IL SACRO
LIMEN DELLE MAPPAE MUNDI
di
Claudio Piani Diego Baratono
Virgilio, nella sua Eneide (Libro I, versi 365-369), da notizia che Didone, ossia la
mitica regina fenicia innamorata di Enea, per racchiudere la maggior parte di
territorio su cui poter dar vita alla “sua” urbe, escogita a scapito di Iarba,
re africano, un espediente raffinato: tagliare in sottili listarelle un manto
di pelle taurina al fine di ottenere una corda più lunga possibile. La fune in
discorso sarebbe diventata utile a demarcare un esteso perimetro semicircolare:
si erano appena delineati i precisi confini della futura città di Cartagine.
Quanto emerge dalla narrazione virgiliana è, forte, il riferimento a quei
primordiali riti di fondazione, sacri e sacralizzanti, che governavano la costituzione
delle varie città approntate dalla poderosa civiltà di Roma Antica. Più
precisamente ad officiare il rito del tracciamento del sulcus primigenius (Varrone,
De lingua latina, 5.143) troviamo un sacerdote, l’augure, ammantato da un velo che gli ricopre il capo trattenuto in
vita dal cinctus gabinus:
l’abbigliamento era in uso presso Gabi, primigenia colonia latina degli Albani
tra Roma e Preneste abitata ininterrottamente dal X sec. a.C. al II-III sec.
d.C., dove Romolo e Remo furono educati,
specifico appunto dei riti “capite
velato” di importanza sacrale. L’augure, dunque, mediante la lama di un
aratro trainato da un toro ed una giovenca traccia un solco circolare.
Disegno di Marco Pugacioff sulla creazione di Roma.
Dal libro "Guida illustrata a Roma antica".
Il
perimetro circolare ottenuto ha la precisa funzione di separare lo spazio sacro
della fondazione che diventa ager romanus da quello non sacralizzato,
profano (pro-fanum, ossia “davanti al
tempio”, per estensione fuori dal luogo sacro) che si trova inevitabilmente
all’esterno di esso ovvero l’ager peregrinus.
Da sempre, dunque, l’importante attività dell’agrimensura con i pertinenti
rilievi geodetici degli spazi è legata ad un’attività antropica particolarmente
evocativa: la fondazione di un sito urbano. L’operazione, sacra, era legittimata
da un potente e significativo atto sacralizzante volto a marcare indelebilmente
nel tempo l’acquisizione, l’agnizione, di un nuovo spazio, di un nuovo
territorio, ancorandolo a processi giuridici e amministrativi inequivocabili.
Si tratta della struttura portante stessa che informa la polis romana. Dall’azione di misurare uno spazio a quello di
trascriverlo attraverso un grafismo su di un supporto di pelle o di tessuto, ovvero
la mappa, il passo è immediato se non addirittura scontato. Meno scontata è la
traduzione letterale del termine “mappa”, che in latino significa “tessuto”, ma
anche “pellame”. Dunque tessuto e mappa nell’antichità erano sinonimi, come lo
era anche per la parola mappa mundi:
con questa si intendeva il tessuto, la pelle, il manto, il rivestimento del Mondo.
Delimitazioni di confini, riti sacri e giuridici, realizzazioni di mappe
catastali e mappae mundi: tutto era
ordinato attraverso la narrazione ideologica dominante nell’orizzonte storico
analizzato. Il fatto interessante è che il più delle volte in tutte queste
azioni sacro-ordinatrici troviamo la presenza dell’elemento tissutale simbolico
ma a volte anche pratico, un esempio è l’ammantatio
di un Imperatore o di un Papa, del “mantello”. Il mantello è speciale. È
indumento sovraccarico di significati sacri e per questo, dunque, metafisico. È
lo strumento, il dispositivo mediatore tra divino e realtà terrena. Secondo gli
scriventi è proprio osservando documenti come le mappae mundi che si possono cogliere questi aspetti così difficili
da intuire e recepire per noi figli del nostro tempo. Segnali a volte
sorprendenti perché proprio celati da una patina, una stratificazione culturale
accumulatasi nei secoli difficile ancor più oggi da asportare. L’idea di
spolverarla ci è venuta quando nel 2003 si è presentata l’occasione di
riflettere sui particolari e affascinanti contorni di una mappa mundi, che si ricorda significa tessuto, manto del mondo, tra
le più significative della nostra storia occidentale.
Martin
Waldseemuller
Quelli che delimitano e
contengono i dati geografici della Universalis
Cosmographia realizzata e pubblicata la Domenica 25 Aprile del 1507 a San
Deodato in Lotharingia dal canonico tedesco Martin
Waldseemuller, su cui compare per la prima volta in assoluto, sulla quarta
parte di terra, scoperta nei suoi quattro viaggi dal fiorentino Americo
Vespucci (Patrizia Licini, Ed. Pancallo, 2011), il geonimo “A.M.E.R.IC.A.” Quanto
emerge inaspettatamente dalle nostre analisi è che i profili della grande mappa mundi del 1507 in discorso,
seguono quelli del mantello (piviale) aperto e indossato dalla Madonna dal capo
velato, dipinta da Domenico Ghirlandaio tra il 1475 e il 1480 (Cappella
Vespucci, chiesa d’Ognissanti, Firenze). Una Madonna misericordiosa quella
dipinta dal Bigordi, unica nel suo genere per il fatto che sotto al suo manto
troviamo raffigurata in un spazio sacro circolare atto a delimitare un vero e
proprio limen cristiano, proprio la famiglia
del navigatore fiorentino Americo. Ovvero quella dei Vespucci. Quanti rimandi
si affastellano in questo accostamento proposto per la prima volta dagli
scriventi, e da qualche anno introdotto come materia di studio nelle università
anglosassoni (Veronica della Dora, Ed. ASHGATE, 2015). Limiti cartografici di
una mappa che attraverso i contorni del mantello sacralizzano il mondo intero,
ma soprattutto sacralizzano la scoperta di un nuovo quarto continente,
giustificato dalla narrazione giuridica e religiosa del Vecchio Mondo impostato
su canoni giudaico – cristiani. Un manto, un velo come quello indossato dagli
antichi sacerdoti romani che celebrando un antico rito tracciavano il limen di nuovi spazi geografici. Ad oggi,
ad ampliamento e conferma di queste nostre ricerche, ci sono i notevoli studi
di Franco Farinelli (Luoghi dell’Infinito, febbraio, 2019), che rilevano come
la simbologia religiosa e l’estetica delle mappae
mundi medievali, sottolineata dalla figura circolare della perfezione
divina, era un messaggio simbolico ben chiaro a tutti in quei lontani periodi
storici. Era informazione tanto chiara, che la localizzazione del Paradiso Terrestre
all’interno di esse ne caratterizzava la natura escatologica più pregnante. Ad un
certo punto però l’immagine di questo paradisiaco luogo metafisico smette di
apparire sulle mappe per finire, come su quella del camaldolese Fra Mauro, tra
la cornice circolare della mappa stessa. Ora, da quel momento in poi sempre più
di rado la rappresentazione del Paradiso Terrestre si viene a trovare
rappresentato sulle terre delle mappe medievali, quasi fosse stato fagocitato
da una dimensione cosmografica altra. Si ma quale, e soprattutto dove era la
nuova collocazione? L’indizio che cercavamo per capire dove fosse stato
collocato il “concetto” di Paradiso Terrestre all’interno delle più aggiornate mappae mundi del XV secolo ci giunge proprio
dalla rappresentazione cosmografica apparsa nel 1507. Pur se in questa mappa mundi l’immagine del Paradiso Terrestre
non è esplicitata, anzi sembrerebbe proprio cancellata, l’autore con uno
straordinario colpo di genio, che a ben vedere è tanto profondamente meditato
quanto metaforicamente evoluto e quindi non più legato ad un immagine vera e
propria, riesuma in filigrana il concetto di Paradiso Terrestre proprio grazie all’elemento
sacro e sacralizzante del manto, “quel” piviale indossato dalla Vergine, che proprio
per le sue sacre caratteristiche genitrici da sempre è stata intesa quale Eden in Terra.
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