Piccolo campionario dell’insolito 8
Da Bolsena
Lì
dove oggi vi è il lago di Bolsena, quando vennero ad abitare nella regione i
primi uomini, molto, molto tempo fa, vi era un tempo un enorme vulcano che eruttava
fiamme e lava ed emetteva fumo come il Vesuvio.
Da
esso scaturì, secondo la tradizione una creatura per metà uomo e per metà bestia
che vomitava nelle varie campagne materiale incandescente seminando morte e
distruzione. Il suo nome era Volta. In seguito riuscì ad
calmarsi, divenendo amico degli uomini, dando fertilità alla terra ,creò il
lago e trasformò il paesaggio in un piccolo paradiso fatto di foreste piene di animali.
Da
allora fu chiamato Voltumnia il «Mutevole». Un suo
tempio fu eretto nella città di Velzu dove ogni anno si riunivano i dignitari
della Confederazione, i sacerdoti, i lucumoni e i pellegrini; qui si
discutevano interessi comuni di pace o di guerra, si tenevano i giochi sacri e
le più alte manifestazioni religiose. Voltumnia
aveva
al suo fianco la dea che proteggeva i campi, il destino e la salute degli
umani. Nel suo tempio si teneva il computo degli anni conficcando un chiodo di
bronzo, da quel che si sà, in un antichissimo tronco d'albero.
A Velzu – di cui Bolsena (la romana Volsinii) è oggi la sua discendente – si dice sia nata
la macina per cereali; addirittura Plinio narrò che «alcune macine si erano messe
in movimento misteriosamente», senza l'azione di alcuna forza naturale. Che
l’arcano fosse proprio delle leggende etrusche c’è lo dice anche l’episodio di re
Porsenna in cui dovete affrontare un mostro spaventoso, anche lui chiamato Volta, e che per sconfiggerlo invocò un fulmine dal
cielo.
La
fine di Velzu, viene rievocata da Plinio
(Nat. His. 11, 53), avvolgendola di un evento arcano, infatti fu un fulmine a
distruggerla, l'incendiandola completamente.
Gli
etruschi custodivano comunque gelosamente il loro sapere su come invocare i
fulmini dal cielo, lì dove dimoravano gli Dei. Quando più precisamente
nell’anno 408 dell’Era Volgare, Zosimo (Storia
nuova, 5,41)
narra
che i barbari insidiavano Roma e il prefetto
Pompeiano pregò papa Innocenzo I che concedesse a un gruppo di sacerdoti
etruschi di svolgere dei riti per invocare lampi e fulmini contro gli invasori.
Innocenzo malignamente
acconsentì purché, «anteponendo alla propria
fede la salvezza di Roma», la cerimonia etrusca fosse avvenuta di nascosto.
Questo, i fieri sacerdoti non lo accettarono e se andarono con gravi
conseguenze per la città eterna.
Fonti:
- Itinerari Etruschi, Nicosia, 1985, Pagg. 291 – 294
- Guida Insolita ai luoghi, ai
monumenti e alle curiosità degli Etruschi, F. Chiesa, G. M. Chiesa, pag. 305
Sulla leggendaria
Sextum
In
una zona compresa fra il fiume Arno e il Serchio, alle pendici nord-ovest del
Monte Pisano, vi è un terreno, che ancora negli anni ’80 era in parte paludoso,
conosciuto come «Bacino di Bienlina» (o anche il suo
«lago»). Questo lago inizia tra Vicopisano
e Calcinaia e si conclude nelle campagne prossime alla città di Lucca.
Tra
la gente del posto corre una suggestiva leggenda secondo cui il «lago» avrebbe
avuto origine da uno spaventoso terremoto. L'improvviso cataclisma inghiottiva
una città arcana e corrotta chiamata Sextum,
i cui
ruderi, secondo tenaci affermazioni, sono individuabili sotto le acque a una
certa profondità.
Un
cedimento del terreno in tempi remotissimi sembra confermato in una Statistica della Provincia di Pisa, del 1863. In
quell’anno ci fu un ritrovamento di alberi «posti verticalmente» (querce assai
fitte, a bosco) alla profondità di oltre 10 metri.
La città sarebbe scomparsa a causa di un spaventoso diluvio e i
pescatori potevano vedere i resti sul fondo del lago, tanto che usavano perfino
le strade
della città e le sue piazze come punti
di riferimento per le loro battute di pesca.
Viene da domandarsi se questa leggenda sia da collegarsi a quella
tradizione, già antica nell’antica Roma, in cui si narrava che l’unica
popolazione a salvarsi in Italia dal diluvio universale siano stati gli Umbri. Oggi l’archeologia identifica quei resti
come appartenenti ad innumerevoli case coloniche romane, tanto che l´area era
chiamata "la pianura delle 100 fattorie". Un imponente strada di
collegamento ricordata dal geografo greco Skylax, passava da questa città e metteva
– nel IV secolo a. E. V. – in comunicazione Spina e Pisa con un viaggio di tre
giorni.
Se davvero sextum fu una colonia romana, non fu certo l’unica a scomparire.
In Corsica, nonostante il suo aspetto sassoso e a detta di Strabone impraticabile,
vi erano ampie zone coperte di boschi inesplorati dove nel III secolo prima
dell’Era Volgare vi si perse un gruppo di coloni romani.
Fonti:
- Itinerari
Etruschi, Nicosia, 1985, pag. 63
-
http://www.antikitera.net/news.asp?ID=2303
- Platone in Italia, Vincenzo
Cuoco 1824, pag. 354
- Guida
Insolita ai luoghi, ai monumenti e alle curiosità degli Etruschi,
F. Chiesa, G. M. Chiesa, pag. 104
Sull’epatomanzia
Stralci da un articolo di Umberto Di
Grazia
Le similitudini degli Etruschi con i Caldei sono molto rilevanti.
«L'arte della epatomanzia (predire il futuro attraverso l'analisi del fegato di
animali) etrusca sembra una copia, a volte più raffinata, di quella Caldea. C'è
un'affinità incredibile fra mantica Etrusca e Babilonese. […]
Nel
330 a.C., i detentori della conoscenza erano da tempo asserviti per produrre
premonizioni a seconda del cliente di turno. Così la variopinta Babilonia,
appare agli occhi di Alessandro il Macedone; ricca di opere d'arte e
di monumenti abbandonati: composta da una
eterogenea popolazione. Retta da una casta sacerdotale, affermata da secoli
nelle osservazioni astronomiche, e perfettamente inserita negli intrallazzi
politici. Fece molto scalpore, durante la cerimonia per festeggiare il potente
Alessandro, un aruspice etrusco «indipendente». Infatti costui sbalordì tutti
nell'arte della epatomanzia e ancor di più per la sua profezia che avvertì
della imminente fine del prode condottiero. Potete immaginare le reazioni che
si ebbero verso questo straniero non allineato.
Ma il tempo e i fatti successivi dimostrarono la validità dell'aruspice
etrusco.»
- Giornale dei Misteri n. 89 del 1978
Su Viterbo
Si
narra che un giorno Ercole volesse visitare il tempio di Voltumma situato ai
piedi del monte Cimino e chissà perché, forse s’era infuriato per qualcosa di
storto che aveva visto oppure voleva dar mostra della sua forza mostruosa – và
a sapere – creò il «Lago Cimino»; tal’altro senza che chi tramandò questa narrazione
spiegasse cosa usò, se il suo pugno o la sua clava. La leggenda era ben viva
tra pastori e contadini quando arrivò al’inizio del ‘500, ad affrescare le sale
del Palazzo Farnese di Caprarola, Federigo Zuccari, artista del tardo manierismo
italiano.
Sempre
fra il popolo delle campagne girava la storia del funesto episodio di quel
pastore che fu inghiottito in un acquitrino della Grande Macchia e fu trasformato
in una statua; egli è lì fermo, da decine di secoli, a custodire un gregge di
pecore d'oro ripiene di gemme e pietre preziose.
Altra
voce è quella della «chioccia dai pulcini d'oro», che ricorre in tutti i paesi
delle campagne toscane e meridionali ed arrivò fino alla grotta della Sibilla, nei Sibillini, sopra l'incantevole Castelluccio, dove regnano le fate... ed infine da lì perfino nell’antica città marchigiana
di Camerino fondata anticamente dalla tribù dei Camerti Umbri e distrutta definitivamente dal terremoto del 2016; qui la chioccia è sepolta negli inaccessibili
sotterranei della famigerata Rocca dei Borgia insieme a bauli colmi di gioie
favolose.
Secondo la
Guida ai misteri e segreti del Lazio,
Sugar del ’69, al posto del lago di Genzano, in provincia di Roma c'era una
volta un paese in cui abitava anche una vecchia saggia. Costei un giorno sentì
una voce che le raccomandava di uscire dal paese e di non voltarsi indietro per
nessun motivo. La vecchia prese le sue cose e cominciò ad allontanarsi dalla
sua casa quando le giunse alle orecchie un
grande boato: dimenticando ogni prudenza si volse e vide un lago dalle
acque agitate al posto del paese. La vecchietta vive ancora in una grotta sul
Monte delle Due Torri presso Genzano, e ogni tanto la si può vedere aggirarsi tra le rovine in compagnia
dei suoi pulcini dalle piume d'oro.
A Viterbo si dice che la chioccia abiti nelle «Grotte di Riello» e dopo aver razzolato sotto le labirintiche gallerie sotterranee che percorrono tutta la zona, esce quando inizia a scender la notte; se qualche passante se la trovasse di fronte, nel vedere lei e suoi pulcini d’oro massiccio che beccuzzano per terra, ne sarebbe troppo stupito da non poterli fermare mentre rientrano nel loro antro.
A Viterbo si dice che la chioccia abiti nelle «Grotte di Riello» e dopo aver razzolato sotto le labirintiche gallerie sotterranee che percorrono tutta la zona, esce quando inizia a scender la notte; se qualche passante se la trovasse di fronte, nel vedere lei e suoi pulcini d’oro massiccio che beccuzzano per terra, ne sarebbe troppo stupito da non poterli fermare mentre rientrano nel loro antro.
Dietro
la leggenda della «chioccia dai pulcini d'oro» c’è chi vi ha visto un arcano
riferimento al Gran Sacerdote etrusco e ai dodici Lucomoni del suo seguito.
Ricordate infatti dove voleva andare Ercole? Ma al veneratissimo santuario di
Volturnma, il Fanum Voltumnae, centro religioso e
spirituale dei Rasenna, la cui precisa
ubicazione resta ancora un mistero.
La processione del Cataletto, così come
immaginata dal talento visionario
di Franco Bignotti. Da Martin Mistere
n. 4 del 1982
Ma la
zona è comunque poco praticata; infatti in quei luoghi, più esattamente sulla strada
del Signorino alla «Caverna del Cataletto», in particolar modo proprio quando
la chioccia esce, cioè all'imbrunire è meglio starne lontani. Si dice infatti che
in particolari notti estive e senza luna, davanti al’ingresso della caverna si può
arrischiare di trovarsi di fronte ad un spaventoso corteggio diabolico; quattro
dèmoni portano a spalle un «cataletto» tutto d'oro mentre altri confratelli,
pelosi e cornuti, cantano e danzano intorno suonando pifferi, zampegne e
timballi. Non molti decenni fa un poveretto che faceva la guardia al suo grano
ebbe la sventura di trovarsi davanti al terrificante spettacolo: vide appunto «
un prestigioso corteggio di diavoli dal pelame fulvo che trasportavano il
prezioso «catafalco» scintillante, impregnato di una propria luminosità, sul
quale vi era assiso un uomo vivo, rivestito di festosi
paludamenti.
Viterbo
dai tempi della contessa Matilde è sempre stato parte del cosiddetto
«Patrimonio di S. Pietro», nonché residenza di papi – tanto che uno di loro nel
1277 fu schiacciato dal crollo del tetto del palazzo dei Papi – e sede di
conclavi nel medioevo. Perciò doveva esser sotto mira dei diavoli. E alla
mezzanotte di lunedì 29 Maggio 1320, dopo la Pentecoste si manifestarono in
maniera sensazionale. Come schiere di uccelli impazziti, un gran numero di
«formazioni» di demoni svolazzavano quella notte sul cielo oscuro sopra la
cerchia delle mura, minacciando l’atterrita città di distruzione. I popolani
impazziti dal terrore si radunarono nella Chiesa della Santissima Trinità e
iniziarono ad alzar cori di preghiere alla Vergine. I diavoli infastiditi di
tutte queste invocazioni ritornarono da dove erano sbucati fuori, nel vicino
lago Bulicame.
-
Itinerari Etruschi, Nicosia, 1985, Pagg. 267 – 268
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