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venerdì 26 maggio 2023

Il sogno sciamanico di Dante su Beatrice

 

Il sogno sciamanico di Dante su Beatrice

  Dai tempi della scuola superiore non avevo più riletto quasi nulla della letteratura italiana. Ma per mi fortuna, ritrovai buttati nella monnezza, i due libri di Mario Pazzaglia Gli autori della letteratura italiana della Zanichelli nell’edizione del 1969; personalmente lo avevo studiato su di un’edizione successiva e i miei libri – ridotti a uno stato pietoso – purtroppo dovettero esser buttati via.

   Ultimamente mi sono rimesso a rileggerli, per cercare qualche traccia della Francia delle origini (sembrerà stano, ma qualche traccia, minima, incerta sembra sia uscita); nel Ritmo Laurenziano, il più antico componimento poetico italico, «ed è, quindi, molto probabilmente, il più antico componimento poetico italiano pervenutoci.» scrive Pazzaglia, dove «un giullare (ricordiamo che i giullari sono persone dotate di una certa infarinatura culturale, il cui mestiere è quello di divertire con la parola, per ricavarne guadagno, una cerchia di persone),[…] canta questi versi davanti al vescovo al quale è dedicato il suo canto e alla corte di lui. Si tratta molto probabilmente del vescovo di Pisa, del quale il giullare fa lodi sperticate, sperando di ottenere per questo in dono un cavallo; se lo ottiene lo mostrerà al vescovo Galgano, uno dei suoi altolocati protettori.»

da ce ‘l mondo fe pagano non ci so tal marchisciano.

e alla nota 10 di pag. 34, scrive: «Sin dai tempi pagani non mi risulta che ci sia stato un tale gentiluomo.» La cosa che più mi ha sconcertato è il luogo dove avviene… Il castello, ormai scomparso, di Lornano; il cui colle vedo ad appena un chilometro di distanza dalla finestra della mia camera.

E’ scritto su http://www.treccani.it/magazine/strumenti/una_poesia_al_giorno/10_14_ritmo_laurenziano.html «venne da Lornano (vicino a Macerata, feudo della famiglia del vescovo di Iesi), dal paradiso terrestre (delle delizie).»

    Sono gli echi di un mondo scomparso, di quella Franca gente [La franca gente tutta s'innamora dice il sonetto] su cui poetava la misteriosa fiorentina Compiuta Donzella, prima poetessa italiana.

Di quella Francia delle origini dove veniva onorata Venere come Stella Diana, secondo le ricerche di Claudio Principi (lo riferisce nei sui libri Dicerie popolari marchigiane), che ritroviamo citata in due sonetti sia di Folgore da San Gimigniamo, Vedut’ho la lucente stella diana / ch’apare anzi che ’l giorno rend’albore / c’ha preso forma di figura umana…, sia  Guido Guinizelli che loda la sua donna più che stella dïana splende e pare.

     Una Francia ormai definitivamente solo Marche che il grande Boccaccio denigra infine col personaggio del giudice marchigiano (messer Nicola da  San Lepidio) che è un rappresentante di quelli «uomini di povero cuore e di vita tanto strema e tanto misera, che altro non pare ogni lor fatto che una pidocchieria: e per questa loro innata miseria e avarizia, menan seco e giudici e notai, che paion uomini levati piu tosto dallo aratro o tratti dalla calzoleria, che dalle scuole delle leggi.»

E’ la fine ingloriosa di quella Francia delle origini, e da qui ritorniamo all’argomento principale di questa mia ricerchina: quel medioevo pieno di paure e fantasmi…



Da pag. 269 e seguenti del volume primo

dalla «Vita nuova»

La trama del libro è la seguente.

Il poeta racconta che a nove anni vide per la prima volta Beatrice e ne ritrasse un’impressione indelebile. La rivide un giorno, dopo nove anni, ed ella lo salutò soavemente: questo incontro costituì per Dante la prima e piena rivelazione dell’amore ch’egli portava ancora indefinito nell’anima. Rifugiatosi nella sua stanza a pensare di lei, ebbe un sogno, anzi, una visione mirabile: vide Amore con Beatrice addormentata in braccio, il quale, dopo avergli rivelato di essere il suo signore, destò la donna, le fece mangiare il cuore del poeta e subito dopo, stringendola affettuosamente fra le braccia e piangendo, se ne andò, con lei, verso il cielo. Dante, destatosi, compose un sonetto, nel quale si rivolse ai poeti, cioè ai fedeli d’Amore, chiedendo loro un’interpretazione della visione arcana. Gli rispose, fra gli altri, Guido Cavalcanti, che divenne, da allora, intimo amico suo.

E pensando di lei, mi sopragiunse uno soave sonno, ne lo quale m’apparve una meravigliosa visione: che me parea vedere ne la mia camera una nebula di colore di fuoco, dentro a la quale io discernea una figura d’uno segnore di pauroso aspetto a chi la guardasse; e pareami con tanta letizia, quanto a sé, che mirabile cosa era; e ne le sue parole dicea molte cose, le quali io non intendea se non poche; tra le quali intendea queste: «Ego dominus tuus [io sono il tuo signore]».

Ne le sue braccia mi parea vedere una persona dormire nuda, salvo che involta mi parea in uno drappo sanguigno leggeramente; la quale io riguardando molto intentivamente, conobbi ch’era la donna de la salute, la quale m’avea lo giorno dinanzi degnato di salutare. E ne l’una de le mani mi parea che questi tenesse una cosa la quale ardesse tutta, e pareami che mi dicesse queste parole: «Vide cor tuum [vedi il tuo cuore]». E quando elli era stato alquanto, pareami che disvegliasse questa che dormia; e tanto si sforzava per suo ingegno, che le facea mangiare questa cosa che in mano li ardea, la quale ella mangiava dubitosamente [cioè – scrive Pazzaglia – esitando e con una sorta di sbigottito timore]. Appresso ciò poco dimorava che la sua letizia si convertia in amarissimo pianto; e così piangendo, si ricogliea questa donna nelle sue braccia [è allusione all’immatura morte di lei], e con essa mi parea che si ne gisse verso lo cielo; onde io sostenea sì grande angoscia, che lo mio deboletto sonno non poteo sostenere, anzi si ruppe e fui disvegliato.

E mantenente cominciai a pensare, e trovai che l’ora ne la quale m’era questa visione apparita, era la quarta de la notte [la quarta, delle dodici ore in cui è divisa la notte, è la prima delle ultime nove] stata; sì che appare manifestamente ch’ella fue la prima ora de le nove ultime ore de la notte.

Pensando io a ciò che m’era apparuto, propuosi di farlo sentire a molti li quali erano famosi trovatori in quello tempo: e con ciò fosse cosa che io avesse già veduto per me medesimo l’arte del dire parole per rima, propuosi di fare uno sonetto, ne lo quale io salutasse tutti li fedeli d’Amore; e pregandoli che giudicassero la mia visione, scrissi a loro ciò che io avea nel mio sonno veduto. E cominciai allora questo sonetto, lo quale comincia: A ciascun’alma presa.

 

Poi a pag. 348, vengo a scoprir di un fantasma, forse evocato per una piccola cattiveria, ma comunque goliardica di Forese Donati.

Verseggiatore fiorentino (m. 1296), fratello di Corso e Piccarda Donati, amico e lontano parente di Dante per effetto del matrimonio di questo con Gemma Donati. Il poeta immagina di trovarlo tra i golosi, nei canti XXIII e XXIV del Purgatorio, e di rievocare con lui, affettuosamente, i comuni trascorsi e gli antichi affetti. La scena sembra palinodia di una Tenzone di sei sonetti (tre per ciascuno) che, forse nella giovinezza, i due si erano scambiati, accusandosi di varî vizî e turpitudini, probabilmente con soli intenti letterarî.

https://www.treccani.it/enciclopedia/forese-donati/  

Ecco parte del testo e la poesia dalle pagg. 348-9…

 

 

Ben ti faranno il nodo Salamone

«Un episodio clamoroso, nella produzione lirica di Dante, E la tenzone con Forese Donati, cui il poeta fu legato da cordiale amicizia, anche se essa coincise con un suo periodo di rilassamento morale (tale e l’indicazione che si ricava dall’affettuoso colloquio fra i due nel canto XXIII del Purgatorio). In essa i due si scagliano pittoreschi insulti (povertà, abitudine al furto, ecc.), che non vanno, però, presi troppo sul serio, in quanta la tenzone si rifà a un genere letterario definito, quello comico-realistico di Rustico [di Filippo o Filippi] e di Cecco Angiolieri. […] Comunque lo stile «comico», qui per la prima volta tentato, resterà un acquisto fondamentale per il poeta della Commedia

Come era nata? con questo sonetto che inizia Chi udisse tossir la mal fatata
Moglie di Bicci vocato Forese
[…] in cui Dante ritrae la moglie di Forese in una cornice di domestico squallore, come perpetuamente infreddata e tossicolosa per... vacanza maritale;

risposta di Forese Donati

 

L'altra notte mi venne una gran tosse,
Perch' io non avea che tenere addosso;
Ma incontinente che fu dì fui mosso,
Per gire a guadagnare ove che fosse.
Udite la fortuna ove m'addosse:

Ch'io credetti trovar perle in un bosso,
E bei fiorin coniati d'oro rosso;

Ed io trovai Alaghier fra le fosse,

Legato a nodo ch'io non saccio il nome,
Se fu di Salomone o d'altro saggio.
Allora mi segna' verso il levante;
E quei mi disse: Per amor di Dante,
Scio'mi. Ed io non potetti veder come:
Tornai adrieto, e compie' mio viaggio.

 

ecco la descrizione che dà, Isidoro Del Lungo, nel suo Dino Compagni e la sua cronica, Volume 2, Firenze 1879, alle pagg. 613-614 «L’altra notte fui assalito da una fiera tosse, perché non ero ben coperto nel letto: appena fatto giorno, m’alzai, e mi posi in cammino in cerca di qualche guadagno o buona ventura. Sentite un poco dove la fortuna mi condusse! Credevo d’aver trovato perle in un bossolo, e bei fiorini d’oro rosso di zecca, e invece trovai Alaghiero in certe fosse, legato non vi saprei ben dire se col nodo di Salomone o d'altro gran savio. Io allora mi voltai verso Levante, e mi feci il segno della croce al sole che spuntava. E colui mi disse: Scioglimi, per amor di Dante. Io non potei vedere com’avessi a fare: perciò tornai indietro, e seguitai a andarmene pe’ fatti miei».

 

 

Ben ti faranno il nodo Salamone,

Bicci novello, e’ petti de le starne,

ma peggio fia la lonza del castrone,

ché  ‘l cuoio farà vendetta de la carne;

tal che starai più presso a San Simone

se tu non ti procacci de l’andarne;

e ’ntendi che ’l fuggire el mal boccone

sarebbe oramai tardi a ricomprarne.

Ma ben m’è detto che tu sai un’arte

che, s’egli è vero, tu ti puoi rifare,

però ch’ellé di molto gran guadagno;

e fa sí, a tempo, che tema di carte

non hai, che ti bisogni scioperare;

ma ben ne colse male a’ fi’ di Stagno.

 

     qua di seguito le spiegazioni di Pazzaglia:

«1—2. Ben... Salamone: Nel sonetto al quale Dante qui risponde, Forese, con allusione per noi oscura, aveva detto di aver trovato, una notte, lo spettro del padre di Dante, legato a un nodo magico, quello detto di Salomone [in realtà, come abbiamo letto più sopra o di altro saggio. Puga] Ora Dante risponde che Forese sarà legato in modo ben più concreto: lo metteranno in prigione per i debiti da lui contratti per soddisfare la sua ingordigia. I (è) petti delle starne che il ghiottone divora gli faranno il nodo inestricabile. Bicci novello; per distinguerlo da un antenato omonimo. Ma c’é forse una sfumatura spregiativa.

3-4. ma... carne: ma ti procurerà danno maggiore la lombata (lonza) di (del) castrato, perché il suo cuoio, la sua pelle, trasformata in pergamena, servirà per fare i contratti di debito e vendicherà la carne da te divorata.

5—6 tal... andarne: tanto che starai più vicino a S. Simone (qui era situate il carcere principale di Firenze, la Burella) – dove ti porteranno i debiti non pagati – se non ti sbrighi a scappare.

7-8, che... ricomprarne: che rinunciare ai tuoi peccati di gola non sarebbe sufficiente a riscattarti dai debiti passati.

9. un’arte: il furto, che gli permetterà di rifarsi.

12-13. e... scioperare; e fa sì, per qualche tempo, che tu non abbia paura della carta dei debiti (cosi erano chiamati i contratti di debito), sí che tu debba interrompere le tue gozzoviglie.

14. ma... Stagno: ma ne incolse male, ma andarono a finire male, per avere esercitato quest’arte, i figli di Stagno. Allude a una famiglia di ladri celebri, impiccati per le loro malefatte.»

 

   Un medioevo ormai agli sgoccioli, ormai siamo nell’età comunale, ma pieno di paure, a cui cercar di resistere con burle di questo genere.

   Un’altra notazione è una ulteriore ricerchina sul “nodo di Salomone”…

 


immagine da http://www.duepassinelmistero.com/nodo_di_salomone.htm

   A proposito del nodo di Salomone secondo il vocabolario della lingua italiana del 1879 «si dice Nodo di Salomone , che è un certo lavoro a guisa di nòdo , di cui non apparisce nè il capo nè il fine.» mentre nel Dizionario italiano-tedesco e tedesco-italiano di Christiano Giuseppe Jagemann, 1803 trovo a p. 693:  «kunstlicher, schwer aufzuldfender Knoten, nodo di Salomone, nodo del vomere; nodo artificioso.»

 

Sul nodo di Salomone, vi è una leggenda popolare veronese che riferisce il professor Dario Carraroli, nel suo La leggenda di Alessandro Magno, Mondovì, 1892, alle pagg. 326-7.

“Altre leggende ancora corrono intorno al nodo di Salomone; ma ci basti intanto d'aver riferita questa per renderci ragione della strana confusione che potè avvenire tra l'anello di Salomone e il nodo di Gordio nella leggenda orale che sto per riferire; mentre credo di dover aggiungere che gli Anelli di Salomone, che anche presentemente si vendono dagli orefici, sono appunto formati da uno strano nodo.

La novella, di cui ora do il testo, mi venne primamente indicata dal Prof. G. B. Parmesani, Ispettore scolastico nel Circondario di Legnago; ed io ho avuto poi occasione di verificare la fedeltà della sua origine popolare, avendola udita rac[con]tare nel contado veronese.

«A Salomone, simbolo della sapienza, Iddio aveva largito una mente, la più vasta del mondo. Egli aveva intrecciato un nodo che nessuno sapeva sciogliere, ed allorquando il grande sapiente si diede alla idolatria e strinse amicizia col re d’Oriente, insieme con altri tesori, gli regalo pure il nodo famoso. Con esso il re d’Oriente divenne invincibile e nessun guerriero potè mai abbatterlo. Sant’Alessandro, che era un gran guerriero, gli mosse guerra, ma neppur egli riusciva a vincerlo a causa del nodo portentoso. Una notte, mentre S. Alessandro stringeva d'assedio la capitale del re d'Oriente, questi, spintosi fuori delle mura per spiare i movimenti dei nemici, perdette il fatale talismano, che venne trovato da un soldato di Alessandro. Il soldato lo portò al suo principe; il quale, mentre lo considerava, senti una voce misteriosa che gli rivelò esser quello il nodo di S. Salomone. Con una spada S. Alessandro fece in terra un segno di croce (il primo che sia stato fatto per divozione) e cacciata poi la punta della spada nel nodo, come per incanto lo sciolse. Indi prosegui la guerra, vinse il re d’Oriente, e colla corda del nodo disciolto lo fece impiccare con tutti i suoi figliuoli.

Tale è la leggenda che mi fu narrata e che io ho fedelmente riferita […]»”

 

    Vi sono delle leggende su Dante che sicuramente hanno un fondo di verità! Alessandro, da Salerno, mi regalò un libro da lui pubblicato “La leggenda di Dante - vizi e debolezze del sommo poeta, a cura di Giovanni Papini, Ripostes, 2019”.

   Qui Papini sforna un bel numero di storie, più di una quarantina (incontra perfino un morto risuscitato che aveva incontrato… Carlo magno) e una di queste si scontra con Cecco D’Ascoli…

   Questa storiella, a dir la verità, mi sembra alquanto vera, ma naturalmente io volo con la fantasia così come Dante quanto cantava Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io / fossimo presi per incantamento / e messi in un vasel che’ad ogni vento / per mare andasse al voler vostro e mio […]

 

XVII

Dante e Cecco d’Ascoli

(pagg. 35-36)

Florentiae arcta ipsi cum Dante Aligherio Poetarum Antesignano, aliisque literatissimus Viris consuetudo in tercessit. Ex Cicchi operibus intelligimus, quaspiam de implicatis ambagibus quaestiones ab Aligherio Stabili nostro propositas, a Stabili Aligherio enodatas fuisse, istumque ab illo nonnullarum rerum Caelestium hausisse cognitionem. Inter utrumque aliquando acerrime disputatum est, an Ars Natura fortior, ac potentior existeret.

Negabat Stabilis cum nullae Leges corrumpere Naturam possint:

Naturalia enim Divina quadam providentia constituta, semper firma, atque immobilia sunt, ut ait textus Sed naturalia Instit. de mordicus tuebatur: felem demesticam Stabili objiciebat, quam ea arte instituerat, ut ungulis candelabrum teneret, dum is noctu legeret, vel coenaret. Cicchus igitur, ut in sententiam suam Aligherium pertraheret: scutula assumpta, ubi duo musculi asservabantur inclusi, illos in conspectum Felis dimisit; quae naturae ingenio inemendabili obsequens, muribus vix inspectis, illico in terram candelabrum abjecit, & ultro, citroque cursare, ac vestigiis praedam persequi instituit. Sic adversarius, qui Philosophi rationibus non flectebatur Felis exemplo superatur est.

 

    Senza tentare una traduzione vi dò la stessa storia come la lessi in un articolo degli anni ’40 del 900. https://marcopugacioff.blogspot.com/2016/11/cecco-dascoli-cavaliere-dellinvisibile.html

«Altra leggenda, ma spoglia del respiro infernale, aleggia intorno a Cecco e ci porta l’eco delle sue battaglie dottrinali col divino Poeta.

Sosteneva costui nei suoi insegnamenti scolastici, ispirati a pretese scientifiche, che l’educazione può modificare l'istinto: al contrario lo Stabili gli opponeva che la natura è più possente dell’abitudine.

E la leggenda racconta che Dante per convincere il contraddittore gli mostrò un giorno un magnifico gattone che reggeva colle zampe una candela accesa mentre egli scriveva o leggeva. Ma Cecco per nulla impressionato della regia dantesca e tanto meno convinto della spiritosa trovata, con furbizia professorale preparò la sua risposta.

E un giorno capitò in casa dell’amico con un pentolone sotto il braccio, entro cui aveva nascosto dei topi. E fattosi a lui avanti diede completa libertà agli immondi animali, i quali scorti dal gatto ammaestrato furono da costui inseguiti ed agguantati nonostante il richiamo del padrone.

Voi potete immaginare la gioia dell’uno e il disperato scoramento dell’altro.»

 

[Nota: P. Paolo Antonio Appiani (1639-1709). Notizie su Francesco Stabili (Cecco d'Ascoli) in Domenico Bernino, Historia di tutte l 'heresie. Roma, Bernabò, MDCCVII. Vol. III, p. 451.]

 

Questa storiella, riferita anche dal Pelli, (Memorie per servire alla Vita di Dante Alighieri. Firenze, Piatti, l823, p. 84) e da Isaac D'Israeli, (Anecdotes of the Fairfax Family 1866, II, p. 464), si trova attribuita al Piovano Arlotto nelle Facetie di lui (Fano, Parri, e. 35 v.) rifatta da Carlo Gozzi (Opere. Venezia, Zanardi, 1801-2, XIV, p. 60); in Marie de France (Robert, Fables inedites, I, p. l55); nella storia di Salomone et Marcolpho; in Lassberg (Liederaal, II, p. 47); in Tito Delaberrenga (Miche Letterarie, Venezia, Alvisopoli, 1842, p. 185); nel Dictionnaire étymolologique, historique et anecdotique des proverbes etc. Bruxelles, Deprez. Parent, 1850, p. 43.

 

  Poi, vi è un fatto reale, testimoniato nero su bianco, e che scaturì la diceria che Dante fosse un stregone…

 

Nella fantastica illustrazione di Angelo Bioletto, per il volume sulle Marche dell’enciclopedia Meravigliosa Italia,  è raffigurato l’astrologo marchigiano Pietro Bailardo che, in posa da Professor Occultis, evoca un diavolo.

 

XL

Dante mago

 (pagg. 96-100)

Su Dante mago non vi sono leggende propriamente dette ma vi fu certamente, anche lui vivo, qualche voce sopra la sua perizia magica, originata forse dalla sua fama di profonda sapienza,  in un tempo in cui scienza e magia sembravan formare quasi una cosa sola. Questa tradizione su Dante mago non ci viene attestata da una novelletta qualsiasi ma addirittura da un documento di un processo. Ecco la storia cosi com'è narrata dal Passerini: Si tratta adunque di un processo, o meglio di un frammento di processo, contro Matteo e Gaelazzo Visconti, per tentato sortilegio verso Giovanni XXII, nel quale occorre il nome di Dante Alighieri. Il frammento è contenuto in un codicetto cartaceo tutto di scrittura cancelleresca del tempo, e si compone di due atti notarili rogati da Gerardo di Salò, pubblico notaio di Avignone, segretario della Commissione inquirente che era composta da Bertrando cardinale di S. Marcello, da Arnaldo cardinale di Sant’Eustacchio, e da Piero abbate di San Saturnino di Tolosa.

Innanzi ad essi dalla cui lunga testimonianza si raccolgono assai curiose cose. Nella meta del mese di ottobre 1319, trovandosi Bartolomeo nella villa di Panano, ricevette da un messo di Matteo Visconti l’ordine di recarsi subito a Milano. Bartolomeo, naturalmente, obbedì: e il giorno di poi giunse in città, dopo avere, in fretta, percorse le venti miglia che correvano dalla sua dimora a Milano, e si presentò subito al Visconti che lo richiese di un importantissimo servigio, quale egli solo poteva rendergli. Ed ecco di che cosa si trattava: nientemeno, che di far magici suffumigi e altre operazioni simili a una statuetta d’argento, alta poco più di un palmo, raffigurante un uomo, «membra, caput, faciem, brachia, manus, ventrem, erura, tybias, pedes et naturalia virilia», sulla cui fronte il buon Bartolomeo lesse un nome: «Jacobus papa Johannes››; e un cotal segno magico che valeva «Amaymon››. Fatta fare cotal presentazione, il Visconti pregò il Canolati, con gran fervore, di voler far l'incantesimo «ad destructionem istius pape qui me persequitur», promettendogli, in compenso del gran servigio, di farlo ricco e possente «iuxta me et in terra mea». A questa richiesta il Canolati nega recisamente di poter nulla fare, e si protesta ignaro dell’arte di trar sortilegi; ma il Visconti, sdegnato, lo rampogna aspramente e lo minaccia, e, testimone un maestro Antonio «qui erat in alia parte camere» dichiara essergli ben noto come egli, Bartolomeo, possegga un suo meraviglioso filtro, «succum de Mapello» che è appunto un veleno, come pare, buono a fare la desiderata malia. Allora il Canolati, preso alle strette, confessa che veramente, di quel meraviglioso sugo ebbe talvolta forniti gli scrigni; ma ora non ne aveva né molto né poco, perché un agostiniano, frate Andrea d’Arabia, gli aveva comandato di gettarlo via: e dice anche dove: «in latrina»; ciò che l’obbediente Bartolomeo fece. A cosi esplicita e precisa dichiarazione il Visconti non potè opporsi: ma ripensando egli di ricorrere all’arte di un «Petrus Nani de Verona», che, pare «de le magiche frodi seppe il giuoco», mise in libertà il Canolati, non senza prender prima le precauzioni necessarie: cioè ingiungendogli di serbare il segreto sulle cose udite o dette, pena la testa. Il Canolati per altro non tenne fede: e spifferò tutto a un tal Simone della Torre, che, a sua volta, ne avvertì la Curia di Avignone, e un processo fu subito iniziato; comparisce un cotal Bartolomeo del fu Uberto Canolati milanese, contro i Visconti, con un primo interrogatorio di Bartolomeo il 9 febbraio del 1320. Tornato in patria, il Canolati fu preso e posto alla tortura perché dicesse la cagione del suo viaggio: ma fermo nel silenzio – sapeva ormai a che giova chiacchierar troppo! – dopo quarantadue giorni di prigionia fu liberato per la intercessione di gentiluomini milanesi, a patto che pagasse due mila fiorini per ammenda, e si recasse ogni giorno alla curia del principe. Frattanto Piero Nani aveva già, con suoi sortilegi, incantata la statuetta del papa Giovanni, ma senza ottenerne alcun buon effetto: si che Galeazzo di Matteo, dubitando della maestria del veronese, volle provarsi nuovamente, con persuasive maniere, ad indurre il Canolati a prestargli, una buona volta, la desideratissima opera sua. A questo effetto lo pregò con due suoi biglietti, uno del l5 e uno del 19 maggio, di recarsi a Piacenza, tacitamente, e subito, per amor suo. Vinto dalle parole e da’ cortesi inviti di Galeazzo, il Canolati finalmente si recò da lui, che era presso Piacenza, «et securn fuit ~ dice il documento - in exercitu Castri Mallei», dove il signor amicamente lo accolse, e, chiestogli scusa de’ mali trattamenti e de’ patemi rabbuffi, lo tenne dieci dì, colmandolo di cortesie e di graziosi donativi, e pregandolo insistentemente di voler fare il noto sortilegio. E di nuovo il Canolati schermendosi, e sperando Galeazzo, a sua volta, di vincere il chierico: «Scias – gli disse – quod ego feci venire ad me magistrum Dante de Alegiro (sic) de’ Florencia pro iato eodem negocio pro quo rogo te». Ma non commovendosi a tal notizia: – tanto meglio, –  rispose il Canolati; fatevi dunque servire da lui! – E Galeazzo a protestare che di costui non volea servirsi, ma preferiva l’opera del milanese. Se poi il Canolati facesse, dopo tanto e calde esortazioni, paghe le voglie viscontee non risulta da’ documenti; o almen non risulta da’ documenti veduti da me; è ad ogni modo assai probabile che se anche il «mal coto» ghibellino di Galeazzo e del suo padre potè avere effetto, l’arte del Canolati dovette trovar il pontefice sufficientemente munito di que’ «corni Serpentini» e di altre scaramanzie, di cui lo forniva la «dilecta in Christo filia» madonna Margherita di Foix».

 

    In un ms. della Biblioteca della Facoltà di medicina di Montpellier si trova una ricetta per trovar la pietra ñlosofale attribuita a Dante.

Motivum vel Sonetum Dantís phílosophi et Poeze Florentini.

 

Solvete i corpi in acqua, a tutti dico,

Voi che volete fare o Sole o Luna;

Delle du' acque poi pigliate l’una,

Qual più vi piace e fate quel ch’io dico.

Datela a bere a quel vostro inimico

Senza darli a mangiar cosa neuna.

Morto il vederete coverto a bruna

Dentro del corpo del Leone antico.

Poi li farete la sua sepultura

Per intervallo si che si disfaccia

Le polpe, l’ossa et ogni sua giunctura.

Poy fatto questo, facte che si faccia

Dell’acqua terra che sia netta e pura.

La petra harete, ancor che altro vi piaccia.

Della terra acqua, dell’acqua fare,

Cosi la pietra si vuol multiplicare.

Chi bene intende e pratica ‘l soneto

Signor sera di quel ch’altr’è suggetto.

 

«ll bresciano Nazari, nel suo libro Della trasmutazione metallica, sogna di vedere in un chiostro, tra le nicchie contenenti le statue dei più celebri alchimisti, anche quella di Dantes philosophus». (I. Della Giovanna. Rivista d’Italia, I (1898) 15 maggio, p. 144).

[Nota: (Pubbl. da Castes in Revue des langues romanes. Serie III, t. IV)]

 

Marco Pugacioff

[Disegnatore di fumetti dilettante

e Ricercatore storico dilettante, ma non blogger

(Questo è un sito!)]

Macerata Granne

(da Apollo Granno)

S.P.Q.M.

(Sempre Preti Qua Magneranno)

26/05/’23

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