LA COMMEDIA DELL’ARTE
Articolo apparso sull'Enciclopedia
dei ragazzi Mondadori, volume III, 1958
Libro
xx - il LIBRO DEL
TEATRO - Pagg. 1998 - 2001
Anni or sono, un celebre critico definì un famoso attore italiano
come un discendente dai « Comici dell'Arte ». L'attore era tanto geniale quanto
incolto, e se l'ebbe a male. Ma si placò ben presto, quando qualcuno gli fece
sapere che la «Commedia dell'Arte» è stata manifestazione tra le più fulgide
del nostro teatro, e i suoi attori non già istrioni rozzi e randagi, bensì
artisti di grandissima valentia, ammirati con entusiasmo incredibile, per oltre
due secoli, dai pubblici di tutta Europa, nonché da principi, sovrani, artisti
e poeti famosi. Isabella Andreini era chiamata «la divina» come ai nostri
giorni Eleonora Duse; e, come la Duse fu cantata da Gabriele d'Annunzio,
Isabella ebbe fra i suoi esaltatori Torquato Tasso. Tristano Martinelli, famoso
Arlecchino, durante un'udienza concessagli da Enrico IV re di Francia, spinse la sua impertinenza fino a sedersi sul trono
lasciando il re in piedi; e, s'intende, non venne punito. Al medesimo
Martinelli, Luigi XIII tenne a
battesimo un figlio; perciò Arlecchino scriveva al re ed alla regina di Francia
chiamandoli Compare Gallo e Comare Gallina. Un altro
Arlecchino famosissimo, Domenico Biancolelli, assisteva un giorno al pranzo di
Luigi XIV, il «Re Sole», e adocchiava certe
pernici servite in un gran piatto d'oro massiccio. Il re se ne accorse e disse
ai servi: «Date quel piatto ad Arlecchino». E l'attore pronto: «Anche le
pernici, Maestà?». Il re, con gesto regale, rispose: «Anche le pernici»; e
Arlecchino si portò via il magnifico piatto. Tutte le corti d'Europa ospitarono
compagnie di attori «dell'Arte». A Parigi attori italiani ebbero un teatro
stabile per circa due secoli, e si fregiarono del titolo di «Comédiens du Roi».
Orbene: quali le ragioni di un successo cosi grande?
Non certo pregi di arte letteraria. La «Commedia dell'Arte» nacque soprattutto
come reazione al teatro degli umanisti, che appariva freddo e monotono a un pubblico
che non fosse colto. Il suo repertorio era costituito, più che altro, dai
cosiddetti scenari o canovacci a soggetto. Erano tracce di
commedie, o di drammi pastorali, distese atto per atto, scena per scena; ma le
battute non erano scritte per intero, bensì indicate con cenni sommari.
Sviluppare quei cenni era compito dell'attore, o della sua capacità
d'invenzione. Perciò la «Commedia dell'Arte» aveva il suo pregio nella
rappresentazione, non nell'opera scritta. Gli allestimenti erano fastosissimi; alla
recitazione si univa la musica e la danza. Gli attori erano insieme cantanti,
sonatori, mimi, ballerini, persino acrobati e giocolieri. Lo Scapino Gabrielli
sonava egregiamente otto o dieci strumenti. Tiberio Fiorilli, detto Scaramuccia,
a ottant'anni somministrava ceffoni ai compagni di scena servendosi della
pianta dei piedi. L’Arlecchino Visentini sapeva fare il salto mortale
reggendo in mano un bicchiere di vino senza versarlo; e in certe scene di
comico spavento, usciva dal palcoscenico e si metteva a correre sui parapetti e
i cornicioni dei palchi, tutt'intorno alla sala.
E tutto questo non era, non poteva essere frutto
d'improvvisazione, bensì di una preparazione lenta, accurata, meticolosa.
Accadeva qualche volta, è vero, che l'attore
inventasse, anche improvvisasse battute particolarmente vivaci. Però quelle
battute venivano subito registrate e replicate all'infinito. Cosi, anche al
nostro tempo, attori come Ferravilla, Scarpetta, Petrolini, i De Filippo. Le
battute non erano scritte per intero, ma supplivano largamente certi zibaldoni
scritti e anche stampati: contenevano i cosiddetti lazzi, cioè
facezie o motti arguti; c'erano soliloqui o tirate, vale a dire
racconti, sfoghi appassionati, invettive; c'erano concetti, che erano
detti complicati, bizzarri e ingegnosi; c'erano sortite per cominciare
una scena oppure saluti e chiusette per concludere e andar via.
Alla necessità di una preparazione lenta, accurata, meticolosa, risponde la
denominazione stessa di «Commedia dell'Arte». Nel Medioevo recitavano attori
improvvisati, dilettanti, come i nostri filodrammatici; e recitavano solo di
quando in quando, in certe ricorrenze festive o religiose. Invece col
Rinascimento si costituirono le compagnie regolari, composte di gente
che faceva l'attore di professione, il comico di mestiere o d’arte. E
costoro cominciavano ad addestrarsi fin dall'infanzia.
Inoltre c'erano le maschere, ed erano quanto
si può pensare di più lontano da ogni improvvisazione. È noto che
nella «Commedia dell'Arte» i personaggi erano
quasi sempre gli stessi, tipi fissi o convenzionali, che ricomparivano di opera
in opera con lo stesso nome, lo stesso abito, la stessa truccatura, lo stesso
linguaggio; e fra questi tipi alcuni portavano una maschera che copriva il
volto, tutto o in parte, e rendeva ancor più fissa la fisionomia. Cosi ogni
attore finiva con l'essere lo specialista di una parte sola per tutta la
sua carriera, o tutt'al più di due o tre parti, a seconda dell'età.
Del resto, anche gli attori moderni sono ben lontani
dall'improvvisare quanto vorrebbero far credere. Gli attori sono in genere
abbastanza vanitosi. Forse gli applausi danno loro alla testa come un buon
vino. Una delle loro vanità è quella di farsi credere geniali, rapidissimi nel
capire o interpretare un personaggio. Ma ciò è vero solo in certi casi e
fino a un certo punto. Gli attori più rapidi non sono sempre i più bravi. Certo
non improvvisano gli attori grandi, gli artisti veri, almeno quando affrontano
personaggi di grande impegno; anzi elaborano un personaggio, una parte, per
mesi e mesi, talora per anni. È rimasto proverbiale il caso di Giovanni
Emanuel, un grande attore dell'Ottocento, che studiò per molti anni l'Edipo
Re di Sofocle e non lo rappresentò mai; si sentiva sempre imperfetto per
una creazione cosi grande. Insomma in teatro, come in ogni arte, l'improvvisazione
serve ben poco, è quasi sempre faciloneria, superficialità, grossolanità.
Diceva Alessandro Manzoni che genio è «pensarci su». L'affermazione non va
presa alla lettera. Per scrivere i Promessi Sposi ci vuole anzitutto
quel dono raro che si chiama ispirazione. Certo, però, anche il «pensarci su» è
elemento fondamentale; senza il «pensarci su», la ispirazione non rende ciò che
potrebbe. Cosi una pianta, quando è coltivata con cura, dà fiori più belli e
frutti più buoni.
Le maschere della Commedia dell'Arte e le loro attribuzioni.
Le maschere più famose erano le seguenti:
a) Arlecchino, e i suoi simili: tutto un
corteo di zanni o buffoni: Truffaldino, Scapino, Mezzettino,
Tabarrino, Frittellino, Pedrolino, Sganarello, Coviello, Tartaglia, Canassa, Fracanappa,
Zangurgolo, ecc. ecc. Erano servi ora sciocchi ora astuti, ora balordi ora
intriganti, ora fannulloni ora faccendieri. Arlecchino era goffo e
scansafatiche, goloso, mangione e sporcaccione. Portava una maschera nera,
tonda e camusa, e un abito intarsiato di mille colori. Aveva sempre con sé una
spatola e somministrava botte sonanti sulla testa o su altre parti meno nobili
degli altri personaggi.
Arlecchino era bergamasco e cosi pure Brighella: «Mi
son Brighella, Gavicc e Gambòn — da le vallae de Bergamo — sensal de matrimoni
e giügadór de balon». Cosi diceva Brighella, in una specie di presentazione.
Era talvolta servo intrigante (Brighella viene da briga, imbroglio), talaltra
servo affezionato e fedele. Portava un abito bianco orlato di verde.
Una specie di Arlecchino napoletano era Pulcinella,
gobbo, tutto vestito di bianco, con maschera nera e naso adunco. Di
carattere somigliava un poco ad Arlecchino; ma era molto più intelligente,
ragionatore; era filosofo bonario, accomodante, rassegnato alla miseria e alle
beffe; e infine, da buon napoletano, gran cantore.
b) Pantalone de' Bisognosi, vecchio signore o
vecchio mercante, talora onesto, accorto e bonario, talaltra taccagno,
rimbambito e vizioso. Portava un abito scarlatto con cappa e tòcco neri, e sul
volto una maschera nera col naso adunco e con la barba a pizzo volto all'insù.
e) Il Dottor Balanzon o Dottor Graziano: medico
ignorante e tronfio, saccente e spropositone. Veniva da Bologna, sede di una
famosa università, e parlava mescolando italiano, bolognese e latino. Vestiva
come i medici del Seicento: gran cappa nera con lattuga bianca intorno al collo
e gran cappellone.
d) Il Capitan Fracassa o Capitan
Spaccamonti, Capitan Matamòros (ammazza-mori), Capitan Spavento di
Vallinferno. Era spagnolo. La Spagna era la patria ideale degli hidalgos,
nobili spiantati e affamati, capitani di ventura pieni di boria,
spacciatori di frottole gigantesche e di gesta strepitose. Fracassa vestiva
pomposamente da gentiluomo del Seicento, con gran cappellone piumato, e portava
un'enorme durlindana. Era magro e allampanato come la morte; aveva voce tonante
e cavernosa da «orco mangiaputtini».
e) Colombina oppure Corallina, Smeraldina,
Argentina, Olivetta, Pasquetta ecc. Era la servetta tutta pepe e brio, civetta
e spiritosa, corteggiata da servi e padroni, e capace di gabbarli tutti in una
volta.
f ) Rosaura e Florindo erano gli
innamorati sentimentali e sospirosi. Si chiamavano però anche Isabella,
Ardelia, Angelica, Angela, Flamminia, oppure Lelio, Ottavio, Fabrizio. Le
madri, le mogli, le sorelle, le cognate si chiamavano spesso Beatrice, Clarice,
Leonora.
Molte maschere avevano una patria, quasi
simboleggiavano una città o una regione. La maggior parte, però, era veneziana.
Venezia era la città ideale del teatro e delle feste, del carnevale e delle
baldorie, del buonumore e della gioia di vivere ovverossia del morbín. I «Comici dell'Arte» dovevano assicurare in
contratto, quando venivano scritturati, di saper parlare correntemente il dialetto
veneziano.
Quando Goldoni attuerà la sua famosa riforma del
teatro, le maschere tramonteranno a poco a poco. Riappaiono ancora oggi, ogni
tanto, quando si rappresentano talune commedie di Goldoni o Gozzi, di Molière o
Marivaux. Eccezione illustre sarà Pulcinella: a Napoli egli resisterà fin quasi
ai nostri giorni e verrà via via impersonato da interpreti abilissimi, divenuti
poi famosi.
Le maschere hanno lasciato una loro eredità, i
cosiddetti ruoli, cioè tipi diversi e fondamentali di attori e attrici
cui si assegnano parti di un genere determinato: il Primo Attore e la Prima
Donna, l'Amoroso e l'Amorosa, l'Ingenua, la Servetta, il Brillante, il Mamo
(una specie di brillante giovane, un po’ sciocco), il Padre nobile e la Madre
nobile, il Caratterista, il Generico, la Seconda Donna, la coquette, per
parti di civetta, di mondana, di donna bella e vanitosa. Gli attori che sanno
sostenere più ruoli si chiamano Promiscui. In quasi tutti questi ruoli è
possibile riconoscere la maschera originaria che ad essi corrisponde.
Una
illustrazione tratta da un albo di Mandrake dei primi anni '70, edito a Roma
dai Fratelli Spada.
Libro
xx - il LIBRO
DELLE CURIOSITÀ - Pagg. 4531 - 4532
Che cos'è il carnevale?
Carnevale vuol dire carnem levare, questa
espressione si riferisce al giorno che precede le Ceneri, cioè al primo dì di
quaresima: nei primi tempi dell'era cristiana, in questo giorno si sarebbe
dovuto prepararsi ad un regime più parco e severo cominciando col privarsi
della carne; ci si privava della carne, infatti, ma per abbandonarsi (quasi
allo scopo di rifarsi in anticipo del prossimo periodo di penitenza) a sollazzi
e gozzoviglie. Cosi si spiega la contraddizione apparente fra il significato
vero della parola carnevale e quello ch'essa ha invece oggi nell'uso comune. In
pratica il carnevale corrisponde press'a poco (che la sua durata varia da
regione a regione) a quella settimana che precede la
quaresima: teoricamente, tuttavia, esso dovrebbe cominciare subito dopo il
Natale e, per essere esatti, la sera di San Silvestro. Non per nulla in questo
giorno si inauguravano le stagioni d'opera dei grandi teatri.
Il carnevale assurse, nei secoli passati, al massimo
splendore in parecchi luoghi; specialmente a Venezia, a Firenze, a Torino, a
Ivrea, a Nizza. In Firenze — col favore dei Medici, signori della città — i
festeggiamenti si svolsero in forma grandiosa, con mascherate su carri allegorici
(i « trionfi ») accompagnate dai canti detti appunto «carnascialeschi». Uno di
questi canti è il famoso elogio di Bacco e di Arianna composto da Lorenzo de'
Medici stesso (detto il Magnifico). Il carnevale deriva, secondo alcuni
studiosi, da antiche feste latine in cui, dopo un certo periodo di dissipatezze
e di piaceri, veniva messo a morte un fantoccio travestito da re (ciò che ancor
oggi si fa in alcune città, specialmente in quel giorno di metà quaresima che è
detto per lo più carnevalino e che è come un ritorno di fiamma
dell'autentico carnevale). Questo rito burlesco sta
forse a significare la morte dell'inverno: di qui il tripudio di tutti e
l'attesa della primavera, della sua gioia, dei suoi frutti. Il carnevale avrebbe
dunque un'origine agricola, contadina.
Probabilmente esso significa anche un'altra
cosa: la libertà da ogni norma, da ogni legge, da ogni
autorità: almeno per pochi giorni, ciascuno
faccia a suo genio ciò che vuole e si comporti a dispetto d'ogni
controllo! In questo caso il carnevale sarebbe una prefigurazione
caricaturale di quel mondo in cui ciascuno potrebbe fare ciò che vorrebbe (se
questo mondo fosse possibile!).
Ecco perché in Calabria v'è l'uso di portare in giro,
sulla groppa di un asino, chiunque nel giorno di carnevale venga sorpreso al
lavoro.
Un
bell'abito carnevalesco.
In molte città oggi si costuma, a modificazione
dell'antico uso del re del carnevale, proclamare le reginette del
carnevale. L'uso è nato in Francia ma ha avuto subito successo anche da
noi: cosi, invece di grossi bamboloni fatti di paglia e coperti di stracci,
sono state scelte graziose bambole in carne ed ossa, abbigliate come autentiche
regine.
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una
splendida illustrazione dell'illustratore Guido Zamperoni, tratta dal cap. 10
del Libro del Teatro.
La «Commedia dell'Arte» è certo una delle
manifestazioni più fulgide del teatro italiano. Essa nacque nel sec. XV, come reazione al teatro grave e solenne degli
umanisti, di quei letterati, cioè, che traevano l'ispirazione per le loro commedie
dagli autori classici, greci e latini, si che il loro teatro era fatto più per
le persone colte che per la grande massa del popolo. La «Commedia dell'Arte»
trionfò non solo in Italia, ma in tutta l'Europa; e le cosiddette «maschere»,
cioè le figurazioni tipiche dei personaggi principali che agivano in queste
commedie, divennero presto di fama universale. In questa tavola abbiamo
rappresentato le maschere più popolari e più celebri del nostro teatro
dell'Arte; esse indossano i loro abiti tradizionali, come appaiono ancor oggi
nei cortei carnevaleschi e, qualche volta, anche sui palcoscenici. Molte di
queste maschere le riconoscerete a prima vista come quelle di Arlecchino, con
l'abito tutto a toppe, di Pantalone veneziano, di Pulcinella napoletano; altre
vi riusciranno meno note, perché facenti piuttosto parte di tradizioni
regionali. Eccovene, in ogni modo, l'elenco: 1. Giangúrgolo -(Calabria); 2.
Florindo; 3. Gioppino (Bergamo); 4. Rosàura; 5. Sandrone (Modena); 6. Fagiolino
(Reggio Emilia); 7. Scaramuccia (Napoli) ; 8. Brighella (Venezia); 9. Isabella;
10. Tartaglia; 11. Stenterello (Firenze); 12. Rugantino (Roma); 13. Pulcinella
(Napoli); 14. Meneghino (Milano); 15. Dottor Balanzone (Bologna); 16.
Capitan Spaventa (Genova); 17. Arlecchino; 18. Colombina;
19. Pantalone (Venezia); 20. Gianduia (Torino); 21. Mezzettino.
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Una
Maschera moderna degli anni '60
Negli
anni '60 apparve su MammaRai, una nuova maschera che allietò l'infanzia dei
bambini di quegli anni. Si trattava di Gaetano Pappagone. Come è scritto nel
frontespizio dei suoi fumetti illustrati dal Maestro Luciano Bernasconi,
"Il suo nome, come tutte le altre maschere, ha origini antiche che oggi
possono risultare quasi imprecisabili, comunque, la fonte alla quale Peppino ha
inteso ispirarsi è il nome che si dà ad una qualità di prugne di poco costo
chiamate, secondo l'usanza popolare napoletana: «Pappacone». Gaetano Pappagone
è ignorante, pavido, pieno, più che di sentimenti, d'istinti primitivi, ma
onesti. Malizioso e, messo a contrasto con la realtà della vita di tutti i
giorni, diviene a volte, per forza di cose, anche furbo. Una maschera del costume
dei giorni d'oggi che, con la interpretazione che ne ha dato Peppino De
Filippo, ha trovato la sua espressione più giusta e simpaticamente
popolare."
Una maschera tanto popolare [come quella del pagliaccio Scaramacai
interpretato da Pinuccia Nava 1920-2006], che però è scomparsa con la dipartita del
popolarissimo Peppino De Filippo. Ma negli anni '50, sempre per restare in tema
di fumetti, non possiamo dimenticarci delle Maschere che facevano sognare i
piccoli lettori del Pioniere, insieme a Chiodino e a Cipollino.
Marco
Pugacioff
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