di quei miserabili cadde
ferito. Fuggimmo precipitosi: ognuno cercò la via di scampo.
«La mia, la trovai in casa di amici che mi tennero
nascosto per qualche tempo, finché, vestito da cacciatore, potei ritornare sano
e salvo a casa». L'impeto generoso del suo temperamento non si era attenuate
nel lavoro ricreativo: numerose furono le prove del suo ardire bellicoso per la
difesa del debole.
Amore
di... corsaro.
Ed ecco un nuovo sentimento: imprimere alla sua vita un corso
imprevisto: l'amore. Il ricordo delle piccole inglesine non era spento in lui,
né la tomba di miss Stevenson era dimenticata. Ma le due Immagini femminili
parvero fondersi nella sua mente nel viso di una fanciulla che il Destino gli
faceva incontrare nella sala del teatrino Aporti.
Nella volenterosa compagnia
di dilettanti che alla domenica recitavano commedie di Goldoni,
l'«amorosa» attrasse l'attenzione di mio padre.
«I suoi occhi ed il suo sorriso buono ed infantile,
avevano romanticamente colpito il mio cuore... Il fiero compagno dei Tigrotti
di Mompracem era divenuto un timido agnello dinanzi a quella bella e dolce
creatura.
«Ero un assiduo frequentatore di quelle serate, con
grande meraviglia dei miei colleghi che leggevano anche i miei articoli
elogiativi dell'«amorosa».
Questa, pur notando con una certa intima gioia quella
frequenza, non conosceva il nome dell'assiduo; quando finalmente mio padre si
presentò, Aida mando un piccolo grido di spavento. Sua mamma, quando la piccina
rubava la marmellata, minacciava di farla divorare dalle tigri di Mompracem, i
cui manifestini riempivano i muri di Verona… Ma lo spavento, graziosamente
simulato, non durò a lungo, e tra i due si accese ben presto un amore che si
concluse nel matrimonio celebrato il 30 gennaio 1892. E qui si inizia la nuova
vita di Emilio Salgari, che fu un continuo pellegrinaggio da città a città ed
una «via crucis» di sofferenze, alternate alle rare gioie che Egli sapeva crearsi
nell'ambiente familiare con la sua fantasia sempre pronta a nuove trovate per
divertirci.
Egli aveva allora terminate il suo secondo romanzo:
«il re della montagna». Aida, la mia mamma, lo aveva letto, ed essendo
entusiasta delle gesta di Nadir, l’audace protagonista, desiderò che tale nome
fosse imposto al battesimo del primo bimbo che fosse venuto ad allietare la
casa. Mio padre fu ben lieto di accettare. Raggranellata una piccola somma, gli
sposi si portarono a Torino, prima meta del nuovo vagabondaggio paterno. Nacque
Nadir; e qui voglio accennare ad un fatto assai interessante per colore che
credono, ed io sono fra quelli, che il pensiero della madre, durante l'attesa
del lieto evento, influisca sul nascituro. Crescendo, Nadir acquistava le fattezze
e la fisionomia che mio padre aveva ideato per il suo « Re della montagna » e
che si erano impressi nella mente della mamma. I genitori ne trassero un lieto
auspicio per il buon destino del loro Nadir. Ma, ahimé, il destino a volte
terribilmente ironico, stava in agguato sui passi di Nadir, che, alcuni anni or
sono, fu vittima di una disgrazia stradale. Nacque un anno dopo Fatima, e mio
padre senti il bisogno di mutare soggiorno: aveva la sensazione che rimanendo
nello stesso sito, la sua fantasia si inaridisse. La campagna lo attrasse e
Cuorgnè, un ridente paesello del Canavesano, lo ospitò per qualche tempo: ma
nemmeno a Courgnè seppe fermarsi. Egli volle almeno che della sua antica
passione del mare gli fosse concesso almeno di udire la voce: e si stabili a
Sampierdarena. I momenti che Egli poteva avere di riposo, li trascorreva
contemplando il mare che la sua fantasia popolava, non di piroscafi ma di
giunche e di praho.
A Sampierdarena Egli concepì una considerevole
quantità di trame che poi svolse per mantenere il contralto allora stipulato
col Donath di Genova. Donath fu il suo primo editore, ed Egli dovette accettare
lavoro per un compenso non certo lauto ed a condizioni alquanto umilianti.
Dovette impegnarsi a scrivere solo per lui, col compenso anno di lire 3000. Il
contratto lo costringeva a lavorare giorno e notte poiché si era impegnato a
consegnare tre volumi all'anno e a dirigere il giornale «Per terra e per mare».
«L'editore mi lanciò, è vero, con sfolgoranti
copertine — Egli scrisse nelle sue memorie — ma egli vendeva copie su copie ed
io... io mi assillavo a scrivere cartelle su cartelle perché il pane non
mancasse».
Si attendeva un nuovo lieto evento, la culla era
preparata. Ma il destino, come a provare che non gli avrebbe mai date requie,
si manifestò sotto forma di una inondazione, che portò via la culla e molte
preziose carte paterne... Nacque Romero e fu collocate in una culla di fortuna
(per usare l'espressione corrente); ma quale terribile ironia! La fortuna fu
pure avversa a Romero, che perì tragicamente, dopo aver difeso la Patria, a
Torino. Mio padre non volle più rimanere a Sampierdarena e si stabilì nella
città sabauda... La sua fama si spandeva in celebrità: ma con un ritmo ben
diverso, procedevano i guadagni. Fortunatamente modificò le condizioni con
Donath, in modo da lui ottimisticamente considerate rilevante. Percepiva 4000
lire all'anno per tre volumi, la cifra sarebbe stata discreta se Egli avesse
dovuto mantenere solo se stesso; ma eravamo ormai in sette e con 333 lire al
mese, non vi era gran che da scialare. La mamma diceva: «Non farti l'idea,
Emilio, che noi si possa coi romanzi fare i bagni nello sciampagna». Bisognava
aggiungere che Egli doveva per di più pagare una percentuale all’intermediario
che gli aveva procurato l'affare. Ed ecco spuntare all'orizzonte il Bemporad,
che ambiva di farsi editore dei romanzi di mio padre e che lo indusse a rompere
il contratto col Donath. La rottura costò a mio padre lire 6000 di penale, che
il Bemporad pagò... trattenendosi poi l'importo a poco a poco sulle lire 8000
che avevano insieme contrattate per tutto il 1912. In complesso, tra romanzi e
novelle, mio padre percepì in tutta la sua travagliata esistenza lire 87.000. E
un solo volume di Lui fruttò parecchi milioni. Egli, avrebbe anche voluto
pensare al teatro, sceneggiando qualcuno de' suoi romanzi, ma gliene mancò il
tempo. Ed uno strano fenomeno si manifestava in Lui. In quel tempo la sua
facoltà immaginativa pareva aumentare col progredire della carenza pecuniaria.
Ma doveva impiegarla intatta nella composizione dei romanzi. Tuttavia amava
scherzare sul tema dei guadagni.
«Si nasce
col destino delle tasche che avremo — Egli diceva. — Chi nasce colle tasche che
attirano dentro i soldi, chi nasce con quelle che li respingono».
Mi torna in mente la risposta che mio padre diede ad
un libraio. Il libraio diceva:
— Salgari si vende come il pane! Ed Egli rispose:
— Ma il pane che Salgari ne ricava è assai duro da
masticare.
Scherma
ed aeronatica.
Altro spettacolo esibito da mio padre era la partenza
di un pallone di carta in ogni suo onomastico. Egli seguiva deliziato
l'areostato finché non spariva ai suoi occhi e quando il pallone non
s'incendiava ne traeva un buon auspicio. Ma il più gran divertimento per tutta
la famiglia, era lo strano cerimoniale ordinato da mio padre quando qualche
visitatore si preannunziava. Noi ci ritenevamo tutti impegnati a riceverlo,
schierati in ordine, fioretti e sciabole sguainate, pronti ad offrire un saggio
della nostra bravura schermistica. A noi si univano pure la mamma e la donna di
servizio, anch'essa armata. E la gara schermistica, eseguita con vivacità e
calore, era commentata da mio padre colpo per colpo. La mamma rivelava nel
combattere energie ed irruenza che facevano meravigliare papa. Nel combattere,
Egli assumeva la personalità di qualche suo personaggio ed il giuoco
schermistico, nel crogiuolo della bollente fantasia, operava in Lui una
trasformazione persino fisica che illudeva noi e forse Lui stesso. La scherma
pareva eccitare il suo potere creativo: dopo una simile ginnastica si sentiva
di maggior lena per combattere le sue battaglie colla penna scheggiata sul
tavolo claudicante.
Esplorazione.
Erano i giorni in cui gli esploratori, per
dimostrargli la loro simpatia, lo invitavano a far parte di spedizioni
scientifiche. Egli doveva con gran rammarico declinare ogni volta l'invito. E'
facile immaginare quanto Egli avrebbe desiderate invece di accettarli quegli
inviti che rispondevano ai suoi cocenti desideri. Ma il pensiero della famiglia
era una catena che lo teneva avvinto al tavolo da lavoro.
— Chi pensa ai miei figli? — Egli chiedeva. E con la
morte nell'anima rispondeva che le condizioni della sua salute non gli
permettevano di accettare. E dopo seguiva giorno per giorno col pensiero il
viaggio degli esploratori, disegnandone sulla; carta qualche immaginato
episodio.
— In questo modo mi sembra d'esserci anch'io con
loro.
Fu cosi che scrisse la «Stella Polare», ispirato
dalla spedizione del Duca degli Abruzzi, ed il libro uscì prima che essa
ritornasse; molti episodi vi sono stati divinati. Erano i tempi in cui ogni
sera ci raccontava un capitolo della storia di «Mago-Magon», che ora io ho
radunato in parte in due volumi editi dalla Paravia, mentre ora ne preparò un
terzo. Egli per anni ed anni continuò ad improvvisare le vicende del principe
nato con la barba e fatto portare in un'isola, a cui un principe falso aveva
rubato il trono... La sua immaginazione leggeva, nelle nuvole del fumo, la
vicenda e noi lo si stava ad ascoltare in meravigliata attenzione... Amava
molto scherzare, nel tempo della «bonaccia». L'oca portava via a papà il
tabacco e sembrava che lo facesse per far piacere alla mamma che diceva:
— Non e poi tanto oca, la bestia. Si preoccupa della
tua salute e lo fa per darti una lezione di igiene.
— No, cara. E' invidiosa che io fumi. Ma se mi ruba
un'altra volta il tabacco la faro fumare io... nel girarrosto.
Per godersi un po' di mezza montagna, si era recato
ad Alpette Canavese. I villeggianti se lo contendevano per conoscere da Lui in
qual modo riusciva a scrivere tanti romanzi.
Egli rispondeva che avrebbe rivelato il segreto nel giorno della sua partenza.
Tutti attesero impazienti e quando il giorno della partenza avvenne, Egli salì
in carrozza. I villeggianti s'erano assiepati attorno coprendolo di fiori e
gridando:
«Il segreto! Il segreto!».
Mio padre prese una posa da profondo pensatore e poi
disse:
— In qual modo scrivo i miei romanzi? Non propalate
il segreto. Io scrivo con la penna e l'inchiostro marca Salgari
- «Adelante Petro, con juicio».
E diede il via al vetturino fra allegre risate che lo
seguirono accompagnate da applausi. Era un inguaribile fumatore di sigarette.
Ne fumava cento al giorno e perciò era molto parco nel mangiare. Diceva che il
fumo nutrisce. Ma soggiungeva:
— Meno però il fumo della gloria.
Cento altri aneddoti potrei raccontare riferenti
al tempo di bonaccia in cui amava scherzare, pure nelle strettezze in cui ci
trovavamo.
Bufera.
Tempo di bonaccia. Sul tavolino beccheggiante, mio padre navigava
nel mare favoloso delle gesta corsare. Per riposarsi sapeva trovare nella sua
fantasia spicciola un diversivo al problema quotidiano di nutrire la famiglia;
ma col crescere degli anni e coll'intensificarsi del lavoro, meno retribuito
quanto più copioso, la felice facoltà di ravvivare intorno a se una vita
familiare sempre più combattuta dal bisogno, incominciò ad affievolirsi e finì
per cessare del tutto. La casa divenne fredda e triste, la nostra stessa
gaiezza monellesca si spegneva attorno al focolare semispento ed al desco
magrolino. Affievolendosi la facoltà di illudersi in giochi ed avventure in
miniatura non si affievoliva però in Lui la forza ideativa nel creare sempre
nuove trame di romanzi.
C’era nel suo animo una forza che lo sorreggeva nel
lavorare come un galeotto ( «galeotto della penna», si chiamava infatti Lui
stesso ) e questa forza era l'amore per noi. Non ci avrebbe più divertito con
le sue continue trovate, ma ci avrebbe almeno nutrito. Finivano le scampagnate
ed i campeggi in collina, dove passavamo l’intera giornata simulando a noi
stessi la giungla e dove mio padre preparava Lui stesso i pasti «alla
Sandokan». Non partivano più i palloni di carta nel giorno onomastico Suo, liberati
a volo col grido: «Va a salutare il Presidente del Paraguay». Ma Egli
continuava a trarre dal cervello sempre rinnovati spunti di romanzi per «la
cassetta misteriosa» e per non venir meno al contratto coll'editore di Firenze
che gli sollecitava l’invio dei capitoli.
Che cos'era la «cassetta misteriosa»?
Mio padre l’aveva costruita Lui stesso parecchi anni prima, quando
ancora si divertiva in piccoli lavori manuali. E costruendola diceva:
— Qui troverete il tesoro del «Corsaro blu».
Cosa Egli vi nascondesse dentro non lo sapevamo
allora; misteriosamente mio Padre manipolava la cassetta portandola poi su un
armadio, come cosa sacra.
Ospiti inattesi.
La curiosità ci spingeva a conoscere ciò che
conteneva la cassetta ed in che cosa consistesse il tesoro del «Corsaro blu».
Un giorno mi decisi a violare l'ordine paterno di non frugare nella cassetta,
volevo sapere il motivo di un ordine così perentorio e magari, per essere
sincero, volevo prelevare qualche spicciolo dal Tesoro del Corsaro... Salii
sopra una sedia e rimasi preso da insolito timore; avevo udito una specie di
zufolio partire dalla cassettina: mi pareva anzi un canto d'usignolo.
«Che mio padre, innamorato del cantore notturno, ne
abbia chiuso uno nella cassetta?» mi domandai. Non mi pareva molto
probabile. Comunque mi feci animo e mi impadronii del «Tesoro del Corsaro blu».
Sollevai con grande cautela il coperchio e mandai un grido. Il «Tesoro del
corsaro» consisteva in una intera famiglia di topi che si era allogata nella
famosa cassetta. Non tardai a comprendere come si nutrisse quella disgraziata
famiglia: si nutriva precisamente come la nostra: di romanzi. Mio padre aveva
accumulate nella cassetta una rilevante quantità di trame inedite col proposito
di svilupparle più tardi, quando il suo cervello fosse inaridito d'invenzioni.
Ecco alcuni titoli di pretto stile salgariano, «I naviganti del Krusenter», «La
valle dell'oro», «La testa di Mirza Abassi», «Il figlio della prateria», «Il
bandito rosso», «La scimitarra di Kien-Lung», «Il re di Mahara», «Sindhia il
feroce», «L'indiana dei monti neri», «I ribelli della montagna», ecc., ecc. I
topi, senza lasciarsi punto impaurire da codesti titoli minacciosi, avevano
rosicchiato buona parte delle cartelle; le trame, in qualche punto, hanno
lacune che occorre riempire. Egli dava grande importanza a queste trame; le
considerava un vero tesoro. Ed infatti, a leggerle, coll'aiuto d'una
lente, si è subito avvinti da un interessamento vivo, turbato però dal
rammarico che mio padre non abbia potuto svilupparle. La collana salgariana
manca ancora di parecchi inediti, interessanti romanzi.
Nubi all'orrizonte.
Di giorno in giorno il cielo pareva addensarsi sopra di noi
di nere nubi, nonostante I'ammirazione che sempre più calorosa gli dimostravano
i suoi lettori. Egli riceveva migliaia di lettere entusiaste da lontani paesi;
giovani che gli confessavano d'aver trovato nei suoi libri un incentivò a
diventare audaci; uomini maturi che si rammaricavano di non averlo letto prima
altrimenti non si sarebbero adattati alla vita sedentaria. Riceveva però anche
lettere di mamme che lo rimproveravano d'aver allontanato da casa i loro
figliuoli. Egli leggeva tutto ciò distrattamente; un pensiero lo teneva con
crudele tenacia avvinto a se: il pensiero che presto la stanchezza gli avrebbe
impedito ogni lavoro e noi saremmo restati senza aiuto... Non leggeva mai libri
di versi; ma, chissà come, ne ricordava alcuni di Pascoli e spesso ripeteva
come una specie di preghiera: «Non manchi loro il pane mai, ne il tetto».
Era il verso della sua ossessionata paura; il verso
pascoliano che nasce dal cuore di ogni padre povero, quando vede l'orizzonte
incupirsi e la bufera urlare nella casa minacciandone la prossima rovina.
Tragico epilogo
L'ossessione della cecità.
Non è frequente, a quanto mi diceva un medico, negli individui a
fervida fantasia, che essi si creino immaginarie attribuzioni o si faccian
vittime di terribili catastrofi. Tanto più se hanno qualche tendenza
all’indebolimento della vista. E mio Padre si trovava in tali condizioni.
L'ossessione era giunta al punto di svegliarlo nella notte; e, se questa era
nerissima e non gli permetteva di scorgere il più tenue bagliore, Egli sudava
freddo, soffocava un grido e con mano tremante cercava sul tavolino i
fiammiferi. Chiedeva alla luce azzurrognola dello zolfino una smentita al suo
terrore. Quale liberazione! Egli avrebbe ancora riveduto i suoi cari, le cose
attorno a Lui: riveduto i colori del mondo, tuttavia bello nelle sue tristezze!
Nonostante queste prove notturne, l'ossessione della cecità non lo abbandonava:
«Non è stata la notte scorsa. Ma se fosse in questa?». E ricominciava a
smaniare e ad accendere zolfini. Noi cercavamo di scherzare su tale mania; la
mamma lo rimproverava di consumare troppi fiammiferi per una mania. Ma Egli non
guariva. L'orrore di sprofondare nella notte buia non lo ghermiva se non per il
terrore di non poter più procurarci il pane. E l'ossessione alimentava in Lui
la angoscia per il prossimo avvenire. Sapeva il mondo inesorabile per chi non è
più in grado di lottare, sapeva che tutta la sua opera in cento e più volumi,
nulla più avrebbe potuto cavare dagli editori. Ma ciò che soprattutto lo
stringeva d'angoscia crescente di giorno in giorno era il vedere la
povera nostra mamma soffrire per Lui le pene dell'inferno; era il
vederla anche Lei ossessionata da un orrore simile al Suo. Il fantasticare ed
il sognare ora a nulla più valevano per fargli scordare il martirio quotidiano.
Egli si sentiva ora incapace di procurarsi quelle evasioni dello spirito che lo
libravano un tempo al disopra della realtà. Il destino si agitava minaccioso
alle spalle della mia mamma. Questa appariva di giorno in giorno sempre più
strana ed irascibile. Era prima una donna di corporatura quasi erculea; ma la
sua indole si mostrava mite, paziente, arrendevole. Ora invece veniva assalita
da collere improvvise durante le quali si esplicava la sua forza davvero prodigiosa.
Stringendo in quegli accessi un bicchiere, riusciva a frangerlo. E per nulla le
si accendevano quegli improvvisi impulsi che ci spaventavano e che gettavano
sempre più ineluttabilmente mio padre nella disperata ossessione. Il medico di
casa si mostrava assai inquieto del comportamento di nostra madre e disse
francamente che occorreva metterla in condizioni di non nuocere a se stessa e
agli altri. In una parola, che occorreva ricoverarla in una casa di salute. Fu
questo un nuovo incentivo alla disperazione del padre mio. Una casa di salute!
Occorrevano danari per godere il privilegio di entrare in una casa di salute.
Ed Egli, l'autore di cento e più romanzi a strepitosa tiratura, non ne aveva!
Bisognava mandare la fedele e buona compagna della
Sua vita al manicomio, nel reparto dei poveri relitti dell’umanità.
D'improvviso gli balenò alla mente il panorama della Sua vita, la
spensieratezza con la quale Egli aveva ceduto la sua opera agli ingordi per il
Suo ingenuo sprezzo del denaro: nobile impulso del suo animo, ma imprevidente
generosità di padre di famiglia. Si vide ad un tratto un povero sognatore di
palazzi incantati che alberga in un tugurio, un maraja sfarzoso di gemme ed
oro, che va a mendicare nella realtà della vita... Si vide, Lui, il coraggioso
«pirata» di Sandokan, lottare vanamente contro i pirati insigniti di commende e
soccombere. La compagna della Sua vita entrò nel manicomio per carità e questo
lo offese più di qualunque ingiuria. La casa rimase priva di Colei che si gran
tesoro di bontà e di pazienza aveva speso per noi tutti, di Colei che sapeva
soffrire in silenzio perché noi non avessimo il dolore di vederla soffrire.
Dapprima non riusciva più a mettersi al lavoro; buttava la penna premendosi le
tempie dolenti e si immergeva in un'atona costernazione. Ma, nuovo e per noi
inesplicabile prodigio, una calma solenne, una calma maestosa direi, successe
improvvisa alle manifestazioni della Sua costernata anima per la demenza della
nobile donna. Riprese la penna e si rimise pochi giorni dopo a scrivere colla
solita rapidità. Fatima, che andava sempre ad augurargli buon lavoro, era
entrata in silenzio nella camera e stava osservandolo. Erano sul tavolo; in
luogo delle solite grandi cartelle bianche da riempire, parecchi fogli di carta
da lettere. Fatima, si avvicinò. Ma Egli l'udì e n'ebbe un leggero sobbalzo;
smise di scrivere facendole un vago cenno che uscisse, poi, si rimise a
scrivere. Mia sorella gettò gli occhi sul tavolino e vedendo tante lettere,
disse in tono scherzoso:
— Scrivi a tutte le tue morose, papà? Ne hai un bel
numero!
— Perche Fatima?
— Non t'ho mai veduto scrivere tante lettere.
— Ebbene, ora mi vedi, Fatima. Ed hai detto giusto;
scrivo alle mie morose. Cosa vuoi sapere ancora?
— Quante sono, papà?
Egli la guardò in silenzio. Poi riprese, abbozzando
un sorriso:
— Sono tante... più di una dozzina.
E poiché Fatima rideva, Egli soggiunse:
— Ma sono morose che mi aspetteranno un bel pezzo
all'appuntamento. Ora vai dai tuoi fratelli e lasciami in pace.
Non aveva compreso; quelle parole erano state
pronunciate con tanta tranquillità che la povera ragazza non ne poté sentire
l'ironia.
— Più di una dozzina — aveva detto. Le lettere che
stava scrivendo erano tredici.
Un'esistenza
fallita.
«Ho fallito la mia vita» — cosi ,Egli disse quando portarono
all'ospedale del pazzi poveri — i poveri sono sempre pazzi — la nostra
mamma.
— «No, Babbo! Tu non hai fallita la tua vita.
Tu sei un vittorioso. Hai saputo infondere nelle giovinezza italiana il
generoso impulso alla conquista, l'ardire che sfida ogni ostacolo, il nobile
sprezzo della vita comoda, l'audacia che, se necessario, diventa temerarietà.
Tu hai preparato l'animo di due generazioni. Tu sei un vittorioso. Le tue
pagine hanno potenza di volontà che equivale a volontà di potenza ed hanno
sbozzato il carattere degli italiani. Il verbo è azione; il verbo eroico è
azione eroica che guida alla vittoria. Preparando l'animo ai vittoriosi Tu
fosti un vittorioso.
— Non hai fallito la tua vita, padre mio! Hai insegnato
a lottare col Destino, e Tu stesso non ti sei arreso che per vincere ancora
dopo la tua vita. Perché è la tua vittoria ad insegnare, oggi e sempre, che il
coraggio «uno se lo può dare, quindi se lo deve dare». Tra i pochi libri che, a
mia conoscenza, Egli aveva meditato, vi è I promessi sposi.
Qualcosa però lo urtava in questo libro da Lui amato;
una frase, una semplice frase che molti lettori potevano interpretare in senso
troppo donabbondiano. Ed è la frase del tremebondo curato all'arcivescovo
Borromeo — «Uno il coraggio non se lo può dare». Mio padre vedeva il pericolo
che troppi lettori la ritenessero l’espressione di una verità e che per
comodità egoistica l'adottassero. Era per Lui una frase nociva. — Essa — diceva
— delineando il carattere di Don Abbondio, in un certo modo la scusa, concede
alla viltà delle circostanze attenuanti. Bisogna far diventare positiva la
frase negativa di Don Abbondio». E ad un giornalista che lo interrogava Egli
aveva detto:
Troppi
Don Abbondio.
«In Italia ci sono troppi Don Abbondio; troppi che
altro non vedono, se non il proprio comodaccio, che diventano vili a furia di
pensare a loro stessi. Questi Don Abbondio, per farsi perdonare la loro viltà,
pensano e dicono che «uno il coraggio non se lo può dare». Ma questa e una
menzogna da rammolliti, da «schiva pericolo», da ignari. La verità e che «uno
il coraggio se lo deve dare». Partendo da questo principio, Egli soggiungeva
che l'educazione dei ragazzi era troppo pavida, che bisognava metterli
quotidianamente di fronte a qualche pericolo, giudiziosamente dosato, per
conferir loro la consuetudine di infischiarsene e di vincerlo. Mio padre e
sempre stato coerente a tale principio. Egli non s'impensieriva mai dei nostri
vivaci acrobatismi che compivamo sugli alberi del giardino, su pei balconi ed
il tetto della casa, dei nostri continui pugilati e delle nostre ammaccature.
Le ecchimosi erano per Lui «le timbrature che attestavano il nostro coraggio».
Ma quando ritornavamo a casa battuti e sconfitti ci faceva restare senza
frutta. Tutta l'opera sua fu scritta sotto l'impeto d'una passione intesa a
veder tramutata l'Italia in un miracolo. Ma io sento una voce che mi dice:
«Non ho avuto la sepoltura dove desideravo».
Mio padre esprimeva spesso un desiderio che fu il
simbolo delle sue aspirazioni e del Suo immense amore del mare.
«Vorrei che la mia salma venisse chiusa in una
ermetica cassa di vetro e questa calata in fondo al mare».
La vita incomincia nel mare, la vita finisce nel
mare, tale e il ciclo assegnato al nostro pianeta dalla natura. Egli vedeva
cogli occhi della sua accesa fantasia la Sua spoglia mortale nelle profondità
abissali; Lui aveva le mani in croce sul petto nudo e la cassa scendeva,
scendeva negli abissi salutata dal popolo marino, scendeva portando l'adorato
«re del mare», nelle misteriose profondità.
«Sarebbe la più bella sepoltura per me» — egli diceva.
Padre, qualche cosa di te, e pur sceso nel mare. Se
non fu concesso a noi, tuoi figli, di farti seppellire la sotto, una parte della
tua opera vi e scesa. Ed e cosi, infatti. Un editore siciliano, ostinandosi a
non riconoscere i nostri diritti d'autore, venne condannato a far gettare in
mare duecentomila copie delle novelle Salgari, abusivamente rimaste in
magazzino... Una parte della sua opera andò a disperdersi nelle profondità
marine; presenti i rappresentanti della legge.
La croce miracolosa.
Andavamo con Lui a raccogliere fiori in quello
spiazzo, su per la collina. Ho voluto rivederlo... Ma non ci son fiori in
questa stagione, la collina è coperta di neve, il passaggio e un desolate
abbandono. Vedo due ragazzi scendere, scendere a rotta di collo sulla loro
slitta, i visi rossi dal freddo, splendenti di orgogliosa fierezza. Mi vedo al
loro posto, su uguali slitte di fortuna, fabbricate cogli sportelli degli
armadi di casa... Scomparivano in una curva con gridi
selvaggi di ebbrezza. Uno stringimento di cuore mi fa ansare, una mano
invisibile vorrebbe fermare la mia salita.
— « Perché, Omar? Ciò che hai in fondo e inutile
sentimentalismo»...
No, papà. E' il bisogno prepotente di riprendere le
forze per la lotta faticosa che debbo ancora sostenere contro coloro che ti
hanno fatto soffrire. Vedrò, è vero, pochi metri di spazio coperti di neve,
cento altri posti della collina rassomigliano a questo, non v'e un segno che lo
distingua, ma lo ritroverò... Un senso di orientamento si forma nella
profondità del dolore. Ad ogni passo affondo i piedi nella neve per la
boscaglia stecchita; l'invisibile ago calamitato, mi segna il cammino. Ecco lo
spiazzo dove andavamo a raccogliere i fiori per la mamma. Nessun segno, ho
detto? Chi ha segnato sulla neve intatta una perfetta croce? M'avvicino al
segno miracoloso, mi chino e con la mano non ben sicura, lo tocco. Sento sotto
le dita qualcosa di resistente, tolgo un po' di neve. Il mistero è svelato. Due
rami cadendo dagli alberi han formato una croce, altra neve poi è caduta,
coprendola, ma lasciandone visibile la forma. La coperta del mistero non ha
distrutto il miracolo per me. La croce segna il luogo dove più vivaci
occhieggiavano i fiori selvaggi, dove più iridescente era la tavolozza che
incantava mio padre, dove fu rinvenuto
l'ultima volta in un sonno senza risveglio.
Una furia di vento ha certamente staccato le due
braccia stecchite dall'albero e le ha disposte in croce sul terreno. Mi
appoggio al tronco di un albero. Tra pochi mesi i fiori rispunteranno
multicolori, coprendo la croce, creeranno attorno ad essa l'iridescente
tavolozza. Io benedico la ventata che ha formato il pio segno del Crocifisso.
Anche nelle azioni della natura che non sembrano più vane e capricciose vi è
una volontà intelligente che li guida. Cosi io credo. Cosi io credo che in una
notte ventosa qualche invisibile spirito abbia divelto dagli alberi i due rami
per farne un segno all'unico superstite d'una famiglia colpita dal destino.
Rimango a lungo appoggiato all'albero. La giornata e fredda, ma io sento nelle
vene il sangue ribollirmi...
No, padre: non hai fallito la tua vita.
Questa croce di fortuna segna una tua vittoria. Gli
italiani di oggi ti amano come ti amarono i loro padri. Tu dirai ancora alla
generazione che sale la tua parola che suona audacia ed eroismo. Ridiscendo al
piano. I due ragazzi slittanti giù per la collina fanno ritorno trascinando i
loro ordigni...
Essi faticheranno ancora una volta a risalire per la
gioia di riprendere la discesa vertiginosa.
E' la vita.
FINE
§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§
[1]
Se tutta la narrazione della vita di Emilio è ingenuamente fantastica ( tranne,
naturale, negli ultimi drammatici anni di vita ), questa della leggenda
famigliare narrata dal padre acquista una realtà storica. Ricerca di Marco
Pugacioff. Leggete qua di seguito:
Da: Biografia
universale antica e moderna
Compilata in Francia
da una società di dotti
Volume X.
Venezia MDCCCXXIII
SALGAR (
Modhafer-Eddyn ),
figlio
di Maudud al-Salgari, fu il fondatore della dinastia dei Salgaridi di cui i
principi hanno portato anche il titolo
d'atabek, che loro era comune
con altri principi contemporanei ( V. Yldekhouz e Zenghy ).
Apparteneva
alla tribù turcomana dei Salgari, che avevano fermato stanza nel
Farsistan, l’anno
450 dell’egira ( 1058 di Gesù Cristo ),
allorché quella provincia della Persia fu conquistata dal sultano
selgiucida Alp-Arslan, cui avevano probabilmente seguito ( V.
Alp-Arslan ). Vi rimase
soggetto per ottanta e più anni, alla dominazione dei Selgiucidi; ma nell'epoca della decadenza di
quella potente dinastia sotto il regno del
sultano Mas'ud Abu'l Fethah ( Vedi tale nome ).
Salgar, chiamato altresì Sankar, si oppose al principe Melik Chah
che si recava a governare il Farsistan in nome di suo
zio, e riuscì a cacciarlo, l’anno
543 ( 1148 ). Tutto ciò che si sa di Salgar è che fu
giusto e prode; che rassodò la sua dominazione nel Farsistan; che abbellì
Sciraz di parecchi monumenti utili, e che morì nel 556 ( 1161 ), dopo un regno
di tredici anni. Gli successe suo fratello Zenghy il quale, fermata la pace coi
Selgiucidi fu confermato nel possesso de' suoi stati dal sultano Melik-Arslan (
V. tale nome ).
Il
quinto principe salgarida, Abù Schondjah Saad, figlio di Zenghy, non ebbe pari
in valore ed in generosità. Conquistò il Kerman, che era stato tolto ad un ramo dei Selgiucidi. S'impadronì pure d'Ispahan,
di cui trasferì i principali abitanti a Sciraz, come ostaggi. Con una mano di
prodi, osò affrontare l'esercito dei Karizmiani, che era entrato nell'Irak,
l’anno 614 ( 1217 ); ma il suo cavallo essendo caduto, fu fatto
prigioniero. Il sultano Mohammed ( V. tale nome ), ammirando la sua
intrepidezza, lo rimandò libero e colmo d'onori, e fece sposare a suo
figlio Djelal-eddyn Mankbrny ( V. tale nome ), la figlia di esso principe.
Saad, ritornando nella sua capitale, fu assalito da suo figlio Bakla Klan o
Kotlù Khan Abuhekr, che si era ribellato. Lo vinse, e lo tenne chiuso sette
anni in una fortezza. Regnò ventinove anni, rese la Persia felice e fiorente, e
morì nel 628 ( 1231 ).
—
Suo figlio Abuhekr, non ostante il fallo in cui l’ambizione l’aveva strascinato
fu il degno successore di suo padre. Soffocò nella Persia meridionale gli
ultimi fermenti delle fazioni e delle guerre civili, che avevano durato
duecento anni. Trionfò di tutti i suoi nemici, soggiogò Bahrain, El-Calif e
parecchie altre isole e provincie del golfo Persico. Le persone di merito
accorrevano da tutte le parti alla Sua corte. Assegnava pensioni non solo ai
dotti ed ai letterati de' suoi stati, ma altresì a quelli de' paesi stranieri.
Perciò il suo nome era sparso e rispettato in tutto l’Oriente; e si diceva per
lui la kothbah, in varie contrade dell'India. A lui dedicò il poeta Saadi il
suo Gulistan ( V. Saadi ). Abubekr fondò e riparò, tanto a Sciraz quanto
in altri luoghi, un grande numero di moschee, di collegi, d'ospitali e di caravanserai.
Morì dopo un regno glorioso e fortunato di trent'anni nel 658 ( 1260 ).
L’undecimo
ed ultimo sovrano della dinastia dei Salgaridi fu la principessa d’Abubekr. Fu
messa sul trono dopo la deposizione e la morte di suo cugino, Seldjuk Scah,
l’anno 662 ( 1264 ), per la protezione del khan dei
Mogoli, Hulagù, di cui sposò un figlio, Mangù-Timur. Portò il tadj o corona per
vent'anni, col titolo d'Atabeka; ma gli stati dei Salgaridi erano già
incorporati all’impero dei Mogoli; e la loro dinastia finì nel 663 (
1265 ), dopo di aver durato cento vent'anni.
Il
poco che d'Herbelot e Deguignes, dietro di lui, hanno detto di tale
dinastia, è assai inesatto. Si trovano maggiori particolarità nel Lub
al-Thawarikh e soprattutto in un frammento del Nizam al-Thawarikh,
tradotto da de Sacy, tom. IV delle Notizie e Sunti dei Mss. della
biblioteca reale a Parigi.
A-t
Inoltre
in:
Encyclopédie
du dix-neuvième siècle : répertoire universel des sciences, des lettres et des
arts, avec la biographie de tous les hommes célèbres. T. 26, edita
a Parigi nel 1853, si legge a pag. 82, alla voce Atabeks di Fars: Ces
princes, d'origine turcomane, descendaient de Salgar et les orientaux les
appellent souvent Salgari. [...](corsivo mio).
§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§
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