Clima e piante nel
Piceno medievale
Mi è stato chiesto di parlare per un’ora di
piante, di come si distribuiscono sulla superficie terrestre, parlare cioè di
Fitogeografia; in relazione in particolar modo alla teoria di Giovanni
Carnevale su Aquisgrana in val di Chienti.
Nella figura si vedono due areali come
esempio, anche per ricordare che il modo corretto di raffigurare un areale non
è quello di riportare una linea che delimita a Nord o a Sud la distribuzione di
una specie, ma di evidenziare in colore in una carta geografica la zona in cui
la specie cresce e fruttifica.
Fig 1 (
areali ulivo leccio corbezzolo fico)
Io non avrei voglia di fare lezione, anche
perché non sono certo un luminare sull’argomento. Solo per caso scelsi questa
disciplina per la mia tesi di laurea in Scienze Biologiche.
Vorrei solo fare delle considerazioni sul
nesso che la
Fitogeografia ha con la tesi di Aquisgrana delocalizzata
dalla Germania all’Italia.
Non potendo parlare di tutte le specie
botaniche mi limiterò alla vite e all’ulivo.
Ho già scritto qualcosa in proposito
in”Aquisgrana Restituta”del 1996, aggiornata poi nel 2005 e nel 2013. Ci tengo
a precisare di essere stato per parecchi anni l’unico ad aver messo nero su
bianco che la teoria di Carnevale è giusta, portando anche validi argomenti.
Qualcuno potrebbe giustamente pensare che io
abbia abbracciato la teoria di Aquisgrana a San Claudio perché ci sono nato: in
parte questo ha contribuito, inutile negarlo. Ma se mi sono esposto alla facile
ironia è anche perché non ho mai trovato un valido contradditorio se non questo
ragionamento: non è possibile che tante teste d’uovo delle università si siano
sbagliate per tutto questo tempo.
E qui scatta la favola: per dire per primo “il
re è nudo”ci vuole anche parecchia ingenuità, non solo amore per la verità. Per
il secondo, il terzo e così via diventa più facile; ma quello che sorprende in
questa vicenda è come la maggioranza si ostini a non guardare e a continuare a
dire: “il re è vestito splendidamente”.
Ma torniamo a bomba, sennò perdo il filo del
discorso.
Il motivo principale del dare ragione a don
Carnevale è che della “querelle” sul Capitulare
de Villis avevo già una discreta conoscenza dai tempi del Liceo Classico.
Avevo letto brani del francese Marc Bloch e
del belga Francois Ganshof che criticavano l’austriaco Alfons Dopsch. (qui ci
vorrebbe il prof Morresi Nazzareno)
Questo storico di origini ungheresi, Dopsch,
(1868 – 1953), nato sotto l’impero austro-ungarico, ha scritto in tedesco:
motivo per cui io non ho letto direttamente nulla di questo signore, (a
malapena conoscerò una decina di parole in questa lingua).
Ma è lui che è stato il primo a dire che
l’Aquisgrana di Carlo Magno non poteva essere Aachen, a causa della flora
mediterranea citata nel “capitulare de villis”.
Dopsch collaborò agli MGH per la sezione dei
diplomi carolingi. Nella sua analisi dell’epoca carolingia insiste fortemente
sull’elemento romano, che si tendeva a dimenticare nei paesi di lingua tedesca.
Sottolineò la mancanza di rottura (absence de cassure, riferisce Ganshof)
dopo la fine dell’impero romano nello sviluppo economico dell’Europa dell’alto
medioevo.
La sua interpretazione, in contrasto con Henry
Pirenne, belga come Ganshof, del “capitulare de villis” e dell’epoca carolingia
era vista come rivoluzionaria, tanto che non fu accettata nelle università
tedesche, ma comunque costrinse gli storici a rivedere le loro posizioni.
(Ma come poteva essere accettata in Germania,
dico io, proprio mentre stava nascendo il Nazionalsocialismo, che si nutriva
del mito di Carlo Magno e del Sacro Romano Impero?)
Sia Ganshof che Bloch erano allievi di Pirenne
e criticavano Dopsch, pur rispettandolo formalmente.
Il francese Marc Bloch è stato un grande storiografo
che si era formato nelle università tedesche, che morì fucilato dai nazisti nel
1944.
Egli tendeva a minimizzare, senza confutarla,
la scoperta di Dopsch: scriveva che non aveva tanta importanza se Aquisgrana
stava da un’altra parte, che per la storia nel suo complesso importava poco se
stava più a sud, perché immaginava un altro posto al confine tra Francia e
Germania, non certo in Italia!
Questo discorso già a quei tempi non mi
convinceva per niente, già a 16 anni.
Ma come, il paladino del metodo scientifico,
della interdisciplinarità applicata alla storiografia come poteva dire che non
importava dove era realmente localizzata la reggia di Carlo Magno?
A che
gioco giochiamo?
Per farla breve, se gli storiografi possono
prendere cantonate, più o meno in buonafede, se i documenti sono falsificabili,
alcuni addirittura falsificati all’origine, a me pare inconfutabile che le
piante non possono mentire.
Ma è indispensabile saper distinguere. Nei
miei ricordi di bambino di San Claudio sono impresse con chiarezza palme e
piante di banano all’ingresso della chiesa. Questo mi autorizza a dire che san
Claudio al Chienti si trova in Africa?
Ma devo essere breve.
Ora mi devo concentrare sugli areali della
vite e dell’ulivo nell’Alto Medioevo.
Alto Medioevo è il periodo che va dalla
deposizione di Romolo Augustolo da parte di
Odoacre fino alla morte di Ottone terzo ( 476 – 1002).
Areale è il termine che descrive la
distribuzione di una specie botanica sulla superficie terrestre, l’oggetto di
studio della Fitogeografia.
Le piante si distribuiscono sulla superficie
terrestre in correlazione con gli elementi e con i fattori del clima.
Gli elementi sono quelli che cambiano:
temperatura, umidità, pressione atmosferica, precipitazioni, nuvolosità, venti.
Fattori sono quelli che non cambiano:
latitudine, longitudine, altitudine, distanza dal mare, disposizione dei monti,
esposizione al sole, correnti marine.
La cosa è complicata dal fatto che parliamo di
specie coltivate.
Chi ha ricostruito la storia del Medioevo
riteneva che i fattori del clima fossero stabili: in realtà non lo sono. Il
clima cambia!
“E’ il clima che decide la storia” dice in
sintesi Wolfgang Behringer in “Storia culturale del clima”, edito in italiano
da Bollati – Boringhieri , scritto nel 2010 a Saarbrucken.
E conclude con un motto latino: “tempora
mutantur, et nos mutamur in illis”, I tempi cambiano e noi cambiamo in essi.
I compilatori degli MGH non potevano conoscere
i moti millenari della Terra: che l’asse terrestre oscilla ciclicamente, che la
distanza Terra – Sole varia di circa 10 milioni di chilometri, che il sole non
irradia il suo calore in maniera costante. Le oscillazioni a breve periodo (11
anni) si conoscono già; quelle a lungo periodo gli uomini le sapranno fra
secoli, se non si estinguono prima. Non potevano sapere che vulcani, anche
quelli dell’altro emisfero, possono
vomitare tanta cenere da oscurare il sole per mesi, sconvolgendo il normale
ritmo delle stagioni.
Oggi abbiamo questa certezza: il clima cambia.
Quando sono nato io, l’anno dell’alluvione del
Polesine, gli esperti prospettavano un “global cooling”, un raffreddamento
globale.
Quando frequentavo l’università contrordine: i
gas serra ci portano al “global warming”, al riscaldamento globale.
Tanto che i libri di testo della mia materia
di insegnamento facevano previsioni apocalittiche, specialmente
sull’innalzamento del livello del mare. Anche i programmi del ministero
pressavano ad inculcare negli studenti i pericoli del riscaldamento globale.
Attualmente un altro contrordine: siamo
all’inizio di una nuova piccola era glaciale.
Fig 2 (
diagrammi climatici)
Anche se parecchi non se ne sono ancora
accorti e continuano, anche nei media, con la fissa del global warming. I casi
più illustri: papa Francesco e Barack Obama, quelli più illustri fra chi i
discorsi non li scrivono del tutto in prima persona. Più aggiornato sembra
essere Donald Trump, accusato di negazionismo del global warming.
Insomma la Scienza dovrebbe essere chiara e oggettiva, ma
gli scienziati non sono né chiari né oggettivi, non sono in sintonia fra di
loro, lasciando intravedere interessi nascosti più che il “seguir virtute e
canoscenza.”
Fig 3 (
copertina del libro di Behringer)
Mi sono letto il saggio di Wolfgang Behringer,
docente di storia presso l’università di Saarbrucken, un luminare esperto anche
di storia del clima, nella speranza di leggere dati aggiornati e analisi
imparziali di uno che ha i mezzi e il tempo per queste cose.
E per questo lo pagano anche.
Dagli anni successivi alla seconda guerra
mondiale gli scienziati hanno potuto usufruire di varie possibilità di risalire
alle temperature del passato.
· Carote di ghiaccio;
· Isotopi dell’ossigeno;
· Isotopi del carbonio;
· Computo delle varve:
analisi di sedimenti marini, lacustri, fluviali;
· Paleobotanica e palinologia;
· Paleozoologia;
· Termoluminescenza per
datare le ceneri vulcaniche;
· Dendrocronologia.
Mi resta il dubbio di dimenticare qualcosa in
questo elenco ma può bastare.
Le carote di ghiaccio dell’Antartide hanno
permesso di ricavare le temperature dell’atmosfera fino a 800.000 anni fa.
Per l’Europa i dati più attendibili sono
quelli dedotti dal ghiacciaio Fernau e da una torbiera prossima ad esso. Si
trova fra l’Austria e l’Italia, pressappoco fra Vipiteno e Innsbruck.
Fig 4
Mario Pinna diagramma
I dati delle temperature degli ultimi 2.000
anni, riportati da Mario Pinna, indicano un periodo più caldo dell’attuale per
tutto il periodo migliore dell’impero romano.
Dal 400 all’800 le temperature si abbassarono;
dopo l’800 si alzarono determinando l’optimum basso medioevale (1.000 – 1.200),
a cui seguì una piccola era glaciale
(Maunder minimum) dal 1.400 al 1.800 circa.
Questi dati di Mario Pinna non coincidono del
tutto con quelli di altre zone della Terra, è normale, ma siccome il ghiacciaio
del Fernau sta al centro dell’Europa, è a questi che dobbiamo fare riferimento
per il nostro Medioevo.
Durante il periodo romano quindi la vite (vitis vinifera) poteva e fu
effettivamente coltivata in Gallia, cioè nella Francia attuale, fino alle coste
dell’Atlantico.
Fig
5 areale vite Pignatti
In Germania la coltivazione della vite arrivò
a Treviri, sulla Mosella, ma non in tutta la valle del Reno, solo nelle zone a
sinistra del fiume fra Strasburgo e Magonza.
Solo
dopo la predicazione di san Bonifacio, (circa 680 – 754), grazie ai monaci
benedettini, per l’esigenza del dir messa, la vite vi fu coltivata nelle
colline riparate dai venti del Nord ed esposte a Sud più settentrionali
rispetto a Magonza.
Per coltivare la vite ci vuole anche la
cultura (o coltura. Solo negli ultimi anni nell’italiano ha assunto un
significato diverso) del vino, che le popolazioni Germaniche non avevano.
Reginone di Prum attesta nella sua cronaca che
nell’anno 882 la vite era coltivata a Coblenza, Andernach, Sinzig, praticamente
fin dove il Reno scorre in una valle stretta fra le colline. Il capo Goffredo,
si lamentava che la zona che aveva avuto, che comprendeva Colonia, non
produceva vino. Allora voleva anche le località sopra menzionate.
Reginone di Prum, (840 – 915) fu abate di
questa abbazia imperiale nell’Eifel, presso Treviri; fu impegnato a ricostruire
l’economia del luogo dopo le incursioni normanne del periodo 882 – 892.
Questa testimonianza di Reginone è importante
anche perché afferma che Carlo il Grosso, non riuscendo a controllare la bassa
valle del Reno, la Frisia,
per tenerselo buono, aveva ceduto quella regione al capo vichingo Goffredo.
Questa zona comprendeva Colonia, ma anche la zona dove ora c’è Aachen. Se
Aquisgrana fosse stata lì è impensabile che Carlo il Grosso l’avesse ceduta a
Goffredo.
In seguito la vite fu coltivata anche in valli
riparate fra l’Elba e l’Oder, nel periodo caldo, l’optimum basso medioevale, in
cui fu possibile coltivarla anche in Inghilterra.
Con l’avvicinarsi del “Maunder minimum”
l’areale della vite ritornò verso Sud.
Oggi il vino si produce anche ad Aachen, ma
non si può ignorare quello che è successo nel 1.800: la fillossera, la
peronospora e l’oidio stavano per far estinguere la specie “vitis vinifera
sativa”. (Esisteva anche la vitis
vinifera sylvestris, vite
selvatica).
Fu salvata dall’estinzione innestando le viti
superstiti su portainnesti, (apparato radicale), di vite americana, resistente
ai parassiti ma anche a temperature più
basse, (vitis labrusca, aestivalis, rotundifolia, rupestris, vulpina).
La vite che si coltiva oggi non è quindi la
stessa specie che si è coltivata in Europa dai tempi biblici fino al 1.800, è
un ibrido resistente al freddo: certo che ora può essere coltivata anche ad
Aachen. Ma è fuor di dubbio che non ci poteva crescere la vitis vinifera sativa, tanto più nel periodo freddo
alto medioevale.
Da non sottovalutare anche il discorso che i
moderni coltivatori hanno aumentato in maniera esponenziale la loro capacità di
selezionare varianti genetiche più adatte a situazioni locali circoscritte.
Il nostro “Herr Behringer” dà pochissimo
rilievo alla piccola era glaciale alto medioevale, adducendo la carenza di dati
storici attendibili, così non riporta nemmeno i dati paleo climatici, che
invece sono attendibili come quelli di qualsiasi altro periodo.
Probabilmente questa pecca è stata rilevata
solo da me, che avevo comprato il libro apposta: per avere in dettaglio i dati
climatici del periodo freddo alto medioevale.
Altra pecca di questo autore, (che mi induce a
pensarne male): parla del vino come se la specie che lo produceva nel medioevo
e quella che lo produce oggi fosse esattamente la stessa.
Questo sarebbe comprensibile per quelli che
scrivono su “cronache maceratesi”, sul “Resto del Carlino” o su “la Rucola”,
(chi fa caso ormai a tutte le castronerie che si leggono sui giornali?), ma è
inammissibile per un docente universitario storico di professione.
Ma la differenza fra “Vitis vinifera sativa”
del medioevo e i vari vitigni ibridi oggi utilizzati non è una quisquiglia, è
un fatto fondamentale!
Non ci sono ca… (no, la parolaccia non la
dico), nel periodo di Carlo Magno ad Aachen il vino non ci veniva prodotto e
non ci si poteva produrre. Come non ci si potevano coltivare parecchie delle
specie menzionate nel ”capitulare de villis”.
Qualche intelligentone ha tirato fuori
l’obiezione che se Aquisgrana era san Claudio al Chienti, nel “capitulare de
villis” sarebbe stato nominato l’ulivo. Invece questo particolare che sembra
contrario è un elemento a favore.
Nelle Marche fra il 400 e l’800 l’ulivo non ci
cresceva per il periodo freddo alto medioevale; l’ulivo non resiste alle
gelate.
Certamente la sua coltivazione ci fu iniziata
anche prima del periodo ottimale dell’impero romano, ma poi il suo areale si
dislocò più a sud e più a ovest.
Non dovrebbe essere un mistero il fatto che le
temperature medie invernali del clima tirrenico sono di circa cinque gradi
superiori a quelle del clima adriatico.
Nelle Marche l’ulivo ritornò ad essere
coltivato durante l’optimum basso medioevale per essere di nuovo abbandonato durante
la piccola era glaciale (Maunder minimum), per ritornare ad essere coltivato
dopo il 1.800. Lo dico basandomi solo sui dati della temperatura, ma le analisi
palino logiche dei sedimenti, se qualcuno ha voglia di farle, confermeranno
facilmente quanto ho detto.
Si accettano scommesse.
Nell’attesa dei dati palinologici riporto
alcune frasi delle prime cose che ho trovato in rete sull’argomento: dal libro
di Barbara Alfei ed Enrico Maria Lodolini: “ Olivo nelle Marche” :
“Tra il
Seicento e il Settecento (1.600 -
1.700), la coltivazione dell’olivo quasi scomparve. Napoleone negli anni 1.811 – 1.813,
stabilì premi per coloro che… avevano coltivato la colza o posto a dimora e
allevato, per almeno 4 anni, 400 alberi d’olivo…
… la coltivazione dell’olivo nelle Marche ha
un’origine antichissima. Già nel VII secolo a. C. nel Piceno l’olivo era
coltivato insieme al grano e alla vite; ciò è confermato dal ritrovamento di
grandi contenitori, i doli. Successivamente l’olivo venne abbandonato, si
confuse con la vegetazione spontanea, si inselvatichì… ritornò ad essere
coltivato dai monaci benedettini…
…Attualmente nelle Marche la superficie
coltivata a olivo è in costante aumento. “
Olea
europaea
è una pianta sempreverde, che nel periodo più freddo (dicembre – gennaio) va in
riposo vegetativo. Resiste alle gelate poco meglio degli agrumi ed è una pianta molto longeva.
Ma nelle Marche non esistono alberi di ulivo
secolari: al massimo di duecento anni. A meno che qualcuno se lo abbia comprato
in Puglia prima che il loro commercio fosse vietato.
Come per la vite, c’è da tener conto della
selezione artificiale operata dai coltivatori, per cui oggi esistono
“cultivar”più adatte a climi che presentano qualche giornata sotto zero, se non
sono troppe e se non si va troppo sotto allo zero.
Ma la specie è tipicamente termofila e
caratteristica del clima mediterraneo.
A questo punto, esaurito l’argomento
scientifico, dovrei chiudere, perché ho detto quasi tutto quello che volevo
dire, e una vocina mi dice di smettere perché non ci guadagno nulla a
continuare, perciò è sicuro che ho solo da perdere.
Il guaio è che non riesco a capire se la
vocina è di un angioletto o di un diavoletto.
Nel dubbio seguo una via di mezzo facendo una
drastica sintesi.
Non è possibile che gli storici tedeschi non
conoscano Alfons Dopsch e non conoscano Giovanni Carnevale. Ma quando hanno
ignorato Dopsch in Germania comandavano i Nazionalsocialisti, o, più
semplicemente, i Nazisti.
Non è che sotto sotto comandano anche adesso?
Forse esagero ma di sicuro il Nazionalismo
tedesco esiste.
Lo conferma la “Aachen connection” del Diesel
gate Volkswagen.
Fig 6
Macerata, li 23 gennaio 2017
Mancini Enzo
va agli
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