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lunedì 25 aprile 2022

I Sibillini

I Sibillini

  Questo scritto – che pomposamente chiamo articolo – doveva apparire nel mio secondo ed ultimo libro di Cronaca dell’Insolito. Ma avendone ben poca voglia di farlo, questo articoletto e altri due o tre inediti, ve lo presento nel mio sito.

 

 

Cucciolo & Beppe nella Valle Incantata. La riconoscete? È la piana di Castelluccio.

 

    Il mio particolare paese di Magonia è sempre stata la regione dei Sibillini, una parte di quella cresta che divide l’est dall’ovest italico e che son detti Appennini. Come sottolinea in nota Febo Allievi [a p. 125 del suo Con Dante la Sibilla ed altri, Ed. Scientifico Letterarie, Milano 1965] “si può dire che due terzi della regione dei Sibillini appartenga alla provincia di Macerata, mentre l’altro terzo dipende dalla provincia di Ascoli Piceno e d’altra parte non si dimentichi che la grotta, mentre dista da Montemonaco (Ap) poco più di cinque chilometri, da Norcia (Perugia) è lontana ben 19 chilometri.

Non solo, il professor Allevi (nella nota 4 di pag. 69) riferisce “aggiungiamo soltanto che nella prima carta del C. 1030 del 977 i  Sibillini son detti Alpi Monti «da capo fine Alpi Monti, da pede fine rivo Scave qui venit in Tenna maiore…»), capito allora quale Alpi passavano i carolingi per tornare in Francia? Con buona pace delle università che hanno ormai sbugiardato con le loro menzogne l’ipotesi storica di Asquigrana in Val di Chienti.

Il Codice 1030 dell’Archivio Diplomatico di Fermo è un atto si attesta la concessione in enfiteusi [secondo la Treccani in linea, l’enfiteusi è un diritto reale su un fondo altrui che attribuisce al titolare (enfiteuta) gli stessi diritti che avrebbe il proprietario (concedente) sui frutti, sul tesoro e sulle utilizzazioni del sottosuolo], fino alla terza generazione, da parte del vescovo di Fermo Gaidulfo, di ampi territori che si estendono lungo la vallata prospiciente il monte Castel Manardo, abbracciando i comuni di Comunanza e Montefortino ed avendo come confini le proprietà dei farfensi di S. Vittoria in Matenano. 

Il professor Delio Pacini ci fece una tesi di laura con tutti i documenti provenienti dal fermano. E poi uscì come un vero tesoro: Il codice 1030 dell'Archivio diplomatico di Fermo. Liber diversarum copiarum bullarum privilegiorum et instrumentorum civitatis et episcopatus Firmi. Edizione dei documenti più antichi (977-1030). Elenco cronologico generale (1031-1266), Milano, A. Giuffrè, 'Deputazione di storia patria per le Marche. Studi e testi 3', 1963. Ringrazio per la segnalazione il mio amico Claudio e della professoressa Licini.

 


   Partiamo da Roma. Ricordate la paurosa avventura notturna di BenvenutoCellini [ritratto qui a fianco] al Colosseo, insieme a un negromante? Quando vide di notte una gran numeri di diavoli, tanto che «ciascun di noi tutta quella notte sognammo diavoli.» Nel successivo capitolo, il LXV, riferisce che: «Rivedendoci poi alla giornata, il negromante mi strigneva che io dovessi attendere a quella impresa [ovvero consacrare un libro incantato ai diavoli, o costringere i diavoli per mezzo d’esso a trovare una infinita ricchezza]; per la qual cosa io lo domandai, che tempo vi si metterebbe a far tal cosa, e dove noi avessimo a andare. A questo mi rispose che in manco d’un mese noi usciremmo di quella impresa, e che il luogo più a proposito si era nelle montagne di Norcia; benché un suo maestro aveva consacrato quivi vicino al luogo detto alla Badia di Farfa; ma che vi aveva auto qualche difficultà, le quali non si arebbono nelle montagne di Norcia; e che quelli villani norcini son persone di fede, ed hanno qualche pratica di questa cosa, a tale che posson dare a un bisogno maravigliosi aiuti. Questo prete negromante certissimamente mi aveva persuaso tanto, che io volentieri mi ero disposto a far tal cosa, ma dicevo che volevo prima finire quelle medaglie che io facevo per il papa…».

 

Immagini tratte da Alessandro Stramucci, L’arte nel maceratese, ed. speciale de

L’eco Adriatica della primavera 1966

 

   Venendo da Roma verso i Sibillini, o meglio gli Appennini, molti risalendo i piani di Colfiorito e passando nei pressi dalla romana Plestia – passando dall’Umbria alle Marche – potevano ammirare uno specchio d’argento messo in onore della dea Venere, e che nel medioevo sarà considerato lo specchio delle streghe; Allevi ricorda una lapide che tramandò il gesto di Tiburia, della collocazione dello specchio in un luogo pubblico e – tanto mi dà tanto – ritengo che questo luogo era sui Sibillini.

    Qua vi è la vetta detta il Pizzo della Regina che il professore identifica con Venere; a pag. 80 parla della costruzione della chiesa di S. Lorenzo (nel IV secolo) sul colle Marano ad Ancona [Monte Guasco dove sorge oggi la Cattedrale] “nello spazio della domus Veneris, la dea dalle labbra brucianti come vampe d’amore terreno”. Che dea!

   Ma altre Dee erano venerate come a Treia, l’egiziana Iside, la Dea Hilaria che con le sue pratiche inhostates et turpitudines ereditate dalla antica località di Ricina era onorata a Macerata, oppure la dea Cibele, la Magna Mater, che come Calipso (Allevi cita la scrittrice Seppilli) è la Dea delle grotte [V. nota 10, p. 26] e che il professore scrive [sempre a p. 26] citando Desonay “onorata eroticamente dentro la grotta rituale, sotto la corona simbolica”.

Statua egizia di sacerdotessa da Treia.

 

Il sacrificio alla Dea Cupra 1890 di Annibale Brugnoli (Perugia 1843 - 1915)

 

Interessante uno strano riferimento in nota alla stessa pagina “Secondo i cronisti di Norcia la statua d’argento della Dea Nortia al posto della faccia aveva una pietra nera”. Chissà perché mi è tornato in mente Montserrat e la sua Madonna con la faccia poi divenuta nera (come quella di Loreto) che fu trovata – guarda un po’ – in una grotta…

    Febo Allevi mi ha rimandato indietro nel tempo, in un epoca assai più felice, in una vera e proprio Età dell’oro, quando tempietti oppure sacelli in onore della dea (che nel sincretismo religioso del basso impero, identificava la Cupra picena – da cui le tante località Cupi – e la Bona Dea di origine sabina con la non molto diversa Venere o Afrodite [v. p. 34] e da lì poi ritengo con Diana) costellavano qua e là le alture e i colli piceni; ed anche nei vici o nei pagi dove odorosi incensi che salivano al cielo ad indicare un amore verso queste dee, che all’avvento della nuova religione fu uno degli ultimi a scomparire convertite alla nuova, imposta fede.

La celebre scena delle segnalazioni apaches da Ombre Rosse del 1939

 

Un’immagine che mi ricorda nelle pellicole western – i cari polveroni – le fumate dei formidabili Apaches (gli Broncos Apaches  fecero la loro ultima scorreria nel 1935, prima di scomparire per sempre, sterminati o forse integrati coi messicani) che si alzavano al cielo dalle alture di fronte agli yankee, con la differenza che ai bianchi colonizzatori procurava terrore, mentre nelle nostre terre quelle fumate davano  serenità!

 

Cartolina d’inizio anni ’60 con le tre vette viste da Montemonaco

 

Un gigantesco altare [p. 65] che sulla montagna, alta sulle valli e sui colli piceni era dedicato alla Dea Bona che finì per divenire dei sensi, dei sogni erotici, come fu la stessa Sibilla.

   Al tempo del poeta Virgilio nei pressi del foro e del Palazzo del Senato, nel luogo dove si ergevano le tre antiche statue, in cui il popolo raffigurava le tre Parche, era chiamato Tria fata e il professore sottolinea che “le tre punte più alte del cerchio che congiunge la Sibilla con il massiccio del Vettore (e quindi con il Lago di Pilato), osservate da Castelluccio o da Montemonaco o da Foce (l’Argentella – m. 2201 –, il Palazzo Borghese – m. 2143 – e il Monte Porche – m. 2235) potevano essere indicate come la sede delle Parche” [p. 67]. E prosegue considerando solo un caso che nell’area della Sibilla, da Castelluccio a Montemonaco, si sono alimentate leggende su creature evanescenti che con le loro danze notturne (che potrei accostare alla brigata notturna di Diana) le quali vennero chiamate fate.

Allevi sottolinea che fatum, fata fatorum e quindi destino incarnata – nella antica mitologia – da un essere femminile si associ appunto con le Parche, che Ovidio definiva dominae fati.

Cucciolo narra a suo cugino Beppe delle Fate

 

E continua scrivendo che delle tre punte indicate, la più alta è appunto Monte Porche, un nome questo che potrebbe essere una facile alterazione di Monte Parche [pagg. 67-68].

   Forse! Ma questo ha fatto sospettare al professore che la veglia sacra dell’imperatore Vitellio celebrata sugli Appennini fosse nell’area della nostra Sibilla [p. 69]… “Celebrò anche una sacra veglia notturna sui giochi dell’Appennino”.

V. Svetonio, Vite dei Cesari, tradotte da Giuseppe Riguttini, Firenze, Felice Le Monier, 1969. Cap. 10 dell’imperatore Vitellio, Pag. 317.

    L’imperatore Vitellio “a motivo di una tradizione remotissima [p. 69]” aveva i suoi discendenti ad Amatrice, la quale “…collegata con la via che  sale a Montemonaco e a Norcia, lungo la quale la tradizione anticchissima vide scendere la Regina Sibilla, come la più perfetta delle donne [ci pensate? Lasciamo da parte le donne degli ultimi trent’anni, siliconate e vaccinate. Sarebbe un misto tra la Silvana Pampanini e la Edvige Fenech, insomma], dotata di sapienza bellezza grazia gentilezza bontà e di mille altre virtù, per render meno pesante il lento quotidiano degli abitanti del luogo: la malvagità umana la costrinse poi a chiudere i cancelli della sua reggia meravigliosa, anche se preceduta dall’umile ingresso della paurosa caverna. Una tradizione questa – scrive il De Barardinis - «ancora oggi particolarmente viva a Pretara di Arquata del Tronto»[p. 108].”   

Su Cecco

 

Cecco d’Ascoli fa una lezione – quadro di Giulio Cantalamessa alla Pinacoteca comunale di Ascoli Piceno

 

   Restiamo ad Amatrice che a dato il nome ai famosi spaghetti all’amatriciana, un gustoso piatto molto comune in tutto il Lazio. Proseguendo per Montereale passiamo il fiume Velino – e prima di arrivare alle selvagge e pittoresche Gole del Velino – arriviamo al paese di Sigillo; sovrastato da un immenso spacco chiamato alle “Vene Rosse” e attribuito dalla voce popolare al mago Cecco.

Sembra che Cecco stufo delle continue interruzioni sulla Via Salaria, si fermò una sera nella trattoria “Severino” di Posta (il nome la dice lunga sul lavoro praticato in quel villaggio oggi comune) e disse a un suo compagno di bevute – un architetto romano – che avrebbe riaperto in una sola notte quel tratto della Salaria tra Colle Ventoso e Casale Aquilino. Il suo amico era scettico, ma sputandosi sulle mani e poi stringendosele suggellarono la strana scommessa sotto gli occhi dell’oste e di un commerciante di stoffe… hei! Ma  non è la stessa professione che faceva il babbo di Francesco d’Assisi, che andava e veniva dalla Francia… picena?

D’improvviso scoppiò una tremenda bufera con vento, tuoni, neve e grandine che gonfiò il fiume Velino. Infine un strano odore di… roccia tagliata, quasi simile al zolfo, entrò nella taverna… Alla fine, seppur impauriti, andarono tutti a letto.

Ma, sorpresa! Il giorno dopo, in una mattina meravigliosa davanti agli occhi dei protagonisti della vicenda si vide che la roccia sembrava essere stata tagliata da un’enorme spada (la Durlindana di Orlando? Chissà…) e cadendo aveva formato una specie di muro a sostegno dell’argine del fiume Velino.

         

Le vene rosse come si vedono oggi.

 

L’architetto rabbioso pagò una moneta d’oro a Cecco, ma non ci sarebbero state più scommesse tra di loro. Cecco partì per Firenze dove entro pochi mesi sarebbe salito al rogo. Naturalmente quel taglio della cresta era opera della maestria romana, ma la fantasia popolare la attribuì a Cecco, che al momento in cui veniva bruciato, le rocce si fecero purpuree e da allora sono le Vene Rosse di Cecco d’Ascoli.

Libera riscrittura da: Agostino Taliani dalla rivista Falacrina anno 1 n° 2 Agosto 2004. Articolo scovato in rete.

   Francesco Stabili [vedi Allevi p. 39] “«nacque in Ancarano villa di Ascoli dove la madre andando ad certe solenne feste ad imitazione dell’antique, perché opinione certa è che qui fusse già il tempio di Ancheria dea: nacque in questo guadio ne’ prati colui  che in (un) prato doveva morire»; dove va sottolineato il carattere orgiastico, sfuggito agli studiosi, della festa di Ancaria, ripetutamente nominata da Tertulliano, per cui non ci sembra che per puro caso Ancarano – m. 908 s. m. – […] si trovi tra Norcia e Castelluccio.”

    Di Cecco, si narravano voci prodigiose. Dice Biografia universale antica e moderna al vol. X del MDCCCXXIII. «Uno degli storici della sua vita dice che, essendosi dato dalla prima gioventù con eguale successo agli studj serii ed alle arti dilettevoli, volle porgere a' suoi concittadini un saggio delle sue cognizioni in matematica, proponendo loro di far giungere il mare Adriatico fin sotto le mura di Ascoli; ma che gli abitanti non osarono accettare tale  proposizione nella tema di perdere i vantaggi, che   ritraevano dalla  vallata del Trento [piccolo errore, era Il Tronto]. Aggiungesi che la fama di Cecco si sparse fino ad Avignone, dove   risedeva  il  papa  Giovanni XXII;  che quel  pontefice ve lo chiamò e lo fece suo primo medico; che tale favore eccitò contro di lui certi invidiosi, che l’obbligarono a dimandare il suo commiato; che, tornato in Italia ed invitato da parecchie città, preferì di fissarsi a Firenze. […] È  cosa più certa e fondata sui titoli incontestabili che insegnò pubblicamente l’astrologia a Bologna; che nel 1324 fu accusato al tribunale dell’inquisizione e condannato da fra Lamberto da Cingulo, [Cingoli]  dell’ordine de' frati predicatori, a pane unicamente penitenziali. […] Il dispiacere, che gli cagionò questa faccenda, lo indusse senza dubbio ad abbandonare Bologna per Firenze. […] Condotto di nuovo dinanzi all’inquisizione (ma che sfiga!), vi fu condannato al fuoco come eretico, ed abbruciato pubblicamente nel 1327.»

 

Mago Merlone (disegno di Giorgio Rebuffi), antenato di Beppe, fa le sue magie davanti Santa Scolastica

 

   Santarelli [p.42] riferisce “si dice che Cecco d’Ascoli […] fosse salito su quei Monti, al lago di Pilato, per consacravi il suo libro del comando e, armato di cotanto diabolico ordigno, fosse riuscito a catturare e a prosciugare, nei pressi di Ussita, una sorgente sulfurea, «l’acqua del bagno de’ capo de Vallazza bona et sancta et d far miraculi, come altramente se dice facìa prima che Cecco d’Ascoli la soffocasse.»

   Narra infatti la leggenda che nella piccola chiesa trecentesca di Capovallaza ad Ussita, situata al di sotto del monte Bove vi zampillava una prodigiosa sorgente. Queste acque avevano la miracolosa virtù di sanare qualunque malanno, tanto da essere denominata “Acqua santa”.

Finché, un giorno, eh ! Arrivò quel “cattivone” di Cecco d’Ascoli e con le sue arti negromantiche, sprofondò la chiesa e disperse la portentosa sorgente.

 Secondo il professor Allevi [p. 46] “Per circa un secolo, grosso modo dal 1390 al 1490, gli ussitani hanno speso energie denaro fatiche nel vano tentativo di recuperare una prodigiosa sorgente detta il Bagno.”

Mica solo lui. Francesco Tarducci a pag. 28 nel suo La strega, l’astrologo e il mago del 1886 dice “Di San Bernardino da Siena, che visse nella prima metà del secolo XV, si legge che in una predica ad Arezzo […] seppe far vergognare gli Aretini e indurli a distruggere a furia di popolo una loro fontana, dove in modo speciale accorrevano le genti per iscoprirvi l’avvenire.” Ma insomma, pure li santi se mettono a fare i cattivoni… ma che lavorarono per l’acquedotto comunale?

Cucciolo, Beppe e Tiramolla tornano indietro nel tempo e incontrano… Cecco.

 

   Ancora su di Cecco si narrava nel 1941 – in piena seconda guerra mondiale – in un articolo che ho trovato nella biblioteca comunale di  Macerata: “Messer Cecco, figlio singolare della sua età, insofferente di mistica e di dommatica, respira quell’aria, ma trova modo di tramutarla in propria superba grandezza. Egli appunta lo sguardo verso il Cielo e interroga gli astri. […] E una notte sulla via Salaria, ecco una teoria di spiriti infernali che sgnignazza e brontola. È guidata da un capo minaccioso e feroce che sulla corrente impetuosa del Castellano naviga con un barchetto  incantato.

Questo gruppo tenebroso, ad un cenno si ferma e s’affana a rotolare sassi, a percuotere macigni, a scavare, tagliare, ordinare, a legare blocchi su blocchi, senza un lamento.

E nell’alba caliginosa, fra roboanti tuoni e paurosa tregenda, s’estolle il ponte magico e, timido e spaurito, il popolo lo guarda con ingenua meraviglia.

Cecco è lì vicino in attitudine di comando, guardato in cagnesco dai fetidi e puzzolenti spiriti che fiutano la ghiotta preda loro assicurata per l'eternità. Il ponte ha un nome: ponte Cecco. [Che però è stato distrutto nella seconda guerra mondiale…]

 

Su di esso anche oggi dice la leggenda vi stanno accoccolati cinque spiriti del male, ai quali l’ascolano dal vicino monumento tiene allocuzione per spiegare la catena dei suoi sillogismi.

Altra leggenda, ma spoglia del respiro infernale, aleggia intorno a Cecco e ci porta l’eco delle sue battaglie dottrinali col divino Poeta.

Sosteneva costui nei suoi insegnamenti scolastici, ispirati a pretese scientifiche, che l’educazione può modificare l’istinto: al contrario lo Stabili gli opponeva che la natura è più possente dell’abitudine.

E la leggenda racconta che Dante per convincere il contraddittore gli mostrò un giorno un magnifico gattone che reggeva colle zampe una candela accesa mentre egli scriveva o leggeva. Ma Cecco per nulla impressionato della regia dantesca e tanto meno convinto della spiritosa trovata, con furbizia professorale preparò la sua risposta.

E un giorno capitò in casa dell’amico con un pentolone sotto il braccio, entro cui aveva nascosto dei topi. E fattosi a lui avanti diede completa libertà agli immondi animali, i quali scorti dal gatto ammaestrato furono da costui inseguiti ed agguantati nonostante il richiamo del padrone.

Voi potete immaginare la gioia dell’uno e il disperato scoramento dell’altro.

altra leggenda che delizia il popolo e  lo aiuta a fantasticare è quella che narra li ultimi momenti di quest’uomo prodigioso.

Cecco per ordine del bargello trovasi incatenato ad un palo circondato da cataste di legna. Ma egli sa che non può morire e sfugge ai suoi carnefici ora tramutandosi, per ordine di satana, in un covone di paglia, ora in un fascio di sterpi. Fida in quella profezia che lo ha sempre assicurato che non sarebbe morto se non tra Africo e Campo dei Fiori, raion per cui durante la sua vita evitò sempre di uscire da casa mentre spirava il vento, denominato «Africo» e trovandosi a Roma cercò di stare il più possibile lontano da Campo dei Fiori.

Ma anche la speranza, ultima dea fugge i sepolcri; e in quell’ora triste del suo destino si trovò solo ed abbandonato: la realtà era diversa dal sogno, perché apprendeva che lì nei dintorni scorreva un fiumiciattolo detto «Africo» ed essere Fiorenza il vaticinato «Campo dei Fiori».

Ormai poteva esclamare col salmista: «Tutto si è avverato». Calmo, rassegnato, sereno ordina ai suoi carnefici di dar fuoco alla catasta.”

 

ωωω

 

   Ritorniamo sui Sibillini, alla mia “Magonia”. Un luogo fatato, pieno di leggende, dove sul “Monte della Sibilla” fu immaginata la «reggia» della Sibilla preveggente e ammaliatrice, che traslocata dall’antro di Cuma, per l’avvento del cristianesimo, si insediò in un punto orribile di quei monti che da lei presero il nome. Orribile perché proprio alla bocca dell’Averno o meglio dell’Inferno, infatti se l’Inferno è fatto di anfratti paurosi qui è lo stesso e i raggi del sole filtrano e rotolano sul cupo specchio d’acqua del fiume Tenna che nasce da....

 

L’infernaccio

 

Splendida cartolina d’inizio 900 in vendita sulla baia 

 

    Sempre Allevi nella nota a pag. 27 del suo libro, cita l’esplorazione delle gole dell’Infernaccio “rende ammutolito il visitatore che… si pone in estasi ad ammirare lo spettacolo di quelle forre… una meraviglia orrenda ed al contempo sublime nella sua grandiosità paurosa…”. Scrive Giuseppe Santarelli nel suo splendido Le leggende dei Monti Sibillini, Montefortino (AP) 1998, a pag. 14, “l’Infernaccio, fatto di anfratti paurosi, tagliato nella roccia lacrimosa e buia, dove raggio di sole appena filtra e rotola, quasi diamante scintillante, sul cupo specchio d’acqua del torrente. […] Più avanti ancora, salendo per l’erta di un sentiero tagliato nella roccia, si entra nel cuore dell’Infernaccio. È il regno delle tenebre e dell’umidore. Vi è un antro piuttosto basso, dove filo di luce non penetra mai o, nell’ipotesi più felice, vi penetra obliquamente, quasi a assicurare che il visitatore è ancora sulla terra e non proprio all’Inferno.”

Secondo il professor Giovanni Carnevale nel 743 in questi luoghi avvenne il Concilium apud Liptinas.

   Nel secolo VIII i Franchi italici, ovvero le popolazioni gallo romane arrivate a seguito della pressione araba nel centro della penisola e nel Piceno spopolato dalla guerra gotica, incominciavano a dar fastidio ai Longobardi. Dapprima nell’agosto del 742 papa Zaccaria, nella basilica di San Valentino presso Terni, incontrò Liutprando e stabilì determinati accordi contro la libera gente, che vivevano ormai nella terra felice che essi chiamarono Francia, i Franchi di Pipino.

Ciò che scaturì dall’incontro di Terni allarmò naturalmente Pipino che vedeva in tal modo compromesso il futuro della sua gente nel Piceno e corse ai ripari chiedendo di poter incontrare il papa.

   Zaccaria accettò. Inviò fra Giorgio, suo plenipotenziario a un concilio tra lui e Pipino, contornato da capi ecclesiastici e laici, avvenne apud Libftinas e va sotto il nome di Concilium Liftinense, del 743. 


Con una intuizione che come detto pubblicamente in una riunione dei primi carolingi da Giovanni Scoccianti «aveva del prodigioso» il professor Carnevale associò il termine Liftinas, all’appellativo della dea romana Lĭbĭtīna «incaricata di badare ai doveri che si tributavano ai morti. Aveva il santuario in un bosco sacro, situato molto verosimilmente a sud di Roma, nella regione dell’Aventino. Qui si riunivano gli imprenditori di pompe funebri (libitinarii).

Giocando su una falsa etimologia, essendo Libitina simile a Libido (la Passione), questa anticchissima dea fu assimilata a Venere, e il nome di Libitina divenne epiteto di quest’ultima. Non possiede alcuna leggenda. [Vedi Pierre Grimal, Enciclopedia dei miti garzanti, Paideia Editrice, Brescia 1987, pag. 378.]» Qui a fianco una statua di Afrodite associata in rete a Libitina.

E in più sul sito romanompero, nella scheda dedicata a questa dea, leggo «Inoltre secondo le fonti Libitina era anche in stretta relazione con l’acqua e la vegetazione» ancora riguardo a un tempio della dea a Taranto «Q. Qualiti, al momento dello scavo, proponeva di riconoscere un tempio di Venus Libitina (Venere Libitina, Dea dei funerali), forse per la vicinanza con la necropoli romana. La rara pratica rituale dell’altare interno, forse per offerte incruente, e il simbolo della torcia su una delle stele suggeriscono infatti un culto legato ad una divinità femminile ctonia.».

Il nome della Dea in epoca cristiana si mutò nel termine “infernaccio”.   Come scrissi sotto dettatura del professore “Al fondo di una profonda erosione scorre il fiume Tenna le cui acque, come quelle di vicini torrenti, venivano utilizzate per la concia delle pelli. Il relativo fetore evocava tra i pagani la presenza della dea Libitina ed il successivo nome di Infernaccio evocava alla fantasia danteschi maleodoranti paesaggi infernali. La radice indoeuropea “tan”, contenuta nei nomi Tenna e tannino, evoca un fetore insopportabile assimilabile a quello della concia delle pelli che neppure la profonda cavità naturale poteva contenere.


Perciò si poté localizzare il Concilium apud Liftinas, o Libtinas, con l’attuale località di S. Angelo in Montespino, ove, lungo la Salaria gallica, sorgeva un antico monastero longobardo.

Girolamo Taratarotti nel suo Del congresso notturno delle lammie, Rovereto 1749 a pag. 452 riferisce che nei documenti prodotti al concilio vi era annesso anche un «Indicetto di Superstizioni Gentilesche»; e un suo passo recitava «De eo quod credunt, quia feminæ Lunam comedant quod possint corda hominum tollere juxta Paganos»: “Da quello che credono, che le femmine mangino la Luna perché possano ammaliare i cuori degli uomini presso i Pagani”.

 

ωωω

 

   Vorrei citare che oltre ai molti altri che volevano visitare questi monti, ci fu di sicuro [lo cita Allevi a pag. 117] anche Luigi Pulci, che tra la fine del 1470 e al principio dell’anno dopo, si trovava presso la corte dei signori di Camerino, i Da Varano e si recò a visitar la grotta; dal cap. XXIV,  del suo  Morgante citiamo i versi 112-113:

   Così vo discoprendo a poco a poco / ch’io sono stato al monte Sibilla, / che mi parea alcun tempo un bel giuoco: / ancora resta nel cor qualche scintilla / di riveder le tanto incantate acque, / dove già l’ascolan Cecco mi piacque; / e Moco e Scarbo e Marmores, allora / e l’osso biforcuto che si chiuse, / cercavo come fa chi s’innamora: / questo era il mio Parnaso e le mie Muse / e dicono mia colpa, e so che ancora / covien al gran Minosse io me ne scuse, / e riconosca il ver cogli altri erranti / piromanti, idromanti e geomanti.

  Alle pagine 79 e 80 del suo La vita e le opere di Cecco d’Ascoli, [Bologna 1892], Giuseppe Castelli scriveva «Nei villaggi e negli sparsi casolari dell’Appennino piceno vive una gente perspicace e fantastica che ha saputo popolare le sue vecchie foreste e i picchi de' monti Sibillini di mille e mille leggende. Nelle lunghe veglie d’inverno, attorno a un focolare, che ricorda la casa omerica, uomini e donne novellano allegramente di regine e d’imperatori, di donne e di cavalieri, d’armi e d'amori, di orchi e di negromanti: o rifanno l’eterno romanzo della volpe, del lupo, e del delfino che abita sul lago dell’Appennino. [note riprese da ALIGHIERO CASTELLI, Vita popolare marchigiana, (Ascoli, 1889, tip. Cesari).]» E prosegue «Sul monte Sibilla trovasi la famosa grotta delle fate, in cui profetò già la Sibilla. Intorno a questa grotta si affollano tradizioni di tesori, di diavoli, di stregonerie di ogni sorta.»

 

La Sibilla

 


   La bella Sibilla viveva in una reggia scintillante, satura di lussuria. Ella era considerata nel Medioevo (ma anche al giorno d’oggi) una seduttrice, associata col demonio per catturare nelle sue reti cavalieri in cerca di avventure e di amori. Cavalieri come il Guerin Meschino, che nella ricerca disperata dei genitori arrivò presso Norcia e da lì nella grotta della Sibilla, dove divenne l’amante della profetessa. 

l'Oracolo delle Dame responsi sibillini Casa Editrice Betti 1902
 

La fine del paladino Orlando



  Quando Carlo Magno, dopo nella campagna contro i Mori in Spagna,  ritornò a casa sua ad Aquisgrana, transitò per la funesta Roncisvalle, dove suo nipote Orlando trovò la morte in combattimento, (qui a lato, la grotta a Sutri dove nacque il paladino).

A tal proposito il giornalista Santiago [un nome molto popolare in Spagna] Chamaco, nella trasmissione Cuarto Milenio nel 2011 ha riferito delle sinistre voci sulla battaglia che avvenne il 15 agosto del 778 al passo di Roncisvalle dell’esercito franco contro dei misteriosi attaccanti, Saraceni? Baschi? Forse ma ancora non si sa; non si sa nemmeno dove l’evento avrebbe avuto luogo, ma in realtà non è così. Quel che si sa è che prima di morire Rolando chiede aiuto con il suo corno da caccia. Ed proprio da questo particolare che si capisce che l’evento è avvenuto in quel passo. Infatti il suono di quel corno ancora oggi si sente nelle notti di luna piena nel passo. Un suono che si unisce ai rumori della battaglia, delle spade che si incrociano, al lamento dei feriti. Si dice che chi, nelle notti di luna piena, vede o sente la battaglia siano coloro che in una vita passata parteciparono ad essa (sarà mai capitato a un marchigiano?). Embé? C’è chi da fede profonda all’archeologia, e chi – come me – che da credito a queste voci. Succede.


 

Orlando [l'Orlando Furioso] in bel disegno ad acquarello di Carlo Jacono tratto dalla

enciclopedia LA VITA MERAVIGLIOSA - Ed. M. Confalonieri Milano 1957  

 

Da sottolineare che questa storia ha un forte allaccio con la storia del nipote di Carlo Magno, Roland, in italiano Orlando, i cui genitori Milone (capitano dei Franchi) e Berta (figlia di Carlo Magno) ostacolati nella loro passione dallo stesso Re, scapparono dalla reggia di Aquisgrana e, sulla via di Roma, si fermarono in una grotta a Sutri dove nacque Orlando. Carlo magno anni dopo ritrovò il nipote, perdonò la figlia e fece diventare Orlando paladino. Gli diede un castello che la tradizione popolare – arrivata ai miei orecchi – lo situa a Sant’Omero nel Teramano sul limen, confine, coi Longobardi e infine morì a Roncisvalle.

Volete sapere come si chiamava il padre del Guerin Meschino? Ma guarda un po’, anche lui Milone.

La storia del cavaliere infelice e senza genitura [qui sopra in un disegno tratto da Storia Illustrata de ‘64] è stata narrata da Andrea di Jacopo da Barberino, al secolo Andrea Mengabotti o Andrea de’ Mengabotti (Barberino Val d’Elsa, Firenze, ca. 1370 - ca. 1432). Un trovatore italiano noto principalmente per aver scritto, attorno al 1410, appunto Il Guerin Meschino (o Il Guerrin Meschino) otto libri fra la favola e il romanzo cavalleresco, che vide la prima pubblicazione solamente nel 1473. Quasi la stessa storia del Tannhäuser, che però è un’opera tedesca.

   Anni fa andai a vedere uno spettacolo La storia del Guerin Meschino, interpretato da Marco Renzi, dei Teatri comunicanti di Porto Sant’Elpidio. Mi fece entrare in un sogno dove “l’attore racconta, rappresenta, canta ed evoca, con l’ausilio di particolarissimi oggetti, una storia appassionante. Lo fa alla maniera  in cui forse lo avrebbe fatto nella città di Barberino quel tale Andrea che, attorniano dalla gente, recitava le prose del suo libro. Lo fa nel   consapevole intento di riprendere un’antica e mai scomparsa arte, quella del narrare.” Come recita ancora il manifestino dello spettacolo che tuttora conservo “Andrea  da  Barberino,  di   professione cantastorie,  girava   I’Italia,   si fermava   nelle  piazze dei paesi,   adunava   gente  e   raccontava  il    suo repertorio di avvincenti e mirabolanti avventure. Fu certamente   in   uno   di questi giri che capitate nel Piceno sentì della Reggia incantata chiusa "nella gran montagna d'Apenione" e, citando ancora sue parole,  "per questo mi son dilettato di cercar parecchie ed ho avuto gran piacere di molte tra le quali questa mi piacque".

Un suggestivo focolare disegnato da Francesco Gamba per il Piccolo Ranger n. 76

 

Da allora grandissima è stata la diffusione del libro, innumerevoli le edizioni succedutesi e fino agli inizi del novecento il libro era presente in ogni casa delle nostre montagne, anche in quelle di chi non sapeva leggere... e alla sera, il fortunato della famiglia che conosceva quella astrusa arte chiamata lettura, davanti al focolare, leggeva a tutti il Guerin Meschino. Lo leggeva a pezzetti, un po' alla volta, come un moderno romanzo della televisione riempiendo inconsapevolmente l'immaginazione di intere generazioni di giovani e bambini.

Poi il "Guerin Meschino" conobbe il declino e l'oblio, restando memoria di pochi.”

ωωω


Altra affascinate cartolina degli anni ‘60

 

   Al di sotto della grotta della Sibilla, vi è il Lago di Pilato dal profilo tipicamente frazionato, con due bacini sub circolari collegati a disegnare una figura a “occhiale”. Il Lago di Pilato, posto nel cuore dei Monti Sibillini, a 1940 metri di quota, è l’unico lago di origine glaciale dell’intero Appennino.

 Uno specchio lacustre frequentato dal demonio e dai suoi funesti seguaci. «Quel lago famoso nel territorio di Norcia; dove dicono falsamente, che in vece di pesci, è pieno di demony; e la fama così de la grotta [bè, ovvio della Sibilla], come del lago ha ne di (giorni) nostri tirati molti pazzi dati a queste poltronarie de la negromantia, e avidi di sapere e intendere di queste novelle magiche; e più ne secoli passati, come si ragiona; gli ha tirati dico a sallire su questi altissimi monti» [Flavio Biondo 1543, p. 131. Passo ripreso dallo splendido esemplare custodito alla biblioteca di Camerino].

Nel Lago dimorano piccoli crostacei fillopodi la cui diffusione è limitata, in territorio italiano, ai Monti Sibillini. Sono i demoni citati da tutti gli scrittori medievali. Il chirocefalo del Marchesoni (Chirocephalus marchesonii), questo il loro nome, è di colore arancione vivo (da qui la particolare colorazione ‘rossastra’ delle acque) e misura all’incirca 15 millimetri di lunghezza. Secondo Poli e De Concini purtroppo il telegiornale del 28 agosto del ’90 diede la notizia della loro scomparsa dovuta a una grande siccità [p.161].

   Lo scrittore buckhardt [v. nota 16  a p. 31 del’Allevi] ”riporta il brano di «una delle.. più notevoli lettere giovanili» del futuro Pio II, in cui scrive al fratello; Burckhardt nel suo la civiltà del rinascimento in Italia, volume 2, Sansoni, Firenze 1876, pp. 342-3, ne dà un estensione più lunga «il latore di questa lettera è venuto da me per chiedermi se io conoscessi un Monte Venere in Italia, dove pretendesi che s'insegnino le arti magiche, delle quali è curiosissimo il suo padrone, un grande astronomo sassone. Io risposi, che conosceva un Porto Venere non lungi da Carrara, sulla costa dirupata della Liguria, dove passai tre notti nel mio viaggio a Basilea: trovai altresì, che in Sicilia esiste un monte consacrato a Venere, l’Erice, ma non so che quivi s'insegni magia. Tuttavia nel dialogo mi risovvenne, che nell'antico ducato (Spoleto), non lungi dalla città di Norcia, v'è un sito, dove sotto una scoscesa rupe trovasi una caverna, nella quale scorre dell'acqua. Quivi, come ben ricordo di aver udito, havvi un convegno di streghe (striges), di demonii e di ombre notturne, e chi ne ha il coraggio, può vedervi gli spiriti (spiritus), e parlar con loro e apprendere le arti magiche. Ma io non l’ho veduto, nè mi sono interessato di vederlo, perchè ciò che non può apprendersi se non per via di peccato, meglio è non apprenderlo» e subito dopo Burckhardt precisa «[p. 344] L'Aretino in qualche punto delle sue opere parla di una fonte ammaliata, dove abitavano la sorella della sibilla di Norcia e la zia della fata Morgana. »

 

Ancora Montemonaco al di sotto dei Sibillini in una cartolina inizio anni ‘60

Monte monaco è il terzo comune delle Marche per altitudine (m. 987), dopo Bolognola (m. 1070) e Monte Cavallo (circa 100 metri). Dai resti della rocca si può scorgere, nelle giornate limpide il mare.

Una curiosità su Bolognola, oggi si tende a sfatare come una voce falsa che il nome derivi da delle famiglie bolognesi cacciate dalla città nel XIII secolo, però è vero che  [Meravigliosa Italia, Enciclopedia delle regioni, Aristea, anni ‘60 p. 197] il borgo di Bolognola è composto da tre frazioni: Villa Pepoli, Villa Malvezzi e… Villa Bentivoglio!

 

   Ancora da Allevi [nota a p. 83] “fino a circa la metà del sec. XIV il Lago di Pilato fu detto Lago dei Demoni” e prosegue “Peranzoni nel suo documentatissimo libellus, composto, s’è detto, nel primo quarto del Cinquecento, afferma che M. « Montem daemoniacum plerique appeìlant... primum propter Cavernam Sibylae vul­go famigeratam... deinde propter Pilati lacum iam omnibus fere nationibus divul­gatum». Nel dialetto locale il nome suona Mondemonico, anche se in questo caso si tratti di una pura alterazione voca­lica comune ad altre parole analoghe. […] ma il fatto che il  monaco benedettino, per i contatti con la non lontana terra di Norcia, sia venuto qui a piantar le sue tende nell’alto Medioevo, offre un'altra conferma della necessità della bonifica spirituale delle nostre zone e di quell'esigenza mistica che accomuna sacro e profano nel raggio del "grande altare umbro-piceno.”

Il professor Allevi [nota 18 a p. 105]  riferisce che “La fama della caverna precede quella del lago [qui a lato in un’altra cartolina anni ‘60], il La Sale ci informa: 1) che nel 1420, all’epoca del suo viaggio, soltanto «alcun disent le lac de Pilate», mentre i più lo dicono «le lac de la royme Sybile»; 2) che fin dai primi anni di questo stesso secolo la duchessa Agnese di Borbogna possedeva un arazzo o tappeto in cui erano rappresentati «les mons du lac de Pilate et de la Sibile»

Santarelli nella nota 2 a p. 129 “Sui dirupi del Lago di Pilato e sulle balze del Monte Sibilla si rifugiarono ebrei, eremiti, che,  nostalgici dei riti pagani, continuavano riti edonistici. Ciò avvenne secondo il Fumi (Eretici e ribelli nell’Umbria e nelle Marche nel sec. XIV), specialmente durante l’esilio di Avignone e particolarmente sotto il pontificato di Giovanni XXII. Tra questi eretici umbro-marchigiani erano noti i Patarini, che sostenevano il libero amore [quasi come i moderni figli dei fioro, chissà se sniffavano pure loro] e, per legittimare le loro passioni, le facevano passare per riti sacri in onore del diavolo, ritornando ai riti orgiastici del paganesimo.”

La consacrazione del libro del comando tratto da un mio fumetto inedito

sul Contino (Cucciolo, piccolo conte) in viaggio al monte Broken

    Esso fu meta, nel Medioevo, di stregoni, di negromanti, di maghi che vi salivano per consacrarvi il “libro del Comando”. E il Demonio arrivava dopo aver tracciato tre cerchi concentrici, di cui si vociferava due già tracciati: uno da Virgilio mago e stregone, l’altro da Cecco d’Ascoli. Santarelli a p. 132 recita ”Scrive Nicolò Peranzoni nel De Laudibus Piceni, Fermo 1795, p. 117 «Duo ibi circuli super lapides incisi iuxta lacus marginem quibusdam characteribus monstrantur, quo ad artem magicam consequendam necessarios aiunt eorumque, alterum Virgilium mantuanum poetam, alterum vero Cichum Ausculanum mathematicum effinxisse praedicant.»”

Cecco era autore del poema “Acerba” (sino a pochi decenni fa considerato dalla gente comune il “libro del Comando”).

  Ricordate cosa voleva consacrare il negromante insieme a Benvenuto Cellini sui monti di Norcia? Un libro. Un libro a cui poi i demoni avrebbero obbedito loro a qualsiasi  richiesta. È appunto il Libro del Comando, ne ha dato ampia testimonianza Giovanni Ginobili nel 1959, fin dalle prime pagine del suo Bricciche de superstizioni popolari marchigiani; il libro di cui il popolino ne ha un gran orrore perché è infatti opera diabolica; per averlo bisogna dare l’anima al diavolo. Non c’è possibilità di distruzione. Il fuoco non lo brucia, l’acqua non lo marcisce, e resta sempre intero anche se lo si voglia tagliarlo a pezzi e via dicendo… nel Vita quotidiana e tradizioni popolari nel Maceratese: atti del 31° Convegno di studi maceratesi, [Abbadia di Fiastra (Tolentino), 18-19 novembre, 1995], si parla del Livréttu de lu commannu [definizione a p. 321]; sui demoni invece a pag. 363 vengono indicati al loro posto i mazzamurelli che “sono definiti anime al servizio del possessore del libro del comando; anime che si addosserebbero intorno al loro padrone per ricevere gli ordini non appena apra tale testo.” Mi ricorda ciò che successe a Mirlino, giovane discepolo di Virgilio mago e stregone.

A Roma vi sarebbe  invece la credenza al “Segno del Comando”, o almeno così viene narrato  nel ’71 in un favoloso sceneggiato televisivo. Così recita nel romanzo relativo di Giuseppe D’Agata della T, E. Newton, 1994, a p. 166…

   - Certe vecchie leggende lo definiscono il Segno del comando… che cos’è?... un sigillo magico, dicono… Altri parlano di un pugnale o di una spada, una spada fiammeggiante il cui fuoco non si estinguerà mai. Secondo qualcuno invece sarebbe un filtro o una tavola contenente delle profezie.

Una spada? La spada di Giulio Cesare chiamata Morte Rossa? Addirittura in Argentina, mi sembra nella provincia di Cordoba, (dalle ricerche del Dottor Jimenez Del Oso) vi è quella del “Bastone del Comando”.

 


Dal Giornale dei Misteri n. 46 del gennaio del ‘75

 

    De Concini e Polia scrivono a p. 156 del loro Il paradiso del diavolo, Sugar ‘91, “del lago di Pilato […] sul monte, nel quale da secoli vengono celebrati riti demoniaci e battezzati magicamente libri, bastoni, «Grimores», amuleti, peli di tasso, cornetti di ginepro.

«Juniperus», infatti, il ginepro, è l’albero sacro a Giunone, la dea del plenilunio, della notte fatata dei lupi e degli orsi mannari.”

 

     E dal misterioso libro, bastoni e altro ancora, siamo torniamo alla Sibilla che nel medioevo venne convertiva in “una specie di Lucifero femmina, severamente punita per peccato contro la Vergine, di fronte la quale s’era posta in posizione antagonista [Allevi, p. 111].”

Dalla grotta della Sibilla [Allevi, pagg. 112-113] dove uscivano le fate per ritornavi alle prime luci dell’alba dopo aver ballato nei villaggi il «Salterello» [ovvero, come oggi si andava alle discoteche…], infatti “la bianca diagonale del Vettore o strada di ghiaia l’avevano tracciata in una notte al ritorno da Castelluccio”, ancora, la grotta divenne “il paradiso della Regina Sibilla o della Maga Alcina, terribilmente fatale ai cavalieri erranti, ed ebbe ac­canto il suo lago; responsi fatidici non mai da nessuno decifrati usci­ranno dall'antro pauroso, ove si daranno convegno negromanti e incantatori, «ribaldi e gente disperata». Per usare ancora le parole di Messer Andrea, che par voglia alluder proprio a tutti i più desiderosi di accedere alle nascoste delizie della regina degli incanti o di Venere dalle labbra rosse come il papavero a lei caro, non senza passar prima attraverso i fieri e voluttuosi amplessi delle serpi. Lassù il nero mantello di Satana e gli spiriti infernali a guardia di tesori favolosi, e il ponte sospeso e le porte di metallo vigilate dai dragoni dagli occhi di fiamma e le sarabande dei venti e dei nembi nelle notti illuni [che vuol dir: senza luna, nel buio completo!]. Guai per altro a voler gettar sassi nelle acque del lago agitato da infestazioni demoniache e dallo spirito di Pilato: furiosa e violenta si sarebbe scatenata la tempesta.”

   A sentir Fazio degli Liberti ai suoi tempi il timore era così grande da imporre la necessità di mute di guardie per una continua vigilanza, e con lui concorda anche Messer Andrea nel dire la caverna serrata ed il lago precluso e sorvegliato dai Norcini. Il benedettino Bersuire nel suo Reductorium morale, in cui riferisce che il lago è cinto da muri, controllato  da custodi  «ne   necromantici pro libris suis consecrandis daemonibus iluc accedere permittantur») e abitato da de­moni ai quali la città ogni anno invia per tributo un uomo vivo che essi statim visibiliter lacerant et consumant». Ovvero viene lacerato e divorato sotto lo sguardo di tutti. [e Gigi Proietti direbbe: “e ‘sti c…! E dire che Gassman ci ha fatto pure Brancaleone da Norcia]. Questo sacrificio viene fatto per salvare la loro patria dalle tempeste che altrimenti la distruggerebbero.

Adesso mi vien spontanea una domanda… se sul lago Roopkund, situato a 5.029 metri di quota snell’Himalaya indiano, nella regione dell’Uttarkhand, vi furono trovati circa duecento scheletri umani (tra le varie ipotesi circola anche quella funesta della negromanzia) com’è che sui Sibillini, in questo laghetto non si trovata traccia di scheletri? La risposta potrebbe esser banale, non è vero niente… e se invece…?

Anche il La Sale conferma che l’isola del Iago «est moult gardée et deffendue des gens du païs» per impedire la tempesta e le sue conseguenze, per cui chi si imbatte in quei paraggi senza permessi o lasciapassare è bell’è spacciato.

   Il pregiudizio comune intorno alla misteriosa potenza divinatrice dei maghi e degli stregoni, i quali o per caso o per aiuti d’inferno, giungevano talvolta a leggere nel futuro ed a fare operazioni portentose [Allevi, pagg. 120-121].


  Reumont, Il monte di Venere in Italia dà testimonianza del tentativo di Arnolfo di Harff, nel 1497 di salire presso la grotta della Sibilla e Santarelli a pag. 135 ne dà i testo «Presso Norde (Norcia) rimane il Monte di Venere, sul cui pendio sta un castello guardato da un castellano del Papa. […] Sul Monte c’è un laghetto accanto nal quale sta una cappellina con un piccolo altare. A quel che si disse il castellano, al tempo della negromanzia, si facevano esorcismi, durante i quali l’acqua del laghetto alzavasi in forma di nuvola ricadendo poi a terra con fracasso come di tuono e allagando tutto il paese, sicché non poteva farsi raccolto. Il popolo si lagnò col castellano, il quale eresse una forca tra cappella e lago con proibizione di qualunque atto di negromanzia.»

 

  Sulle fate, le compagne della Sibilla, purtroppo esse si trasformavano in serpenti dopo la mezzanotte del sabato, ma poi il giorno dopo uscivano da queste metamorfosi più seducenti  che mai, proprio come Melusina… Sarà stata una loro sorellina?

  Ancora sulle fate della montagna. A Castelluccio c’è una “via delle Fate” per indicare come siano, per la gente del paese, entità reali. Fate bellissime che tutte le sere scendevano in paese, a Pretara [dove sbarcano naufraghi perfino creature aliene], dalla grotta della Sibilla per andare a ballare con i ragazzi del posto. Così raccontava una giovane di Castelluccio. Ma queste fate avevano gambe pelose che si trasformavano in zampe di capra! Inoltre, una donna narrava di quando un suo zio incontrò, all’alba, le streghe nude, le quali rientravano di corsa. Lo zio dovette, a richiesta, dar loro qualcosa per coprirsi, altrimenti sarebbe stato maledetto per sette generazioni. [Vedi Ennio De Concini & Mario Polia, pagg. 22-28.]

Oltre a ciò, tutta la zona dell’alta comunità montana, ovvero il camerinese, fu sempre popolata da vari “maghetti”, che oltre a togliere il malocchio, conoscevano le varie erbe della regione. Personalmente ne ho conosciuto uno – un buon amico di mio babbo – che aveva un piccolo ristorante nella frazione di Fiastra a Castel sant’Angelo sul Nera [la sua signora faceva certe fettuccine fresche…. Mmm!], che mi tolse il malocchio, quando avevo quattordici anni d’età.  

Riguardo al Malocchio, il professor Allevi cita in nota a p. 18 Falzetti, che nel ’63 “insiste sull’indicazione di Nemesi, Fortuna e Norcia in rapporto ai precedenti preistorici legati all’omonima cittadina; alla stessa dea attribuisce anche il potere di togliere l’incantesimo o scacciare il malocchio, affermando che «contro i malefizi, dal 1200 in poi, Norcia pubblicò leggi severe: leggi che in vario modo furono inasprite lungo i secoli, e sempre inutilmente.»

 

A proposito di Paesini e malocchio, ecco Totò da Questa è la vita del ‘54

 

Si crede ancora [p. 127] al malocchio che pure risale più indietro di Cibele e della Sibila, e cioè agli Illiri capaci, come gli stregoni dell’antica Mesopotamia, perfino di uccidere con lo sguardo adirato.

Dice Plinio nella sua Storia naturale, libro VII, cap. II [traduzione di M. Lodovico Domenichi, Venezia 1844, in linea, pagg. 636-637] «Isigono e Ninfodoro [Isigonus et Nymphodorus] scrivono, che nella medesima Africa sono alcune famiglie, che ammaliano, le quali se lodano cosa alcuna, ne va a male, gli alberi si seccano, e i bambini si muoiono. Dice di più Isigono [Isigonus], che di questa medesima qualità sono uomini nel paese de’ Triballi e in Illicia [Esse ejusdem generis in Triballis et Illyriis], i quali col guardo solo ammaliano, e uccidono coloro ch’essi guardan fisso, massimamente con occhi adirati: e a questo pericolo vanno più facilmente i fanciulli. E cosa più notabile è questa, che essi hanno due pupille per ciascuno occhio. Scrive Apollonide [Apollonides] anch’egli, che in Scizia [Scythia] sono donne di questa sorte, le quali si chiaman Bitie [Bithyae]. Filarco [Phylarchus] dice, che in Ponto sono popoli detti Tibii [et in Ponto Thibiorum genus], e molti altri della medesima natura; i quali in un occhio hanno due pupille, e nell’altro effige di cavallo. Oltre di questo dice, che i medesimi non possono andar sotto acqua, ancor che fossero aggravati da vestimenti. Scrive Damone [Damon], che in Etiopia [Aethiopia] sono i popoli Farnaci [genus Pharnacum], poco differenti di questi, il cui sudore fa marcire i corpi che tocca. E Cicerone [Cicero] anch’egli afferma, che tutte le donne, che hanno due pupille, nuocono per tutto con la vista. E così la natura, avendo generato nell’uomo il costume delle fiere di mangiar carne umana, ha voluto anco generare in tutto il corpo, e negli occhi d’alcuni il veleno, acciocchè non si trovasse sorte di verun male, che nell’uomo non fosse.»

   Che cos’è veramente il «malocchio» si chiedono De Concini e Polia nel loro libro a p. 86. “È un potere privato delle streghe? No. Il malocchio è un po’ tutto.

È una maledizione, una sua affatturazione che chiunque può fare, anche a sua insaputa, anche senza essere stregone, con un occhiata, con un sorriso, con un saluto.

   Dice Armando (un signore di cui parleremo alla fine): «l’occhio si fa con una cosa qualunque, con una suggestione a volte… […] Una persona può buttare il malocchio con due parole sole. Mettiamo che ti incontra e fa: che bel vestito che porti oggi!... Questo è un malocchio semplice che te scarica addosso una invidia normale, manco risaputa…. Poi può esserci l’invidia grande, e allora il malocchio cresce. Soprattutto quando tu parli e lo sai che vuoi portare il malocchio a quello con cui stai a parlare…».”

    “Il malocchio [pagina seguente], si dice fra gli arabi, è causa «della morte della metà dell’umanità. Il malocchio vuota le case e riempie le tombe». […] L’individuo che possiede l’occhio cattivo è detto il arabo ma’iân.” 

    “Perché il malocchio agisca [p. 101] efficacemente bisogna averne paura.  Ma la paura (in Sudamerica è detta «susto») può agire da sola, nelle pieghe dell’anima, anche senza malocchio. La paura è una vera e propria forma di incantamento, provocato da cose, uomini, spiriti, fatture.”

   Ma i tempi sono ormai cambiati. Don Stefano Felicetti dice a De Concini e a Polia – e nel ’91 – che “Penso ormai [p. 170] che le ragazze e i ragazzi non sappiano nemmeno più come si sfascino il malocchio e l’occhio, come lo chiamano qui.”

 

Torniamo ad erbe e pozioni. A Camerino ha sede un giardino botanico dal 1828. Il giardino botanico fu fondato da Vincenzo Ottaviani (Urbino 1790-1853), medico pontificio e professore di botanica e chimica presso l’Università di Camerino dal 1826 al 1840.

 

Al riguardo, sulle erbe da usare come pozioni vi è la testimonianza di Liutprando di Cremona sull’imperatrice Ageltrude. L’Imperatrice, due anni dopo la morte del marito, l’imperatore Guido (morto nell’894), dovette subire l’oltraggio dell’invasione germanica di Arnolfo di Carinzia, che venne eletto anti-imperatore da papa Formoso. Ageltrude, dopo aver spedito il suo figliolo Lamberto – legittimo imperatore, in quanto confermato non da uno bensì da due papi: Stefano V e lo stesso Formoso – in Borgogna, si trovò assediata dal sassone nel castello di Fermo. Per evitare di diventare una concubina del lascivo Arnolfo, riuscì a convincere (dietro esborso di una somma di denaro) un nobile tedesco, venuto a dettare le condizioni di resa, a far bere all’anti-imperatore una pozione che gli avrebbe addolcito l’animo.

Una pozione già bevuta da un servo dell’Imperatrice, senza alcun danno per la sua salute. Arnolfo bevve con gusto la pozione e cadde in completa apatia. Quattro giorni dopo l’esercito tedesco fuggiva, con il suo capo «stupido e infermo», oltre le Alpi.

Mai rompere le scatole a un’imperatrice, specialmente se nativa di Benevento! Ageltrude venne tacciata di stregoneria, infatti il più noto ritrovo delle streghe era a Benevento. Da Girolamo Tartarotti [Del congresso notturno delle lammie, Rovereto 1749, p. 27], sappiamo che a Benevento vi era un gigantesco noce attorno al quale ballavano le streghe nelle notti di tregenda. L’Autore ci informa inoltre di altri luoghi in cui avvenivano tali riunioni, tra questi: «il Barco di Ferrara», «lo Spianato della Mirandola», «il monte Paterno di Bologna», «il monte Tossale» nel bergamasco.

Secondo Giuseppe Di Modugno, [Cento leggende marchigiane, Urbisaglia, Ed. Villa Maina, 1987, p. 123], nel maceratese il luogo di riunione delle streghe era Monte Franco, al di sotto di Pollenza, sopra un Trivio che porta al paesino di Passo di Treia.

Della condotta morale di Ageltrude nessun storico del’epoca poté dire nulla, anche se, leggendo il suo testamento – il notaio redige il testamento in latino, ma è una lingua che si sta trasformando in quello che sarà il volgare –  Imperatrix lo scrive imperatrice e accanto a ipso monasterio lega subito de natabene. Non esiste e non è mai esistito un monastero de natabene a Camerino; Natabene è lei, forse giravano possibili voci maligne su di lei e Ageltrude le deve sfatare.

Lei, figlia di un principe di Benevento, già imperatrice longobarda,  moglie e madre di imperatori, ha lasciato l’abito talare, così come già aveva fatto in gioventù per seguire il suo amato Guido.

E ora era tornata in domo, a casa, in quella casa dove si era sposata ed aveva partorito suo figlio, ormai trasformata in un monastero.

Se queste voci ci furono, la fecero abbandonare Camerino per Fontana Brocoli (oggi Salsomaggiore Terme) al contrario della contemporanea Marozia e della figlia Teodora, amanti dei papi dell’epoca, tanto che quel periodo fu definito, dal Baronio, “pornocrazia”; purtroppo oggi scrittori moderni includono tranquillamente l’imperatrice.

    Ma allora l’attuale nome del lago da dove viene ? Esso ha origine da una leggenda citata da Antoine de La Salle, (1385?-1461?) nel suo libro Le paradise de la reine Sibylle [alle pagine 8-9 dell’edizione tradotta da Patrizia Romagnoli del 2001], secondo cui il cadavere di Pilato, posto su un carro trainato da bufali, arrivò sui Sibillini sino a finire nelle acque rossastre di questo specchio d’acqua.

Certo in Svizzera vi è un altro lago dedicato a Pilato. Ma come può essere nata l’identificazione di Pilato con questo lago?

Con l’identificazione della Francia picena e del mondo carolingia in Italia, un altro dovrebbe essere il romano che morì sui Sibillini presso Castelsantangelo sul Nera. Quando Ottone III fece papa Gregorio V, un sassone di madre franca, la ribellione scoppiò contro il primo papa non romano. A capo della rivolta c’era un nobile romano, Crescenzio, e la sua ultima resistenza fu in Castelsantangelo a Roma, nel Lazio.

Ma il professor Carnevale rileggendo le fonti, ovvero Pier Damiani in Vita S. Romualdi, al cap. 25, trovò: «Crescentius namque senator romanus, indignationem regis incurrens, in montem qui dicitur S. Angeli confugium petit, et quia inexpugnabilis est, obsidente rege, ad defendum se fiducialiter paravit».

Come giustamente riferisce il Professore [Giovanni Carnevale, La scoperta di Aquisgrana in Val di Chienti, Queen 1999, p. 143.], «Pier Damiani, cardinale della Chiesa Romana, sapeva bene che a Roma Castelsantangelo non è su un monte, ma lungo il Tevere. Se afferma che Crescenzio organizzò la sua estrema difesa su un monte, il Castellum S. Angeli delle più antiche fonti italiane non può essere collocato in Roma. Solo in una delle fonti si trova il termine “Roma” […]».

Non citeremo le altre fonti trovate dal Professore che parlano del «Mons Gaudii» o «Monte Gaudio», cioè del Monte Lieto [Ivi, p. 144. Il Professore riferisce che Monte Lieto «si prestava al gioco di parole: Mons Laetus (cioè del gaudio) per i locali sassoni e Mons Leti (cioè della morte) per gli italiani».] che sormonta Castelsantangelo sul Nera. Diremo soltanto che morto Crescenzio, al suo cadavere fu riservato un terribile trattamento: fu trascinato dai buoi «per paludes viarum» da Castelsantangelo a Monte Lieto e lì, assieme a dodici suoi compagni, appeso per i piedi a un alto patibolo, perché tutti nelle valli sottostanti lo vedessero con terrore [Ivi, pp. 143-44.]. Quindi l’identificazione del senator romanus Crescenzio con Pilato è stata praticamente obbligata.

Un’ultima cosa! Mi hanno detto che le ricerche e i libri del professor Giovanni Carnevale non sarebbero altro che “puffa” (per dirla come i Puffi). Bà! A questo punto mi sento autorizzato a definire le pompose e “serie” ricerche universitarie pericolosissime SCORIE ATOMICHE (mettiamoci anche le ricerche di un certo famigerato centro studi), che intaseranno la Storia fino alla fine dell’umanità che ci aspetta a breve.

 

   Detto ciò, torniamo a un’ultima volta a Montemonaco, il Mons Daemoniacus, come fu anche definito. Tra le varie leggende vogliamo segnalare quella relativa a Montemonaco, la cui fondazione risale sia ai pronipoti di Noè, quindi antichissima, sia a Carlo Magno.

C’è poi Augusto Vittori, Montemonaco nel regno della Sibilla Appennica, [Firenze 1938, a p. 20], riferisce che «incendi e saccheggi distrussero l’importante Archivio Comunale, che, forse, avrebbe potuto dare conferma alla vetusta tradizione locale, decisa ad attribuire a Carlo Magno l’occupazione e la fortificazione di questo Castello, sulle cui mura si vedeva ancora scolpita, non molti anni fa, l’impresa del Giglio di Francia».

G. Battista Miliani nel 1892, nel suo scritto su I monti della Sibilla [estratto da Ann. 1888-91 della sezione di Roma del  C.A.I.  a p. 20], racconta di quando fermatosi a Isola S. Biagio, presso Montemonaco, incontrò l’anziano parroco don Nicola Ottaviani, il quale riferì che alcuni pronipoti di Noè «vennero a porre stanza presso i monti della Sibilla» e che «Carlomagno s’interessò di questi paesi».

Un’idea di ciò che poteva essere narrato è forse traccia nel Graphia aurea urbis Romae, in essa si narra di come il «patriarca Noè, dopo ché la sua pervertita discendenza ebbe edificata la torre di Babele, entrò co' figliuoli in una nave e approdò in Italia. Non lunge dal luogo dove poi sorse Roma, costrusse una città cui diede il suo nome, ed ivi terminò le fatiche e la vita». La Graphia aurea urbis Romae è, al pari dei Mirabilia Urbis Romae, una guida destinata ai pellegrini in visita alla città eterna. Mentre però i Mirabilia nascono nel XII secolo, la Graphia aurea è di un secolo posteriore, probabilmente redatta prima della scomparsa del cronista medievale Martino Polono, morto nel 1279.

E sulla fondazione di “Roma”: «Roma, sin dal suo primo nascere opulenta e magnifica, non fu popolata di pastori e di banditi, ma di varie stirpi generose, e di molti nobili uomini. A tale proposito dice la Graphia: “Anno autem CCCC.XXX.III. destructionis troianae urbis expleto, Romulus Priami Troianorum regis sanguine natus, XXII. anno etatis sue, XV. Kal. maias omnes civitates iam dictas muro cinxit, et ex suo nomine Romam vocavit. Et in ea, Etrurienses, Sabinenses, Albanenses, Tusculanenses, Politanenses, Telenenses, Ficanenses, Janiculenses, Camerinenses, Capenati, Falisci, Lucani, Ytali, et omnes fere nobiles de toto orbe cum uxoribus et fillis habitat uri conveniunt”». Vedi Arturo Graf 2006, Roma nella memoria e nelle immaginazioni del  medio evo, Roma, il cubo, p. 64 («La fondazione di Roma»). Riportiamo in grassetto la citazione agli abitanti della città di Camerino; di cui non posso dimenticare la visione delle colonne del Foro Romano, che vidi al di sotto  del teatro Betti, in piazza a Camerino, grazie alla cortesia di un gentilissimo inserviente comunale.

 

   Torniamo ancora a Castelluccio dove sono in gita due bambini fatati (sono personaggi del mondo del fumetto, no?) come Cucciolo & Beppe.

   De Concini e Polia scrivendo del Paradiso del diavolo, intervistarono molti paesani, il primo di loro abitava in via delle Fate. Il signor Loreto, colpito anni prima da un ictus, un “colpo” per cui si sbatte continuamente la testa come per riattivarla. Sapeva tutto di fate e maghi, ma ormai non riusciva a ricordare e aveva difficoltà a parlare, ma riuscì a mormorar loro queste parole “Quando dopo la guerra se sono spente le candele e s’è accesa la luce elettrica, se sono spente pure le fate…”, e continua “Non gli danno spazio li fili dell’elettricità… Ce voleva il buio e il camino acceso la notte… “ e finisce sospirando e osservando in cielo i deltaplani colorati “Che volete fa’? … Quanno volano le farfalle de tela, come fanno a vola’ le fate? [p. 26]”

    Ma in realtà la magia rimane comunque con Armando, ancor vivo nel ’91, quando uscì  il libro. Era un mago buono… certo mi dispiace dire era, ma sono passati circa trent’anni. Aveva un banchetto sulla piazza dei Milioni a Castelluccio, dove vendeva libri sul suo paese, sacchetti di lenticchie, ciuffi di peli di tasso contro le streghe e cornetti di ginepro preparati con una pinza e le sue mani.

Racconta di quando le fate, passando sul lago di Pilato, “ci si lavano i piedi…“ e “Andavano via dalla grotta di notte… E più giù, verso piano, si fermavano dove c’era una stalla… prendevano i cavalli segretamente, e se ne andavano verso le piazze e le are dove si ballava…[p. 65]” e arrivavano fino a Pretara.

   Lui diceva «Faccio la magia con questo Pinocchio». Un Pinocchietto con un bel nasino impertinente e un cappello che mi ricorda quello dei nipotini di Paperino. De Concini e Polia dicono che è stato scolpito su un ramo di ginepro, avvolto da un sorta di maglioncino marrone, ornato con striscette rosse [contro l’invidia?] trecce bianche e verdi, e un’infinita sonagliera di campanellini.

E attaccato al collo un cartello con su scritto “Se baci il naso di Pinocchio è sicuro che passa il malocchio[p. 40]”.

    Già, ma perché Pinocchio fa la magia? Perché «Pinocchio l’ho battezzato su al lago di Pilato… […] pe’ fargli prendere più magia… E dopo ave’ fatto ‘sto battesimo in due o tre volte, ho capito che con questo Pinocchio dovevo comunicarci… lo acchiappo come un bracciolo, faccio mette sopra la testa sua la mano di chi ha bisogno di comunicare… E dopo […] ci ho la forza di capire le persone, le malattie che ci hanno… Mi dice tutto questo Pinocchio»

    Il pinocchietto di Armando l’ho visto una volta sola, sei – otto anni fa, in mano del figlio di Armando. Lui non c’era più.

Nel 2020 ho voluto fare un mio piccolo omaggio ad Armando e al suo Pinocchietto. Ho immaginato in un bambino di nome Gasparinet, scaturito dalla fantasia del mio amico Jean-Yves, che non si separa mai dal suo balocco; un altro Pinocchietto stracciato ma tanto carino… chissà quale magie compirà con Gasparinet?!

Perché, per chi sa sognare, le fate non muoiono mai.

 

Cino da Pistoia, giudice collaterale del Rettore della Marca,

 nel 1320.

 

Appendice

Altri piccoli misteri nella zona intorno ai Sibillini

Notizia estratte dai primi numeri del Giornale dei Misteri

 

La zona che guarda al mare Adriatico in un inquietante triangolo

 

Curiosità misteriose dal Giornale dei Misteri n. 2 del 1971

 

   Francesco Francesconi, mago di Agolla, in provincia di Macerata, affermò che si poteva diventare fattucchiere. Ed ecco come. La notte del 24 giugno, S. Giovanni, recatevi in un posto isolato, mettetevi sotto una pianta di felce, che pare fiorisca proprio quella notte, e raccogliete in un fazzoletto tutti i semi che essa dà. Restate immobili ed assorti e non spaventatevi se vedrete passare belve e fiere, spiriti che vi beffeggeranno e vi schiaffeggeranno. Non vi sarà facile superare questa prova, ma se vi riuscirete, vi verrà presentato un libro sul quale, col vostro sangue, apporrete la vostra firma. Da quel momento vi sarà conferita la virtù di essere un fattucchiere.

 

   In una chiesa parrocchiale di Ameterno, in provincia dell’Aquila, vi sono delle catacombe alle quali si accede attraverso una scala. In uno degli scalini, protetto da una piccola inferriata, si vedono le orme di una mano e di due piedi e si crede che siano quelle lasciate da uno dei martiri che tentarono di sfuggire ad una persecuzione di cristiani.

 

   Ad Ancona vi è una leggenda per cui una volta l'anno, sul Monte Conero si radunano tutte le streghe, che vi celebrano una gran festa, e colgono erbe per i loro filtri magici. Per non farsi riconoscere le streghe si trasformano in vespe e mosconi, in gatte o in donne nane.

   

Dal n. 3, sempre del ‘71

 

   Camerino vanta un centro di studi metapsichico, dove settimanalmente si tengono delle sedute spiritiche. Il Centro nacque in seguito alla presenza di uno spirito romano del III° secolo d.C. che aveva ucciso un gran numero di cristiani e non trovando la pace eterna, si aggirava nella casa di un camerinese. Un medium ebbe la occasione di incontrarlo durante una seduta medianica, lo fece convertire al cristianesimo e lo fece andare in pace. Lo stesso medium pare abbia incontrato anche lo spirito di Dante.

 

   Una ventina di anni fa, durante una seduta spiritica tenutasi a Camerino, in presenza di autorevoli personalità, fra cui un insigne medico, il medium entrò in contatto con uno spirito. Si trattava di una donna, Rosa Menichelli, la quale affermò che era stata sepolta viva e raccomandava di evitare ad altri le stesse pene che lei aveva sofferto. Fatte le dovute ricerche fu scoperto che una donna di tal nome era deceduta in seguito a parto una decina di anni prima presso l’ospedale civile di Camerino. Riesumatane la salma, per interessamento dell’illustre clinico presente alla seduta, fu scoperto che lo scheletro aveva il teschio girato da un lato, e le ossa delle dita di una mano si trovavano nella bocca, strette fra i denti. Tali segni parvero lampante dimostrazione di quanto asserito dallo spirito.

 

Dal n. 4

 

    Oltre un secolo fa, alcuni archeologhi scoprirono nella necropoli di Cuma, presso Napoli, famosa per la mitologica Sibilla [ricordate, che scrivevo più sopra che per la mia fantasia la sibilla di Norcia era quella di Cuma? Puga], un tumulo con alcuni scheletri privi tutti del cranio. Malgrado gli studi, le polemiche e le supposizioni, non si è ancora scoperto il motivo di tale mutilazione.

 

   Fra i segni lasciati da Satana, ogni volta che appare sulla terra, ve n'è uno assai caratteristico nei pressi di Cingoli, in provincia di Macerata. In località Panicali, sul fianco della montagna, esiste una spaccatura a forma di mano. Si racconta che il diavolo passando da quel luogo, vide un'anima e pensando di portarla all'Inferno, tentò di afferrarla. L'anima gli sfuggì e per la rabbia Satana batté la mano sulla montagna, scavandovi una profonda spaccatura. Nelle notti di plenilunio, molti affermano che sembra di sentire un lamento che proviene dalla fenditura.

 

   A Niccone presso Perugia, si crede che nelle ore notturne, le anime del Purgatorio scendano in terra, assumendo la forma di animali. I buoni nicconesi non maltratteranno mai, quindi, un animale fino alla mezzanotte. Da quest’ora in poi e fino all'alba, si crede che sotto le spoglie di animali si celino delle streghe.

 

ωωω

Marco Pugacioff

Macerata Granne

(da Apollo Granno)

S.P.Q.M.

(Sempre Preti Qua Magneranno)

25/04/'22

 articoli


 

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