Oceani, mari e pesci
Già pubblicato sulla
rivista Bolina n. 349 – febbraio 2017
Poseidone con il tonno,
uno dei suoi attributi: coppa del IV secolo a. E. V. di Oltos.
Museo nazionale di
Copenaghen.
Era
la fine del secolo scorso quando l’IMO, l’Organizzazione Marittima
Internazionale, lanciava un allarme: se si continua a pescare in questo modo
nel 2050 gli oceani e i mari saranno senza pesci. Che il pesce stesse
diminuendo se ne erano già accorti da anni i pescatori. La compagnia di pesca
Albacor, specializzata nella pesca oceanica del tonno, fino al 1996 riempiva le
stive di un suo peschereccio in una settimana, nel 1998 le servivano due
settimane di lavoro e nel 2001 in due settimane riempiva metà stiva, e questo
calo era avvenuto su tutti i pescherecci della compagnia in tutti i mari del
mondo.
I
motivi principali per la riduzione del pesce nei mari erano raggruppabili in
tre cause:
1. un’evidente maggiore richiesta del
mercato, conseguenza anche dell’aumento della popolazione mondiale;
2. l’inquinamento dei mari, conseguenza
delle acque inquinate dei fiumi che vanno in mare, degli oceani usati come
discariche di materiali radioattivi e dei milioni di tonnellate di plastica che
finiscono in mare;
3. una pesca sempre più tecnologica,
intensiva e indiscriminata.
Lungo
le disabitate coste della Patagonia abbiamo visto navi-fattoria lunghe oltre
cento metri battenti bandiera coreana che si lasciano andare alla deriva con
enormi tubi che dai fianchi scendevano sul fondo per succhiare dal mare e dai
fondali tutto quello che esiste: pesci, cetacei, tartarughe, calamari, alghe,
plancton. Il tutto appena aspirato a bordo viene tritato, disidratato,
polverizzato, insaccato e deposto sui pallet pronto per essere sbarcato come
farina di pesce per l’alimentazione umana e animale o, in alternativa, come
concime. Dove passano questi “aspirapolvere del mare” per decenni non può
vivere più nulla. Non solo i fondali oceanici sono soggetti a queste forme
distruttive di pesca.
Dipinto di Giuseppe
Casali all’ingresso del Museo della Marineria di Cesenatico
L’Adriatico
è il mare più pescoso d’Italia. I bassi fondali e l’apporto dei fiumi lo hanno
sempre reso un mare ricco di fauna ittica che viene usata in loco ed esportata.
Nelle città di mare adriatiche i ristoratori servono il pesce fresco
dell’Adriatico contemporaneamente ai loro colleghi ristoratori di Milano o di
Parigi. Per centinaia di chilometri di costa il pescato rappresenta la seconda
fonte di reddito dopo il turismo balneare, ma soffermiamoci un attimo a
guardare come si pesca.
Le
vongole sono prese da imbarcazioni apposite che danno fondo alla loro ancora
sui bassi fondali sabbiosi, si allontanano a motore filando il cavo e poi
calano sul fondo dei gabbioni di ferro collegati alla coperta da un tubo. A
quel punto il peschereccio inizia ad alare sull’ancora, il gabbione trascinato gratta
il fondo del mare coi suoi pettini. Le vongole e tutto quanto è presente sul
fondo viene aspirato dal tubo che pompa tutto a bordo per essere selezionato,
le vongole vengono lavate e insaccate mentre il resto, ormai distrutto e privo
di vita, è buttato in mare. Arrivato quasi a picco sull’ancora la vongolara si
allontana in una direzione differente in modo da “pettinare” il fondale a
raggiera attorno all’ancora. Come si vede una pesca non molto dissimile da
quella delle navi-fattoria lungo le coste della Patagonia.
Altra
forma di pesca caratteristica dell’Adriatico è la pesca a strascico. Quando i
pescherecci erano a vela si calava in mare una rete appesantita nella parte più
bassa. La rete era calata dalla prua e dalla poppa poi il peschereccio manovrava
le vele in modo da scarrocciare col vento. In questo modo la rete grattava il
fondo del mare per un’ampiezza pari alla lunghezza del peschereccio. Se il
vento e il mare lo permettevano si aumentava l’ampiezza della rete armando a
prua e a poppa delle aste con funzione di buttafuori e così la rete era più
larga e si operava su un tratto più largo di mare. Con l’avvento del motore la
pesca a strascico cambiò: da allora si cala la rete da poppa e per tenerla
larga si usarono due apparati di legno derivati dai dragamine chiamati
“divergenti”. A motore più potente corrisponde una rete più grande e più
pescato.
Nei
primi decenni del 1600 la Repubblica di Venezia considerò la pesca a strascico
distruttiva per i fondali e ne proibì l’uso nelle sue acque, che all’epoca si
estendevano dalla Dalmazia alle foci del Po. Alcuni pescatori di Chioggia
decisero allora di abbandonare le acque della Serenissima Repubblica ed
emigrarono con barche e famiglie a sud del Po e così da allora la pesca a
strascico si espanse su tutta la costa italiana dell’Adriatico.
Non
possiamo non notare la lungimiranza della Repubblica di Venezia che già quattro
secoli fa si preoccupava della salute del mare e prendeva provvedimenti in
merito, cosa che ai giorni nostri pare difetti a livello mondiale.
L’Italia
che per secoli, millenni, è sempre stata ricca di pesce al punto da esportarlo,
ora non lo è più da tempo. In Italia l’anno scorso si sono pescati 1,27 milioni
di tonnellate di pesce [fonte: report del 2016 del New Economic Foundation], appena
sufficiente a coprire un quarto della richiesta del mercato italiano, per gli
altri tre quarti il pesce sulle nostre tavole deve provenire dall’estero.
L’Europa, che fino al 1974 era autosufficiente per la produzione di pesce, ora
lo è solo per metà, il resto proviene dai grandi oceani e dalle coste di paesi
che non sfruttano le proprie risorse ittiche ma vendono le proprie “quote
pesca” ad altre nazioni, come fa appunto l’Argentina per le coste della
Patagonia.
Narra la Mitologia
che, dopo aver portato i Baccanali in Grecia, Dionisio volendo andare nell’isola
di Nasso si imbarcò su una nave di pirati tirreni, ma i pirati si diressero
verso l’Asia pensando di venderlo come schiavo. Allora, il dio, accortosi della
manovra, trasformò i loro remi in serpenti, riempì la nave di edera e fece
risuonare la musica di flauti invisibili; tocco finale, fermò la nave con
ghirlande di viti. I pirati impazziti si buttarono a mare, trasformandosi in
delfini. È per questo che i delfini sono amici degli uomini e cercano di
salvarli durante i naufragi, perché sono pirati pentiti.
Nella foto:
particolare di un’idria (Antico vaso per l'acqua a tre manici),
del V secolo a. E. V.
oggi al museo d’Arte di Toledo.
La
differenza sostanziale tra il pescatore e il contadino non è la evidente
differenza del luogo di lavoro, il mare per l’uno e la terra per l’altro, ma
che il pescatore raccoglie ma non semina mai.
Partendo
da questo assunto alcune compagnie di pesca anni fa hanno proposto all’IMO che
su tutti i pescherecci vengano imbarcati dei biologi o dei veterinari col
compito di togliere le uova ai pesci prima che questi vengano lavorati o congelati.
Le uova così raccolte potrebbero essere fecondate in laboratorio, generare
nuovi pesci che potrebbero essere allevati in vasca fino al raggiungimento di
una minima taglia. I pesci potrebbero poi essere immessi in mare liberi di
mangiare, migrare, riprodursi.. e cercare di non essere pescati. L’idea, che
aveva un costo previsto attorno al dieci per cento del costo di produzione, fu accettata
solo da alcune società mentre altre si dissero decisamente contrarie, chi per
non sostenere il costo dell’operazione, e chi lamentava che il pesce allevato
nelle sue vasche sarebbe potuto essere pescato dalla concorrenza.
Da
allora sono passati quasi vent’anni e nonostante il boom degli allevamenti di
pesce e di mitili la situazione non è migliorata. I pescherecci montano
apparecchiature sempre più costose e sofisticate per individuare il pesce che
continua a calare in tutti i mari del mondo.
Pavan
Sukhdev della FAO, l’ente per l’alimentazione delle Nazioni Unite, continua a
dire che intere specie di animali acquatici sono in via d’estinzione, che un
quarto delle risorse biologiche marine rinnovabili è depauperata e
sovrasfruttata, che nel 2050 non ci sarà più pesce nei mari e negli oceani… ma
nessuno lo ascolta.
Cucciolo a pesca di
Michele Seccia
Chi
è responsabile di tutto ciò? A chi
daremo la colpa della fine dei pesci nei mari e negli oceani? Al denaro?
Ai politici? All’aumento della
popolazione? Alla stupidità umana? Non vorrei che alla fine la colpa fosse del
vecchietto che pesca con un filo e un amo da bordo della sua barchetta a vela.
@ 26 ottobre ’16
Galileo Ferraresi
va agli
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