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giovedì 11 maggio 2023

Il sogno del dottor Mišić di Šandor Gjalski (1890)

                     Il sogno del dottor Mišić 

di Šandor Gjalski (1890)

   Nell’antico maniero dei Jabučevački, luogo di fantasmi, di apparizioni, c'è un nuovo inquilino, il dottor Mišić. È un convinto sostenitore della ragione e della logica e ride di tutte le ipotesi dei suoi vicini sulle forze ultraterrene e sulla quarta dimensione. Tuttavia, viene presto perseguitato da strani sogni.

   Addirittura in uno di questi sogni, arriva a vedere il suo doppio, il suo doppelgänger nelle oscure catacombe che contempla il corpo di una ragazza su un tavolo da obitorio.

Šandor Gjalski (dalla rivista polacca "Echo Muzyczne", 1890, n. 378)

 

   È questo il tema di breve romanzo San doktora Mišića di Sandor Gjalski al secolo Ljubomir Tito Josip Franjo Babić, nato a Gredice presso Zabok in Croazia (allora sotto l’Austria), il 26 ottobre 1854 e scomparso durante il regno di Jugoslavia sempre a Gredice, il 9 febbraio 1935.

   Nacque in una famiglia nobile, e questo influenzerà la scelta dei suoi temi letterari. In alcuni suoi scritti non è solo un cronista, ma anche un paroliere sensibile, un artista raffinato e maturo. appare in primo piano il suo rapporto affettivo con la natura e la campagna dello Zagorje.

   Gjalski si cimentò anche in molti altri temi e motivi, coprendo quasi l'intera questione sociale del suo tempo. È ricordato come il primo critico e generalmente il primo scrittore croato che ha tentato di fornire una sintesi letteraria completa della società croata in cui viveva.

   In Italia la sua opera dovrebbe esser ancora inedita tranne Il sogno del dottor Mišić, un racconto fantastico, alla Edgar Allan Poe, stampato nel 1963 in La forza del sogno di autori vari, un libro della Collana Fenice n.5, della editrice Guanda. V. https://www.fantascienza.com/catalogo/opere/NILF1034734/il-sogno-del-dottor-misic/

  È sicuramente la traduzione del libro Puissances du rêve, éd. Roger Caillois, [Paris] : Le Club français du livre, “Récits ; 38”, 1962, p. 166-189, tradotto dal serbo-croato da Alexandre Grchich. V. http://levisagevert.com/bibliographie-auteurs/auteurs-g/auteurs-g/g0013.html

   Le visioni del povero dottore ebbero una versione televisiva nel 1973 (di un’ora e dieci minuti di  durata), realizzata dalla televisione di Belgrado, con l’attore  Ljuba Tadić (1929-2005) nella parte di Mišić, da cui ho tratto le immagini.


Il testo

   Già da molto, molto tempo, il castello Jabučevač aveva fama di esser infestato dagli spiriti. Costruito in legno, quel vecchio palazzotto non era più che una rovina. La famiglia dei castellani che per generazioni lo aveva abitato si era estinta, e da allora, nessuno l'aveva occupato a lungo. Ogni cinque o sei anni la tenuta cambiava di proprietario. Ogni autunno il vento s'infiltrava e urlava di più attraverso il tetto e le fenditure dei muri. Il suo cattivo stato lo rendeva ancor più sinistro, tanto che i contadini obbligati a passargli davanti, si proteggevano con un pio segno della croce. A dispetto di tutto ciò, la casa trovò un inquilino. Un medico mandato dal dipartimento, non trovando da sistemarsi in nessun posto, prese in affitto il castello. La storia che veniva attribuita a quella dimora non l'impensieriva gran che, era molto più preoccupato per il cattivo stato del luogo e per i topi. Il tetto fu ben presto riparato, e la casa ripulita. Una volta installato, il dottor Mišić venne a sapere dal suo vicino di essere un lontano discendente della famiglia Jabukoci, ed ebbe allora l'impressione di abitare la casa dei suoi avi. Egli era prima di tutto uomo di scienza, di scienze esatte, sperimentali e positive, e non poteva interessarsi che a cose che era possibile toccare con mano o provare con l'esperienza. Il suo spirito moderno, imbevuto di logica, lo teneva lontano da tutte quelle storie di apparizioni.

I discorsi del suo vicino Radicevic, che si sforzava di spiegargli tutti quei fenomeni con la quarta dimensione, lo facevano sorridere. Le vecchie signore del vicinato, più romantiche, credevano sinceramente a quei racconti terrificanti. Ma, egli pensava, eran tutte frottole, e scoppiava a ridere quando qualcuno gli chiedeva se aveva già incontrato dei fantasmi.

 


Malgrado la fama del castello, i contadini venivano a farvisi curare e la sala d'aspetto era sempre piena. Nessuno però osava andarci di notte.

«Almeno la notte mi appartiene», si diceva soddisfatto il dottore, andandosene tranquillamente a letto, e sapendo che non sarebbe venuto nessuno a disturbarlo.

Il dottore era un uomo intelligente e serio, di poco più di trent'anni.

Celibe, egli non aveva nessuna voglia di sposarsi, tanto s'interessava al suo lavoro. La sua salute era perfetta, ma poiché i suoi genitori erano morti giovani, egli diceva: «Non mi sento né debole, né malato, tuttavia il frutto non cade mai lontano dall'albero, e non ho nessuna voglia di lasciarmi dietro una giovane vedova».

Ma la vera ragione per cui egli era ancora scapolo consisteva nel fatto che non si era mai innamorato. Non che fosse insensibile e freddo, al contrario, troppo sensibile al fascino femminile, si innamorava di ogni bellezza che incontrava sul suo cammino. S'innamorava delle loro forme rotonde, tenere e belle, della loro pelle dolce, dei lunghi capelli serici ed opulenti. E quando il dottore ne parlava con entusiasmo, non alludeva alla bellezza di una sola donna, ma a quella dell'intero mondo femminile. Si estasiava dinanzi a forme scultoree simili a quelle di Venere, senza che per questo si potessero attribuire ad una persona determinata. Nell'occhio brillante della donna che abbracciava, non vedeva che uno sguardo femminile e la bellezza in sé. Questo slancio lo preservava dalla passione puramente animale. I suoi desideri gli permettevano di conservare un'anima pura. Egli ricercava la perfezione che sola era capace di soddisfare la sete della sua anima e del suo corpo. L'amore per la bellezza gli permetteva di proseguire gli studi e le ricerche alle quali aveva votato tutta la sua esistenza.

Il dottor Mišić aveva organizzato la sua vita a Jabučevač in modo abbastanza gradevole.

Aveva acquistato assai presto fama di medico abile e coscienzioso. Il suo lavoro gli rendeva, a dispetto del fatto ben noto che castellani e contadini pagano tardi e con difficoltà. A poco a poco il vecchio castello aveva perduto la sua aria trasandata. Ma la sua fama persisteva, ed il dottore si rifiutava sempre di credervi. Della stanza considerata la più terrificante, fece la propria camera da letto. Quanto ai domestici, essi lo abbandonavano tutti, gli uni dopo gli altri. Eppure il nostro medico era ciò che si chiama un buon padrone, e faceva ben poca attenzione al consumo del vino, dello zucchero e del caffè. I domestici lo trovavano «talmente buono» ma, piangendo, si dicevano forzati a lasciarlo per via delle apparizioni notturne.

Uno di loro aveva visto strane ombre, un altro fiamme che danzavano, il terzo affermava che una creatura trasparente era venuta a fargli la barba. La cuoca, poi, ripeteva strane conversazioni che pretendeva di aver avuto con le anime dei defunti.

Ella supplicava il dottore di lasciare quel luogo.

Prudentemente essa evitava di menzionare le bottiglie di rhum che discretamente beveva. Il dottore, da parte sua, dubitava dell'origine di questo straordinario potere. Trovava a volte divertenti queste storie, ma lui non aveva mai visto né sentito nulla. Quei rumori che sentiva, li attribuiva ai topi ed al vento. Vi si abituava e tutte le notti dormiva tranquillamente, con gran dispiacere del suo vicino Radicevic che sperava di ricevere presto il nostro dottore nella cerchia dei sostenitori della quarta dimensione.

Passarono circa otto mesi e le notti del dottore erano sempre calme. Ma da qualche tempo, tutte le mattine provava una specie di angoscia che gl'invadeva il cuore e lo opprimeva. In quei momenti perdeva il suo buon umore. Durante il giorno, il lavoro gli faceva dimenticare le sue angosce, ma la mattina, al risveglio, esse riprendevano il sopravvento. Il dottore non riusciva a spiegarsele. La sua vita monotona e regolare non poteva sconvolgerlo a quel punto. La causa doveva provenire dal suo stato fisico. Forse stava covando qualche grave malattia... ma egli era in ottima salute.

Fu allora che le premonizioni gli vennero in mente. Mišić trovò questa idea grottesca e non volle attardarvisi, era contraria al suo spirito logico. Pensò allora di soffrire di disturbi gastrici. «Certamente devo aver una cattiva digestione che mi provoca degli incubi. Poiché dormo profondamente, dimentico tutto fino al giorno dopo e la sola traccia che ne rimane è questa angoscia mattutina».

Egli trovava questa spiegazione fisiologica perfettamente soddisfacente. Convinto di aver trovato l'origine del suo male, decise di seguire un regime.

Malgrado ciò i disturbi del mattino persistevano. Diventava agitato e nervoso. Se cadeva il più piccolo oggetto, egli si metteva a tremare in tutto il corpo, e allo stesso tempo provava un dolore acuto sopra le tempie.

Bastava che due bicchieri si toccassero perché già nel suo spirito nascesse l'impressione che un lampo gli aveva attraversato il cervello. C'erano momenti in cui era di una tristezza estrema. Poco mancava che non si mettesse a piangere. E tuttavia non sapeva mai perché era triste, la sua tristezza non aveva né soggetto né forma. Mišić era completamente mutato.

La cosa era stata notata. Se ne parlò a casa di Radicevic, ma Mišić continuava a credere nella propria diagnosi.

«Avete torto», diceva Radicevic una sera in cui si erano riuniti a casa sua, «è proprio impossibile attribuire tutto ciò alla vostra salute. Quegli incubi non sono dovuti a mali di stomaco. Sarei piuttosto tentato di ripetervi ciò che vi ho già detto. Da sempre il castello di Jabučevač ha fama d'essere un eccellente strumento di comunicazione col mondo che esiste al di là dei nostri cinque sensi. Là non si possono ignorare i rapporti con l'altro mondo.

Se non aveste i nervi così solidi e se foste più ricettivo, anche le vostre impressioni sarebbero più chiare e più forti. Ma siccome voi resistete e rifiutate di credere, ebbene, allora, di questo contatto avuto con l'altro mondo, non resta nel vostro spirito che un'angoscia profonda. Se soltanto voi vi lasciaste andare, se accettaste di credere, chissà che cosa potreste vedere ed apprendere!».

Il dottore si accontentava di ridere e la conversazione seguitava così intorno a questo argomento. Mišić non contraddiceva più Radicevic, ed il curato, che era presente, esponeva allora le proprie idee sul mondo degli spiriti. Poi prese la parola Batoric.

«Perché mettete in ridicolo queste cose? Non sono dell'avviso di Radicevic, ma neppure a voi do ragione, caro dottore. Avete torto di credere vero solo ciò che può essere provato dall'esperienza scientifica. Nel corso della storia, ci sono stati sogni premonitori, presentimenti, non si può negarlo. Voi spiegate la vostra angoscia come un seguito di incubi e a questi ultimi attribuite una causa fisiologica. Io sarei pronto a credere che la vostra angoscia provenga dai vostri sogni, ma d'altronde sono persuaso che l'anima umana trova nuove forze durante il sonno e che questa forza rivela l'avvenire sotto un'immagine talvolta un po' deformata. Dunque non abbiate troppo timore...».

«Non temete, non ho paura di questi sogni premonitori, temo molto di più lo stato dei miei nervi ed i miei dolori di stomaco. Ed è per questo motivo che seguo un regime severissimo».

«Ebbene in questo caso vi dispensiamo dal bere con noi alla salute degli spiriti di Jabučevač. Ricordatevene tutti — il dottore non beve più».

«Eh! dottore, potrebbe darsi che fra gli spiriti si trovi qualche bellezza e che voi dobbiate pentirvi di non bere alla sua salute», disse ancora ridendo il vecchio.

Ma il dottore non si mosse e non toccò il suo bicchiere. Quando nessuno ancora pensava ad andarsene, si eclissò discretamente per raggiungere la sua casa.

Si mise ad un regime ancora più stretto. Non mangiava più la sera. Ciò nonostante, la sua inquietudine e il suo nervosismo mattutino peggioravano.

Oltre che di questa angoscia, egli soffriva di una specie di malinconia indefinibile. In quei momenti si sentiva innamorato. Giovani donne, leggere come rondini gli volavano davanti agli occhi. Inconsciamente la sua bocca si atteggiava al bacio. E tuttavia egli era sicuro di non amare alcuna donna.

Una notte, all'una del mattino, si svegliò di soprassalto. Aveva avuto un sogno così chiaro che le sensazioni provate nell'anima e nel corpo erano ancora presenti. Ora era ben sveglio; con suo grande stupore, un forte odore di acido fenico gli colpì le narici, egli non poteva spiegarselo, sia perché il suo laboratorio era molto lontano dalla sua camera da letto, sia perché non aveva fatto uso di fenolo la sera prima. Forse quell'odore poteva avere un qualche rapporto col suo sogno. Tentò di richiamarlo alla memoria.

Era entrato in una stanza oscura ed assai fredda, i muri erano umidi e coperti di macchie verdi e nere. Non capiva affatto per quale ragione si trovasse lì. Dopo poco, quando i suoi occhi si erano abituati all'oscurità, scorse un finestrino rotondo, proprio al disotto del soffitto. Ne filtrava un lungo raggio di luce biancastra. Egli si chiedeva se provenisse dalla luna o dal sole. Il raggio cadeva di scorcio in modo che tutta una parte della stanza veniva illuminata. Sul suolo di pietra giaceva il corpo di una fanciulla. Non si poteva distinguere se fosse morta o se riposasse. Tuttavia aveva la sensazione che i suoi occhi lo fissassero. Quello sguardo era strano, lo infastidiva, ma il dottore non riusciva a non guardare quel giovane corpo.

Quegli occhi erano meravigliosi, immensi e pieni d'incanto, lo sguardo era calmo e profondo. Lunghe ciglia lo nascondevano sotto un velo sottile. Più la guardava, più si sentiva attratto dalla ragazza. Provava un desiderio folle di gettarsi a terra per accarezzarla. In quel momento accadde qualcosa di straordinario, che, nel sogno, sembrò normale. Un altro uomo entrò nella stanza. Egli lo guardò e si riconobbe. Aveva un coltello in mano, e si chinò sulla ragazza per procedere ad una dissezione.

«Fermati! non è morta». Si mise a gridare rivolgendosi al nuovo venuto.

«Dimmi chi è e perché vieni qui, dato che ci sono già io».

«Sai bene che il nostro mestiere è come quello dei militari, dobbiamo essere pronti a fare il nostro dovere e a sacrificarci di continuo. Ho il mio dovere da compiere!».

«Ma fermati dunque, dimmi prima chi è questa ragazza; guarda com'è bella! Se mai dovessi amare qualcuno, amerei lei».

«Non essere stupido», rispose l'altro se stesso, e gli raccontò brevemente la storia della ragazza. Mišić non comprese nulla; poi l'altro si mise a cantare una canzone americana. Mišić se la ricordava benissimo. Era stato molto tempo addietro a Vienna, durante i suoi studi; un collega americano canticchiava la stessa aria nella sala di anatomia mentre dissezionava un braccio di donna e mangiava panini.

«Parli dunque inglese?» gli chiese Mišić tutto stupito. L'altro non rispose neppure, ma si avvicinò di nuovo al corpo. Sollevò il lenzuolo macchiato di sangue coagulato che copriva per m età la ragazza. Mišić rimase abbagliato.

Quel corpo era magnifico. Mai nella sua vita aveva visto una simile perfezione. Si sarebbe potuto paragonarlo a quello della Psiche del Canova, con le sue forme delicate, rotonde e perfettamente armoniose. Una splendida testa coperta d a folti capelli neri, riposava sul braccio sinistro, mentre il braccio destro era piegato sotto il seno, giovane e bellissimo. Non poteva distogliere lo sguardo pur avendo notato l'altro se stesso macchiato di sangue. Finalmente fu solo con lei. Si gettò per terra e l'abbracciò. Sentì subito un brivido percorrergli tutto il corpo, e la strinse ancora più forte. La ragazza gli rese il suo bacio.


I suoi baci erano gelidi — egli aveva la sensazione di perdere tutto il suo sangue. Ma continuò ugualmente ad abbracciarla, sprofondando lentamente nel torpore. All'improvviso non si trovò più nella stanza. Ondeggiava tra le braccia della ragazza, sprofondando irresistibilmente sotto le onde torbide e gialle, come il mare dopo i venti del sud. Aveva terribilmente paura ed anche molto freddo, ma continuava a tener stretta la giovane, e a coprirla di baci. Aveva voglia di parlare, ma non gli riusciva di pronunciare neppure una parola. Anche la ragazza rimaneva in silenzio. Ad un certo momento ebbe talmente freddo che pensò di morirne. Fu allora che si svegliò.

Il sogno gli era rimasto presente nella memoria. Con piacere ne rievocava i particolari. Si sentì più che mai in preda all'inquietudine. Gettò uno sguardo nella sua stanza. Tutto era calmo e tranquillo, i contorni dei mobili si disegnavano vagamente, come rotonde masse nere. Un sottile raggio di luna filtrava attraverso la finestra e cadeva perpendicolarmente nella stanza.

La pendola si trovava nell'oscurità, ma si percepiva nettamente il suo preciso e pigro tic tac. Sentiva anche il rumore forte e sgradevole della sua sveglia. Mišić le diede uno sguardo, era l'una e dieci. Si girò verso il muro e si riaddormentò.

Dopo un po' si svegliò di nuovo. Pensò che fosse mattina. Guardò l'orologio: era l'una e sedici. Aveva creduto di aver sognato almeno per dieci ore. Si trattava ancora della ragazza. Questa volta Mišić la vedeva in mezzo ad una vasta landa. Il suo sguardo era fisso come sempre, e mentre Mišić si avvicinava, la ragazza gli si gettò al collo per abbracciarlo con passione.

Dapprima egli la lasciò fare con una certa reticenza, poi s'abbandonò con vero piacere. Ma i baci della ragazza erano freddi come il ghiaccio.

Un'acqua sporca e fangosa cominciò allora ad affluire da ogni lato, accerchiando la coppia. Non provava alcuna paura, e si lasciava abbracciare mentre accarezzava il bel corpo della ragazza. Ella gli ricordava Ebe. Volle cantarle il suo amore in ditirambi, paragonando la sua bellezza al mughetto, agli uccelli della foresta, ai pesci argentei del ruscello. Mentre si estasiava in questo modo, la ragazza fu improvvisamente circondata da fiori, uccelli e pesciolini che si posavano ora sui seni, ora sulle spalle, ora sul collo, rendendola ancora più bella. Si aggiunsero poi mazzolini e corone di fiori che non aveva mai visto prima. Seguiva un lungo corteo di migliaia di pesciolini lucenti. Tutto questo piccolo mondo meraviglioso si mise a danzare intorno ai due giovani, fra le onde d'argento. Dalle scaglie dei pesci, dalle penne degli uccelli, dai petali dei fiori, emanava una luce azzurra fosforescente, che illuminava tutta la valle. Si vedevano giungere da lontano altri sciami di pesci rossi e dorati. Brillavano come rubini, smeraldi e topazi.

 

«Venere Anadiomene!» esclamava gioiosamente Mišić baciando il gelido collo della ragazza. La stringeva sempre più forte mentre lei restava aggrappata a lui senza dir parola e senza muoversi, pur restituendogli i suoi baci. Poi si trovarono entrambi su di una specie di zattera, con corone di cipresso sul capo. Migliaia di pesci e di mostri marini trascinavano l'imbarcazione sempre più lontano. I loro movimenti erano carichi di voluttà. Essi non si preoccupavano di sapere dove fossero diretti; navigarono così per lunghe ore passando in mezzo a enormi rocce di corallo, oppure sprofondando in abissi vertiginosi, e anche là c'erano fiori, e ancora fiori. La luce era triste e al tempo stesso fiabesca. Poi non era più una zattera, ma una specie di cofano che non seppe definire a prima vista.

Scoprì in seguito che era una bara. Lo invase una pace dolce e piacevole, era felice e si sentiva leggero con quel corpo incantevole al suo fianco. Solo Dio sapeva quanto tempo era trascorso. E del resto, egli se ne preoccupava poco.

La bara colpì uno scoglio e Mišić cadde in una voragine. Ebbe una grande paura e si svegliò. Non riuscì a riaddormentarsi fino al mattino.

Rifletté allora su quanto gli avevano detto i suoi amici Batoric e Radicevic. La sua mente razionale li avrebbe certamente contraddetti, malgrado egli non si sentisse più del tutto a suo agio.

Aveva un bel tenere gli occhi spalancati, rivedeva l'immagine della ragazza ed era ancora sotto il suo fascino. Ricordava con precisione le curve del suo corpo, gli si contraevano le dita per il desiderio di toccarla. Spesso si ripeteva: «Ah, se potessi incontrare una donna simile nella vita!».

Avrebbe voluto saper dipingere o scolpire, per poter così offrire al mondo quel capolavoro. Si addormentò di nuovo al mattino di un sonno profondo e calmo. Quando si svegliò alle dieci, la camera era inondata di luce. Dovette mettersi subito al lavoro; l'ingresso ed il corridoio erano pieni di malati.

Malgrado il daffare, non riusciva a liberarsi del suo sogno. Ne era come ossessionato e le idee di Radicevic lo perseguitavano.

«Ah! sciocchezze», egli s'interrompeva, ma soltanto per riflettere sulle parole di Batoric.

Conosceva un po' la filosofia di Schopenhauer, conosceva soprattutto le sue idee riguardo ai sogni. Ma Mišić, il materialista calmo e riflessivo, non esisteva più.

«Che ne so?» si disse alla fine alzando le spalle, mentre scriveva una ricetta per un contadino che diceva di soffrire di una malattia incurabile.

Non riusciva a liberarsi dell'immagine della ragazza del sogno. Fra i malati, c'erano alcune donne, ed egli non poteva fare a meno di paragonare le loro forme a quelle che aveva visto durante il sonno. Fu ossessionato da quella immagine per il resto della giornata.

Una sera, invece di recarsi, come al solito, a far visita ad uno dei vicini, si diresse verso il giardino, per respirare un po' d'aria fresca. Sperava di trovarvi sollievo e d'altra parte, aveva voglia di restar solo e di pensare tranquillamente. Il giardino era immenso e si estendeva al di là delle colline. I vecchi alberi da frutto gli davano a tratti l'aspetto di una foresta.

C'erano poi grossi tigli, betulle e abeti. Non appena calava il sole, un'ombra fitta regnava dovunque. I piccoli sentieri erano invasi dall'erba in modo che si scorgevano appena. Da una parte del giardino si trovava la casetta rovinata del giardiniere, di là partiva un viale stretto, fiancheggiato da cornioli e da faggi, che portava ad una collina artificiale sulla cui sommità era un padiglione cinese, anch'esso in rovina.

Il dottore prese quella strada per godere il panorama prima del calar della notte. Giunto al padiglione, vide la pianura che scomparve poi nel crepuscolo. I pipistrelli volavano qua e là, i corvi tornavano sulle cime degli alberi per dormire. Nel fossato, invaso dalle erbacce, ai piedi del padiglione, qualcosa si mosse facendo molto rumore. Mišić tremò. La visione della ragazza del sogno l'ossessionava sempre. Se soltanto ella potesse trovarsi al mio fianco, e viva! si diceva. E, con molta tenerezza, si mise a pensare alla tenera creatura di Goethe. La ragazza del sogno gli apparve come un essere altrettanto misterioso e lontano.

«Ma come potrebbe raggiungermi?» si chiese ad alta voce, rendendosi conto che la domanda era puerile.

Tuttavia una sensazione strana lo agitava. Aveva a volte la netta sensazione che la ragazza fosse viva e che fra loro esistesse un legame.

Gli parve che qualcosa avesse sorvolato il fossato, in lontananza.

Sussultò e rabbrividì in tutto il corpo.

«Sono molto malato; ho i nervi a fior di pelle per via di tutte queste sciocchezze». Nello stesso istante ebbe l'impressione che qualcosa l'avesse sfiorato. Si voltò bruscamente, ma tutto era calmo e tranquillo — come morto. Neppure le foglie si muovevano più, c'era soltanto, lontano, un uccello che volava, di cui non riusciva a distinguere la specie. Il dottore lasciò il padiglione di cattivo umore, e riprese, irritatissimo, a percorrere il viale. Anche là era tutto calmo — solo qualche merlo o qualche scoiattolo che cercava il suo posto tra i rami folti degli alberi. Suo malgrado, ricominciò a sognare. Pensò dapprima al suo lavoro, poi rivide la ragazza in circostanze diverse. Sempre però con tale precisione che avrebbe potuto toccarla. Quando si trovava sotto l'influsso di questo fantasma, il suo senso estetico era completamente soddisfatto. Ammirava l'ovale regolare del viso, la massa dei capelli neri, le spalle ed i giovani seni. Lo stupivano la vita sottile e la schiena. La sua passione era talmente forte che riusciva a stento a credere che si trattasse di una fantasia.

Intanto la notte era caduta e il viale non si distingueva più. Tornò allora al padiglione. Non appena arrivato, fu ripreso dall'angoscia. La dolcezza della sera l'opprimeva; anche i grilli ormai tacevano, il dottore non udiva più che i battiti del suo cuore. Gli parve di sentire un bisbiglio dietro di lui: ma, voltandosi, non vide nulla. Si era appena levata la luna, che illuminava il padiglione e i luoghi all'intorno. Il dottore ripensò al suo sogno. Il mormorio dietro a lui riprese, ed egli credette di sentire mormorare il proprio nome. Mišić sussultò, gli occhi fissi sul fossato.

Senza alcun dubbio, la creatura dei suoi sogni si trovava là. Gli faceva dei segni. Il dottore non distingueva molto bene la sua figura, ma aveva ugualmente l'impressione che quel volto fosse triste e che invocasse aiuto.

Avanzò leggermente, ma subito si riprese.

«Oh! sono pazzo! — cosa faccio! perdo la ragione!» esclamò con angoscia portandosi le mani al capo, che scottava, con il sangue che gli batteva nelle vene.

Lasciò con passo frettoloso il padiglione. Vergognandosi, si avvicinò al fossato e sedette nell'erba proprio nel punto in cui credeva di aver visto l'apparizione. Il salto di una rana lo spaventò. Il luogo era calmo, non v'era nulla di straordinario. Un cespuglio fiorito di lillà bianchi gli offrì la spiegazione della visione.

«È così, dunque!» si disse con un sorriso soddisfatto. E decise di fare un bagno freddo appena tornato a casa.

Quella notte non ebbe sogni. Dormì a lungo e quando si svegliò il sole era già alto all'orizzonte. Non provava nessuna angoscia.

«Grazie a Dio!» esclamò, attribuendo al bagno freddo il suo sonno profondo.

Decise di continuare quella nuova cura. «Lo sapevo bene — tutto ciò dipende dai nervi in cattivo stato!» Dopo pranzo, cominciò a sentire la mancanza dei suoi sogni, aveva un desiderio folle di vedere la ragazza.

Pensando che non l'avrebbe più rivista se i sogni non si fossero ripetuti, ne fu assai triste. Gli pareva di aver perduto una buona e cara amica.

Non ebbe visioni per otto giorni. Ma ne sentiva la mancanza. Dopo tutto, i sogni non fanno male e il desiderio di rivedere la ragazza e di ammirare la perfezione di quel giovane corpo era grandissimo. Non ne aveva parlato con nessuno fino a quel momento. Un bel giorno, credendo che tutta la storia fosse finita, ne parlò a Batoric, mentre era a casa sua, a Brezovica.

Magnificò estasiato il fascino e la bellezza della giovane.

«Fine finaliter», aveva adottato il modo di parlare dei suoi vicini, «si cela in me un artista — un pittore, o magari uno scultore — ed io sono soltanto un medico. Ho proprio paura di aver mancato la mia carriera», finì ridendo.

Radicevic scosse la testa, e gli chiese di raccontargli ancora una volta l'episodio del giardino.

«Ma ve l'ho detto — i nervi. Dipende tutto da un eccessivo nervosismo», concluse Mišić.

«Sì, sì, hai ragione» replicò Batoric, «direi anch'io che sono i nervi. Ma per quanto riguarda i sogni, è un'altra cosa. Ricorda il nostro vecchio Orazio: Post mediam noctem, cum somnia vera... ed i Romani erano persone intelligenti e possedevano il dono di scoprire la verità. Esiste un libro scritto da un certo Artemidoro, intitolato Oneirocriticon. Dovresti procurartelo e leggerlo, vi troveresti la spiegazione del tuo sogno».

Il dottore sorrise, e a pranzo, seguendo il suo regime, mangiò pochissimo.

Parecchi giorni dopo, sognò di nuovo. Ancora una volta rivedeva il corpo magnifico della ragazza. Questa volta egli era studente alla facoltà di Vienna e si trovava nella sala di anatomia. L'usciere gli diceva che gli aveva procurato un corpo intero da dissezionare, che si era dato molto da fare per averlo e che per questo motivo tutti gli altri gliene volevano. «Attento, dottore, che non vi accada nulla, — è talmente bella — potreste lasciarci il cuore», gli disse ancora l'usciere.

Avvicinandosi al tavolo, vi scorse la ragazza, tutta nuda. Pensava di averla già conosciuta ma non riusciva a ricordarsi in quale occasione, né dove l'avesse già vista. Abbagliato dalla sua bellezza, egli esitava a prendere il coltello. Gli dispiaceva esser costretto ad affondare il bisturi in quel meraviglioso seno.

D'un tratto non poté muoversi. Aveva braccia e gambe paralizzate, lo sguardo fisso, e non vedeva più nulla. Da molto lontano gli giungevano dei discorsi in latino che non capiva. Tuttavia si rendeva conto che era latino, e che lo faceva soffrire. Si svegliò all'improvviso e gettando un'occhiata alla sveglia vide che era l'una e dieci. Come sempre!

— «Post mediam noctem, cum somnia vera...» — furono le prime parole che pronunciò con terrore. E di nuovo l'angoscia lo prese.

«Se potessi vederla, la mia piccola bellezza!» mormorò tristemente. — Che significa questa visione che mi perseguita? Gli avvenimenti di cui sogno si svolgono più o meno allo stesso modo. Questo fantasma mi dà sensazioni più forti della stessa realtà». Ora non ragionava più, ma si abbandonava dolcemente ai suoi sogni.

«Perché mai devo sempre vederla in circostanze così orribili?» — si chiedeva, e si sentì oppresso da un'immensa malinconia.

Da quella notte i sogni ricominciarono, e le circostanze erano sempre altrettanto macabre. Si destava ogni volta atterrito. Se gli accadeva di dormire fino alla mattina, si svegliava in uno stato di tristezza profonda, come se fosse in attesa di qualcosa di terribile.

La ragazza continuava a visitarlo tutte le notti. Avvenivano tra loro incontri interminabili in luoghi strani e ignoti, e scene drammatiche, nelle quali la gelosia aveva una gran parte. L'immagine della ragazza rimaneva pura, di una bellezza perfetta, ma circondata da una specie di aureola di tristezza e di infelicità.

Aveva cominciato ad amare i suoi sogni, e non voleva privarsene. Per esser più certo di averli, la sera si sforzava di pensare alla ragazza. Ma si accorse ben presto che se pensava a lei prima di addormentarsi non la sognava mai. Non ne parlò più con nessuno. Se Radicevic o Batoric facevano domande, egli si sottraeva sorridendo e cambiando discorso. Non sapeva più cosa fare, desiderava solo rivederla. Da bambino, aveva preso lezioni di disegno. Tentò di fare uno schizzo di lei, ma dovette rinunciare dopo vani tentativi. Cercò un altro mezzo: annotò coscienziosamente i sogni in un taccuino.

Una sera in cui si era coricato presto, spossato dal lavoro della giornata, chiuse le imposte perché minacciava un temporale. Si addormentò quasi subito. Sognò di dormire in quel medesimo letto. Attraverso la fenditura delle imposte, una luce azzurrognola filtrava nella stanza. Vide il suo cameriere penetrare nella stanza vicina, reggendo in mano una candela a metà consumata. Costui si diresse verso l'armadio e ne tirò fuori una bottiglia del suo miglior cognac. La mise sotto la giacca e lasciò la stanza in punta di piedi. Sempre sdraiato nel suo letto, il dottore lo vide percorrere il corridoio per scendere a pianterreno e finalmente entrare nella sua camera, piena di uomini e donne. Ora il dottore non vedeva più il suo domestico, ma non fu per nulla stupito di aver potuto osservare questi avvenimenti dal suo letto. Volse lo sguardo verso l'esterno, e si accorse che fuori pioveva forte.

Sulla strada un carro correva veloce. Ora vedeva a distanza, — solo Dio potrebbe dire fin dove la sua vista giungeva. In fondo alla strada nazionale c'era una casa bassa, molto lunga. Era un albergo. Davanti c'era una folla di mezzadri, nella anticamera piena di fumo altri mezzadri, contadini e vagabondi di ogni specie. L'albergatore, grosso e grasso, e sua moglie, secca e sporca come la servetta di Kranj, si agitavano nella folla distribuendo vino, sigari o acquavite. In un angolo, vicino alla stufa, era seduto un uomo tutto curvo, coperto da un lungo mantello, talmente logoro che non se ne riconosceva più neppure il colore originale. Teneva sulle ginocchia un violino. I capelli lunghi e ricciuti gli nascondevano per metà il viso cupo e tormentato. Aveva una barba lunga, e poiché teneva la testa china, questa gli ricadeva fino a metà petto. Al minimo segno di richiamo egli riprendeva il suo violino, si raddrizzava e cominciava a suonare. Un lungo accordo percorse la sala perdendosi nel frastuono generale. Il musicista volse tristemente il capo. Da qualche parte, forse da dietro l'armadio, sorse una ragazza, in tenuta da circo rosa con nastri azzurri.

 


Ponendosi di fronte al musicista, ella si mise a cantare con una voce melodiosa e divina. Prima con calma, poi con passione e forza, terminando con un mormorio di suoni teneri e penetranti, che morivano dolcemente.

Il dottor Mišić era persuaso di non aver mai sentito quella canzone, e d'altro canto non ne comprendeva le parole, ma era bellissima. Non riusciva a vedere il volto dell'interprete. Verso la fine, la folla si mise a protestare: non volevano musica triste. Reclamavano una musica gaia, la zingara doveva cantare un'aria del luogo. In quel momento la ragazza si volse verso l'uditorio. Il dottore la riconobbe subito. Lo stesso ovale pallido, i grandi occhi tristi, i capelli neri ed il collo di cigno. Soffriva di non poter lasciare il suo letto. Eppure ella era più bella che mai. Aveva sempre lo stesso viso con quello stesso sguardo triste, ma da tutto il suo essere emanava la giovinezza e la vita. Era incantevole; timida ed infantile, con un lieve sorriso negli occhi lucenti sotto le lunghe ciglia. Si mise a cantare di nuovo. L'aria era ancora più triste. Mentre cantava, tutti tacevano. Gli ubriaconi del villaggio l'ascoltavano a bocca aperta, con i gomiti sul tavolo. Altri, che erano ancora in piedi, si avvicinarono formando un cerchio intorno alla ragazza.

Asciugandosi una lacrima, essi approvavano con un movimento del capo.

All'ultimo accordo, dal retrobottega sorse un tumulto. «Non voglio canti funebri, mi viene il mal di stomaco. Ehi, strega, cantami qualcosa di allegro!» Un vagabondo saltò dal suo banco, rompendo tutti i bicchieri al suo passaggio e, ubriaco, si diresse verso il musicista. «Che ci canti qualcosa di allegro!» gridavano altri che si erano uniti al vagabondo e che ora circondavano il violinista.

«Lasciatemi, mascalzoni...! lasciatela cantare, dunque! È così bello! Cosa volete?» — Deve continuare, protestavano quelli che si trovavano intorno a lei fin dall'inizio.

«No! No!» — Successe un parapiglia. Il violino del musicista fu fatto a pezzi. Costui, sconvolto, prese la ragazza per un braccio e si diresse verso l'uscita. Una bottiglia lanciata all'improvviso, la colpì alla tempia, ed ella crollò senza un grido, ripiegandosi su se stessa. Il dottore lanciò un grido e si svegliò.

Era così agitato che non poté più addormentarsi. «Da dove provengono tutte queste immagini terribili e strane?» si chiedeva spaventato. «Non saranno i primi sintomi della follia? — Tutto è così chiaro fin nei minimi particolari, come se l'avessi davvero vissuto! Non c'è il più piccolo elemento fantastico in tutto il sogno. Oh! mi pare di aver già visto tutto ciò!

Ora basta con gli scherzi! È necessario che mi rechi da uno specialista a Vienna. Bisogna che mi metta in osservazione. Sarebbe comunque spaventoso che io diventassi pazzo».

Era disperato. Decise fermamente di non pensar più alla ragazza. «È di là che vengono tutti i miei sogni. Sono così reali che finiscono per superare i loro limiti». Non poteva più restare a letto. Si alzò e si mise a camminare su e giù per la stanza. Poi, senza sapere perché, si recò nella camera accanto ed aprì l'armadio. Lanciò un'occhiata al ripiano riservato alle bottiglie. Gli mancò il respiro: mancava proprio la bottiglia di cui aveva sognato. Si diresse subito verso la stanza del domestico. Dal corridoio sentì cantare, come nel suo sogno. Per un attimo, gli ritornò l'angoscia. Poi si riprese: «Ah, ma certo, pur dormendo, io sentivo questo baccano e il sogno ha fatto il resto!» Tornò in camera rinfrancato, con un sorriso sulle labbra. «Dopo tutto — o meglio ancora — fine finaliter, stavo proprio per diventare un secondo Radicevic».

Passando davanti all'armadio si ricordò del cognac. «Ah, una pura coincidenza.

Probabilmente me n'ero già accorto ieri, e non ci pensavo più».

Si rimise tranquillamente a letto.

Il giorno dopo, verso mezzogiorno, aveva appena finito le sue consultazioni, quando si presentò a casa sua un corriere da parte del giudice comunale. Piuttosto lontano, ai confini del comune, c'era stato un delitto. In altre circostanze egli avrebbe accolto freddamente una simile notizia.

Questa volta invece ripensò subito al sogno. «C'è però qualcosa di vero qui dentro!» — si disse a bassa voce, mentre scorreva il foglio ufficiale. — Ma il suo spirito caustico riprese il sopravvento. «Nervoso come sono, sto diventando scemo».

Gli tremavano le mani mentre preparava la solita borsa di cui si serviva nei casi di dissezione. Fu costretto per ben tre volte a ritornare nel suo gabinetto, a prendere l'uno o l'altro oggetto che aveva dimenticato.

Il consiglio aveva già lasciato gli uffici. Il giudice e il suo segretario erano già usciti con l'altro medico, per arrivare in tempo sul luogo.

Era un caldo pomeriggio d'agosto. Spesse nuvole di polvere gialla si alzavano intorno alla vettura. L'aria era pesante, e si respirava a fatica. Il dottore aspettava con impazienza di compiere il suo sgradevole compito.

Ma provava una specie di ansietà, pensando al momento in cui si sarebbe trovato sul luogo del delitto. Non sapeva esattamente il motivo, ma non riusciva a liberarsi dall'idea che il suo sogno avesse qualche rapporto con la realtà.

«Dopo tutto — chi lo crederebbe! — non ha importanza. Queste faccende imbrogliano sempre le idee. In ogni caso, ho imparato qualcosa.

Non si è mai al riparo dalle superstizioni!»

Giunse a destinazione circa due ore dopo. L'agente locale lo aspettava per accompagnarlo all'obitorio dove si trovava già il consiglio. Trovò gente che si accalcava intorno al tavolo preparato davanti alla cappella mortuaria. Il cancelliere stava registrando le dichiarazioni dei testimoni. Il dottore lanciò un'occhiata circolare sulla folla, e si stupì che tutti quei volti gli sembrassero un po' familiari. Gli mancò il tempo di pensarci sopra. Il giudice gli indicò la porta della cappella mortuaria chiedendogli di procedere subito alla redazione del verbale medico mentre lui seguitava l'interrogatorio.

«Si trattava di un assassinio — hanno ucciso una zingarella. Fate dunque il vostro lavoro, dottore, e dateci poi il vostro verbale. Non perdiamo tempo. Farete voi la dissezione e il dottor Asbajer, qui presente, controfirmerà la vostra dichiarazione».

«Certo. Ve ne prego, caro collega» replicò il vecchio dottore. Era molto anziano e molto obeso. «Ho avuto troppo spesso questo piacere, e ho mal di testa, preferirei non entrare neppure. Intanto farò una corsa al villaggio e tenterò di trovare un buon bicchier di vino. — Caro collega, porterete a termine la cosa anche senza di me. In ogni modo il caso è chiaro. Un colpo mortale alla tempia, mi pare proprio che sia la sinistra, — il cranio sfondato al di sopra dell'orecchio — sì, sì senza alcun dubbio. A presto, dunque!

Sarò di ritorno prima ancora che abbiate finito». E rivolto al giudice: «Siete d'accordo, Signor Giudice Istruttore». Si diresse verso il villaggio con un'andatura barcollante.

Il dottor Mišić preparò i suoi strumenti, chiese dell'acqua e, accompagnato dall'agente e dal becchino, entrò nella cappella. Vi regnava la penombra. La stanza era stretta; i muri erano umidi e coperti di macchie verdi e scure. C'era odor di muffa. L'odore del cadavere era appena percepibile. In mezzo alla stanza si trovava un tavolo rozzo, e sopra v'era un lungo lenzuolo sudicio, dal quale spuntavano un paio di scarpe logore e coperte di polvere. All'altra estremità, il lenzuolo era macchiato di sangue.

Il dottore aveva perduto la sua calma abituale. Era ossessionato dal suo ultimo sogno, e scorgendo le macchie di sangue gli tornarono alla memoria anche quelli precedenti.

«E se fosse proprio lei! che orrore!» pensò. L'idea di vederla morta era peggiore di quella di veder realizzato il suo sogno. La sua emozione era quella di un innamorato tremante per il destino della donna amata. Di solito, quando doveva fare una dissezione, spogliava lui stesso il corpo, non volendo lasciare questo compito alle mani maldestre dei contadini. Quella volta non ne fu capace: chiese al becchino di fargli quel servizio. Intanto si volse verso la porta ad osservare il giudice che continuava il suo interrogatorio.

«Ma chi saprebbe dirlo quanti eravamo — l'albergo era pieno» diceva una voce. «Poi hanno cominciato a far baccano e a picchiarsi; non so dire né come né perché. Come se ci si fosse messo di mezzo il diavolo, certe

volte succede. La gente aveva bevuto, — chi riuscirebbe ad indicare il colpevole. Io non sono stato — lo giuro davanti al crocifisso — non ho toccato nessuno. Non sono stato io!».

«Ahi, ahi!» piangeva un'altra voce aspra. «Siete tutti colpevoli. Ah, Dio mio, uccidere una simile figliola? Mi faceva vivere, lei — ah, povero me!

Che farò adesso? Prego Sua Eccellenza il Giudice di arrestarli tutti — e che mi paghino, che mi paghino molto. Hanno ucciso la mia povera bambina come un gatto! Mi hanno anche fracassato il violino, un violino italiano, antico. Nessuno ne aveva uno migliore!»

Mišić trovava familiare quella voce, e volle uscire per vedere il vecchio che si lamentava. Ma qualcosa lo tratteneva e non si mosse.

«Abbiamo finito» dissero le voci del becchino e dell'agente. Il dottore sussultò e prese la borsa. Fuori, il vecchio si lamentava più che mai.

Sebbene non ci fossero problemi, il dottore rimase a lungo chino sulla borsa per scegliere i suoi strumenti.

«Ci occorreranno altre candele» osservò il becchino per ricordare al dottore che era tempo di cominciare.

 


Mišić si avvicinò al tavolo sospirando. Si era chinato per veder meglio.

«Eppure non sono Radicevic» disse riprendendosi e si avvicinò di nuovo al tavolo.

«Ma è lei!» esclamò indietreggiando di qualche passo. Le braccia gli pendevano lungo il corpo, mentre le mani stringevano gli strumenti che aveva preso poco prima. Sul tavolo giaceva il corpo di una ragazza bella e giovanissima. Il bel viso tenero fissava il dottore con occhi colmi di terrore.

Tra le ciglia e le sopracciglia era rimasta un po' di polvere, la massa dei suoi lunghi capelli neri cadeva in disordine verso il suolo. Sotto l'orecchio, una ciocca formava un nodo intriso di sangue.

«No, non è possibile» disse tra sé il dottore dopo un momento. «Deve essere un'illusione, come l'altro giorno in giardino, quando avevo scambiato un lillà bianco con una ragazza. Sono ancora i miei nervi!

Più guardava quel corpo, più i suoi dubbi diminuivano — era identico a quello dei suoi sogni. «È proprio lo stesso viso, sono le stesse forme che vedevo e rivedevo in sogno! È lei, è lei» esclamò pieno di tristezza. Gli si riempirono gli occhi di lacrime.

«È lei», mormorava, respirando a fatica, senza poter staccare lo sguardo dalle belle forme pallide e da poco irrigidite. Riconosceva ogni linea di quel corpo. Ritrovava il piccolo neo al di sopra dell'anca destra. Il braccio destro della ragazza era piegato sotto il seno, esattamente come nel suo primo sogno. Ebbe molta paura. Come se sul suo capo fosse passata una nube di cattivo augurio, diffondendo sopra di lui un'ombra dell'aldilà.

«I sogni non mentono, dunque» disse ad alta voce, senza tener conto della presenza degli uomini. «Lo stesso corpo, le stesse circostanze. Ed anche il fatto. L'uomo ha pur dichiarato che c'è stata una rissa. Ma potrebbe anche darsi che fosse una semplice coincidenza. Forse non vedo bene. I miei nervi sono malati. Facevo sempre lo stesso sogno e finisco per vederlo dappertutto». Si volse nervosamente verso il becchino chiedendogli l'esatta descrizione del corpo. Un po' stupito, costui si grattò un orecchio, e poi si rivolse all'agente con espressione ebete.

«Ma guardatela, signor dottore. È bella, è un peccato averla uccisa. Una ragazza così giovane!»

«Ma ditemi, come sono i suoi capelli? È robusta, è... ma parlate, dunque!»

«Per l'amor di Dio, signor dottore, ha i capelli neri. Il suo corpo è — come devo dire — eh, è giovane, è bella, e non è robusta».

«Ha un segno al di sopra dell'anca?»

«Ma sì, certamente, che ce l'ha! Guardate voi stesso».

«Allora vedo bene e vedo giusto!» disse il dottore a se stesso. «È lei, è lei». Ora non pensava più al sogno, ma contemplava quel bel corpo senza vita. Voleva rimaner solo con lei e, un po' bruscamente, fece uscire i due uomini.

Rivolse un lungo sguardo alla giovane morta, che, proprio come nei suoi sogni, splendeva in tutta la sua bellezza. L'anima gli si colmò di una immensa tristezza, di pietà e di disperazione. «Com'è bella! Avrebbe meritato solo felicità per la sua bellezza, ed ora non è che un cadavere.

Perché è accaduto?» e prese ad immaginare la vita miserabile di quella povera musicista errante. Non bastava che avesse trascorso la vita sulle strade, in continuo contatto con la miseria, con il peccato e con gli affanni.

Doveva anche patire una così crudele e precoce morte. Il dottore inorridì al pensiero di quel destino infelice. Poi si ricordò i suoi sogni d'amore. Gli parevano veri. Piangeva la sua amata come un amante prostrato. Si rattristava sulla sorte che lo condannava a vedere colei che aveva regnato nei suoi pensieri senza vita, distesa sulla tavola di una cappella mortuaria.

Aveva voglia di abbracciare quel corpo esanime. Cominciò a vaneggiare, dichiarando ad alta voce che la ragazza gli apparteneva per sempre, e che tutti quei sogni che aveva avuto dovevano pur avere il loro significato.

«Sì, sì. Le nostre anime si erano incontrate. Hanno vinto ogni barriera fisica. Essa è mia, è mia».

Si chinò e baciò le labbra fredde. La sensazione di freddo e il leggero odore di cadavere lo fecero dapprima indietreggiare. Guardandola ancora, se ne vergognò e si mise a baciarla per tutto il corpo. Finì per riprendersi e per staccarsene. Cominciò a piangere. Le lacrime gli scorrevano sul viso stravolto dal dolore.

«Allora, a che punto siete, dottore?» interruppe la voce del giudice sulla porta. «Io, più o meno, ho finito». Il giudice prese a raccontare quanto era emerso dall'interrogatorio. Tutto si era svolto come nel sogno del dottore. Il padre della ragazza scivolò nella stanza. Vedendolo subì un'altra scossa. Era

il musicista del suo sogno.

«Che c'è, dottore? siete pallido» seguitò il giudice, notando l'aspetto strano del medico.

«Niente affatto. Non faccio dissezioni da un po' di tempo».

«Se per caso vi sentiste male, potrebbe farla il dottor Asbajer. Lo manderò a cercare; è un po' vecchio, e non è facile per lui.

«No, no!» esclamò il dottore. L'idea che qualcun altro potesse esaminare quel corpo gli era insopportabile. «Tocca a me. Devo fargli almeno questo favore» diceva tutto smarrito.

Il vecchio musicista si era rifugiato in un angolo, e non smetteva di lamentarsi. Piangeva sua figlia e il suo violino. Il giudice voleva farlo uscire, ma egli lo supplicò di lasciarlo. Il dottore fece uscire tutti meno il becchino che doveva stargli a fianco per aiutarlo.

Rimasto solo, si sforzò di mantenersi calmo. Si tolse la giacca, si rimboccò bene le maniche e prese i suoi strumenti.

La prima incisione fatta in forma di croce sulla fronte gli causò un dolore profondo. Quella graziosa fronte tutta liscia — quel meraviglioso volto — che l'aveva conquistato nei suoi dolci sogni d'amore, era obbligato a distruggerli col suo coltello. Quando ebbe asportato la pelle del cranio, cominciò a segare l'osso, ma dovette fermarsi per riprendere fiato.

Non riusciva a dominarsi. Stava male e tremava in tutto il corpo. Soltanto l'abitudine gli permetteva di continuare il lavoro. Giunto al petto e ai visceri le forze lo abbandonarono. Il suo ultimo taglio non era corretto. Era inondato di sudore e ci vedeva appena. Per far uscire il cuore sopportò sofferenze atroci. Perdette conoscenza e crollò, le braccia in croce, sul cadavere.

«Attento a non ferirvi!» esclamò il becchino notando in quell'istante che il braccio destro del dottore si era ripiegato sotto l'ascella sinistra. Mišić non lo sentì, si rialzò e continuò meccanicamente il suo lavoro.

Mai fino allora aveva impiegato tanto tempo per una dissezione. Avendo finito, chiamò il cancelliere perché stendesse il verbale. All'inizio gli tremava la voce, poi si riprese e quando ritornò il dottor Asbajer, la sua voce era di nuovo ferma e sicura.

Nel momento in cui firmava l'atto, una goccia di sangue cadde sulla carta.

«Cos'è?» esclamò il dottor Asbajer.

«Non ne so niente» replicò Mišić. «Eppure mi sono lavato bene, non so da dove venga questo sangue».

«Ma non sarete ferito, per l'amor di Dio? Dio mio, se fosse così!»

«Non credo» replicò Mišić un po' inquieto.

«Eppure guardate, il sangue continua a scorrere. Misericordia, siete avvelenato!» e il vecchio dottore gli strappò con violenza una manica della camicia. Un taglio lungo e sottile si delineava sotto la spalla.

«Come è potuto succedervi, e a questa altezza; se fosse il palmo della mano o le dita, potrei ancora capirlo, ma a questa altezza? Mi pare quasi impossibile».

Il becchino disse che gli era sembrato di vedere che il dottore si era ferito quando si era sentito male.

«Ma allora, disgraziato perché non l'hai detto. Non sai che è una cosa molto grave? Non sai che è veleno, che è la morte, se non si interviene immediatamente? Sono già passate due ore» si lamentava il vecchio dottore.

Si volse poi verso la borsa di Mišić per cercarvi qualche rimedio. Non vi trovò nulla; né alcool, né acido cloridrico — in una parola -- nulla. Nel suo stato di nervosismo, Mišić aveva dimenticato a casa i disinfettanti.

«Dio mio, cosa faremo?» gridava il vecchio mentre Mišić restava come pietrificato. «Per succhiare la piaga è troppo tardi evidentemente, è davvero troppo tardi».

«Troppo tardi» replicò Mišić, a se stesso. La sua voce era inquieta e solenne. Si sentiva in preda alla legge assoluta del destino, che detta gli eventi e contro la quale egli non poteva far nulla. Ora capiva il sogno.

«Ecco la spiegazione della bara, ecco perché annegavo nell'acqua sporca, ed ecco perché avevo la sensazione che la ragazza mi succhiasse il sangue, quando mi baciava; il sogno diceva tutto. La morte mi aspettava. La mia anima aveva presentito ogni cosa. Questo doveva accadere» mormorava Mišić, incurante delle persone che lo circondavano. Annichilito, egli era persuaso ormai che la vita umana altro non fosse che un susseguirsi di eventi determinati in anticipo. Accettò e comprese. La sua concezione meccanica e fisiologica crollava. Non la rimpiangeva, ne provava anzi quasi piacere. Trasportata nell'estasi mistica, la sua anima s'innalzava. Sapeva che la morte non era la fine ma la soglia della perfezione. Si ricordò della ragazza e fu felice di esser sul punto di ritrovarla.

«Andiamo presto a casa» interruppe il vecchio Asbajer». Manderemo subito una vettura a Zagreb per cercare i medici. È urgentissimo, dovete saperlo, non posso nascondervi nulla. Conoscete questo genere di intossicazione. Bisognerà amputare il braccio al di sopra della spalla. Questo vi salverà».

«Credete? Non ne so nulla», rispose Mišić, immerso nel suo sogno. Poi tacque. Una volta tornato a casa, non protestò perché avevano richiesto d'urgenza un celebre chirurgo di Zagreb. Non si curò di nulla. Quella stessa notte fu preso da una forte febbre. La piaga s'infiammò. L'infiammazione si concentrò intorno all'articolazione della spalla. Il chirurgo arrivò il giorno dopo di buon'ora. L'infiammazione aveva raggiunto tutta la spalla e una amputazione non sarebbe più servita a nulla; il sangue era avvelenato.

«Non possiamo più essergli di alcun soccorso ormai. Fate venire il prete.

Mandate telegrammi alla famiglia» diceva il chirurgo a Asbajer. Intascando l'onorario si affrettava a ritornare in città, dove lo attendevano altri casi urgenti. La febbre di Mišić saliva. Perdeva sempre più conoscenza. La malattia progrediva rapidamente. Delirava. Era felice in compagnia della ragazza. Riprese conoscenza poco prima di morire. I raggi del sole filtravano nella stanza. Asbajer ed il vecchio Batoric erano al suo capezzale.

«Non soffro» diceva, ed era vero. Si sentiva leggero e lontano da tutto ciò che lo circondava. Il passato era distante e senza importanza. Quel raggio di sole, gli amici, la sua casa, niente contava più per lui.

Il suo spirito era sereno, i suoi pensieri precisi. Tutto ciò che aveva studiato durante la sua esistenza gli tornava nitido alla mente. Le pagine dei suoi libri di scuola, egli le sapeva tutte a memoria. Rivide poi la sua vita, fin nei minimi dettagli particolari. Ma gli mancava la nozione del tempo e del luogo. Anche i suoi sogni gli sfilavano dinanzi agli occhi e si mescolavano ad altri ricordi. La bella immagine della amata gli era dinanzi agli occhi.

«Oh, il mio sangue brucia!» si sollevò dolorosamente per cambiare posizione. La testa gli ricadde sul cuscino. Era morto.

 

Fine

 

Marco Pugacioff

[Disegnatore di fumetti dilettante

e Ricercatore storico dilettante, ma non blogger

(Questo è un sito!)]

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