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martedì 15 agosto 2023

Le tradizioni sui paladini carolingi con La grotta di Orlando di Gallieno Ferri

 

Le  tradizioni  sui  paladini carolingi

con La grotta di Orlando di G. Ferri

Prefazione

   Lo scritto precedente era a quattro mani… ma ora ho voluto rivedere il tutto, escludendo le parti dell’altro autore.

   Non è semplice cattiveria. All’inizio volevo scrivere una cosa semplice, senza troppe pretese, ma spinto dall’altro autore, andammo a far ricerche in biblioteca, (cosa che avevo iniziato già a fare per il professor Carnevale).

D’accordo, le ricerche si fanno così, ma solo se hai lo stesso punto di vista e così non era.

    Personalmente credo a ciò che scrivo, perciò ho dovuto tagliar via quelle parti troppo tecniche e pesanti, per rendere lo scritto armonioso e coerente con chi (il sottoscritto) crede realmente a ciò che redige.

 

«Non sarà assurdo, credo, se poniamo in iscrittura  

ciò che vola per le bocche di tutti»

Guglielmo di Malmesbury[*]

 

 

[*] Citazione dal capitolo “La leggenda di un pontefice” di  GRAF 1893, p. 16 (Gerberto di Aurillac, ? - 1003, ovvero  papa Silvestro II, 999-1003.

 




 

 

Cap.  1  -  Memorie

 

   Mia nonna era di Urbisaglia. Mia nonna paterna. Io non l’ho mai conosciuta, ma le tradizioni orali del suo paese le passò a mio padre.

   Più di trent’anni fa, io avrò avuto sui quindici anni, in una sera d’estate mio padre mi disse qualcosa che mi lasciò stupito.

Eravamo a Urbisaglia, in visita a dei nostri parenti e di sera in mezzo alla terra da loro coltivata sentivo fresco; mio babbo diede la colpa al fiume Chienti (il Fiastra, che poi sgorga appunto nel Chienti) che chiamò… “Tevere”.

Gli chiesi spiegazioni e mi disse semplicemente; e che i romani non volevano fondare Roma a Roma, ma a Urbisaglia, lasciandomi scandalizzato. Ho sempre  amato le storie sull’antica Roma, in particolare su  Giulio Cesare e non esisteva altra Roma, per me, ma…

   Leggendo poi il libro di Ginobili del 1963, a p. 133, si viene a sapere che la stessa cosa si dice per Petriolo e il perché me lo disse il professor Giovanni Carnevale mi riferì che «Roma» non indicava solamente la città, ma un intero territorio, in cui doveva essere compreso anche questo paese.

Si spiegherebbe, quindi, il detto di Pollenza in latino maccheronico: «Roma capu de mundi / Mondemiló secundi» (Sempre Ginobili. 1961, p. 133).

   Il toponimo «Mondemiló», ovvero ‘Monte Milone’, l’odierna Pollenza, deriverebbe da Milone capitano dei Franchi (vedi Crocioni del 1951 a p. 181); come si possa pensare al Milone letterario, padre del Guerrin Meschino è per me ancora un mistero!

Come narrano i cantastorie, Milone ebbe una storia d’amore con Berta, figlia di Carlo Magno, il quale però non permetteva alle proprie figlie di sposarsi, tanto che i due dovettero fuggire… frutto del loro amore fu Orlando.

 



Su Montemilone ho trovato queste righe da Dizionario corografico dell'Italia - Volume 6 - Pagina 360, Amato Amati del 1875…

«Alcuni storici, fra i quali il Muratori, sono d’avviso che l’attuale borgata fosse incominciata a fabbricare colle ruine della vecchia Pollenza da un certo Milone, gallo di nazione, e che avesse il nome di Monte Milone. In poco tempo deve essere addivenuta considerevole città, essendo i suoi dintorni seminati di murati antichissimi; nulla però si conosce di positivo, perchè un incendio avvenuto nell’archivio comunale, prima del 1400, distrusse tutti i documenti antichi. Nei tempi di mezzo sostenne aspre e lunghe lotte cogli abitanti di Tolentino e con quelli di Treia (la vecchia Monturbio). I dintorni sono celebri per la vittoria riportata nell'anno 403 da Stilicone sopra i Goti, per la quale Alarico e Radagasio furono costretti ad abbandonare l’Italia. Nell’anno 1815 nei giorni 1, 2 e 3 maggio, il Bianchi, comandante le forze austriache, sconfisse l’esercito napoletano comandato da Gioachino Murat, prima ad Osimo e poi a Pollenza, ove tentava di riannodarsi col resto dell’esercito. Da qui Murat volse in ritirata per la via di Civitanova.»

 

   Allora adesso andiamo a Sutri…

grazie a Maurizio, un amico di Campagnano vicino Roma ho saputo che esisterebbe il castello di Carlo Magno…

 

 

«Tra leggenda e realtà s’innalza il castello di Carlo Magno. La tradizione locale vuole che questo luogo assuma il suo nome dal presunto soggiorno di Carlo Magno in terra di Sutri, nel corso del viaggio che lo conduceva a Roma per essere incoronato imperatore. La struttura architettonica dell’edificio, in realtà, racconta di come esso risalga al XIV secolo, tanto che nel 1367, in un inventario di beni dell’Ospedale del Santo Spirito in Sassia, viene riportata la presenza sul Mons Sancti Iohanis (Colle San Giovanni e,  successivamente, Colle Savorelli) di un Platium comitis Anguillarie, identificabile con una delle strutture facenti parte del castrum della famiglia Anguillara. Attualmente l’edificio è di proprietà della famiglia Staderini.»

vedi il sito https://www.sutriturismo.it/castello

 


«La leggenda narra che Carlo Magno ripudiò la sorella Berta perché contrario alla relazione di quest’ultima con il guerriero Milone da cui aspettava un figlio. Cacciata dal fratello, Berta pose fine al suo lungo peregrinare dentro una grotta vicino Sutri, dove diede alla luce Orlando. Diversi aneddoti si intrecciano alla leggenda che lega Orlando a Sutri. Sembra che, ancora in fasce, il piccolo Orlando sfuggì alle mani di Berta rotolando sull’erba. La madre, alla vista di quel balzo, esclamò “Oh le petit Roland!”. Da allora quel luogo è chiamato Valle Rotoli. Gli anni del giovane Orlando trascorsero sereni a Sutri dove si distinse ben presto come condottiero abile.
Nel suo viaggio verso Roma, dove lo attendevano per l’incoronazione, Carlo Magno fece sosta a Sutri. Qui, Orlando ne approfittò per introdursi al banchetto del Re travestendosi da servitore e riuscendo a sottrarre al sovrano la coppa da cui aveva da poco bevuto. Carlo sfidò il giovane a ripetere il gesto. Orlando riuscì a trafugare nuovamente la coppa regale. Informato sull’identità del giovane dai suoi fedelissimi, il Re decise di ricongiungersi alla famiglia, accogliendo al suo seguito Orlando e facendone il valoroso cavaliere che tutti conoscono.»

vedi https://experiencelazio.com/2021/03/18/sutri-e-la-leggenda-di-orlando/

 




«LA TRADIZIONE Una leggenda narra che Carlo Magno, in visita alla corte papale durante i festeggiamenti per la sua incoronazione, per il troppo mangiare venne colpito da un forte attacco di gotta e, trovandosi nei pressi di Sutri, venne curato con i fagioli locali che lo guarirono. Fu così, si racconta, che l'imperatore divenne uno dei primi estimatori di questi salutari legumi. La storia della coltivazione di questi ottimi fagioli laziali comincia, invece, in base alle testimonianze degli agricoltori locali, nel XVIII secolo, quando le colture di canapa ormai abbandonate vennero progressivamente sostituite con quelle di legumi che, con il passare del tempo, acquisirono sempre maggiore rilevanza per l'economia locale, specialmente grazie al successo che riscuotevano presso i mercati di Roma e Civitavecchia. Nel dopoguerra la loro importanza era divenuta tale che i produttori fondarono un'unica grande Cooperativa, che prese il nome "La Regina" che si occupava dell'intera produzione e della commercializzazione.

[…]
LA DENOMINAZIONE Chiamato anche "La Regina", dal nome della cultivar, il Fagiolo di Sutri, grazie alla qualità che i territori di produzione gli conferiscono e alla forte connotazione tradizionale acquisita dalla sua coltivazione, ha meritato l'inserimento nell'elenco dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali (PAT).»

vedi  https://www.turismo.it/gusto/articolo/art/sutri-i-fagioli-di-carlo-magno-id-7672/


   

 

e per di più, c’è pure la…

Casetta Di Carlo Magno si trova a Sutri. 49 km da Tarquinia.

Via Paladino Orlando, 18, 01015 Sutri VT

 La Casetta Di Carlo Magno dista 29 km da Viterbo e 23 km da Bracciano. 71 km dall’Aeroporto di Roma-Ciampino, lo scalo più vicino.

 

 



 

   Nel libro Storia dell’antichissima citta di Sutri, colla Descrizione de' suoi monumenti, di Ciro Nispi-Landi, Roma 1887, trovo al capitolo V, che «Per essi Orlando nasce sempre in Sutri da Berta e Milone e là Carlo Magno li scuopre e perdona. [Nota 1, pag 361: In un poema olandese del secolo XIII, Elgasto e Carlo Magno stampato nelle Horae belgicae da Hoffmann di Fallersleben, si trova una narrazione di fatti di Orlando tutta differente dalle altre; per es. il re Carlo fa anche da ladrone; Orlando peggio.]» 


 


 



La grotta di Orlando di Gallieno Ferri, ristampato su storie di Cucciolo anno III, n.10

e più avanti…

«A Firenze, a Siena dicono che Orlando le riedificasse; a Montalbano, fuor di Porta alla Croce a Firenze, vi è una iscrizione; a Fiesole dicono ei abitasse co' suoi prodi nelle buche delle fate e Malagigi vi imparò l'arte degli incanti, Orlando vi si rese invulnerabile; fiabe, strane e false quanto impossibili o contradette leggende. A Susa dicono spaccasse una pietra colla sua spada, la durlindana; a Roma c’è un bassorilievo di questa, indi — Via Spada d’Orlando; - Pavia serba una lancia, e la statua di lui e di Oliviero stanno sul duomo; a Spello un bassorilievo; a S. Stefano di Firenze l'impressione nella facciata della chiesa di un ferro del suo cavallo (!); e tanti altri ricordi or falsi or veri, in tanti luoghi e città come tante torri che si chiamin d’Orlando.

A Sutri sopra la estremità occidentale del monte dell’Anfiteatro dietro la chiesetta, si osservano avanzi di palazzo baronale del XIV o XV secolo, che portano nome di palazzo di Carlo Magno, perchè tale palazzo si alzò sugli avanzi di quello, ove il franco re forse dimorò. L cripta da cui s’intitola la Chiesa della Madonna della Grotta, si chiamava prima la grotta d’Orlando, sulla strada di Vetralla vi è un punto chiamato La quercia d’Orlando, altro detto il Sasso d’Orlando e si additano diuturnamente da tutti, e nella memoria di tutti durano e dureranno nella successione dei secoli, tal durarono, le due contigue grotte d’Orlando, ove questo nacque, fortuitamente. Ma il tempo soltanto e l’abbandono degli uomini, che per inerzia più curarono tramandare le memorie vocali che costituirsi custodi di monumenti, hanno fatto si che il greppo superiore lavinando, abbia obturato le famose grotte, già ricordate al I Libro, cap. 2; e non si vedono che appena, prendendo a destra della Cassia moderna, venendo da Roma, un viottolo stretto e non praticato al ricordato punto; però la macchia e gli sterpi sul rovinato masso quasi ne occultano la vista.

Ma finalmente una splendida, e prima non conosciuta prova che Orlando ebbe nascita in Sutri e vita vera e reale, trovasi nel fatto che il Comune della detta città di Sutri, onorandosene e per ragioni a noi sconosciute, incluse la rappresentazione della grotta ove nacque nello stemma comunale cittadino di fianco al cavalcante Saturno; che mai vuolsi di più?

Di ciò trovasi fondamento in una pergamena che si conserva nell’Archivio comunale sutrino contenente l’atto, rogito Nicolò del quondam Domenico Cerrini di Capranica di Sutri, dell’anno 1551 ai 20 di aprile; col quale componendosi une lite per confini fra il Comune di Sutri e Trevignano, è fra le altre disposta la collocazione di colonne terminali aventi verso Trevignano lo stemma e motto di Paolo Giordano Orsini, e verso Rocca Romana, proprietà di Sutri, lo stemma della Comunità o Università di Sutri. Ivi si descrive che i termini furono cinque; ognuno fu in marmo e aventi scolpito i detti stemmi; e per altrettante volte in detto atto di detta pergamena, si legge che lo stemma di Sutri era con Saturno equestre, o a cavallo, con tre spighe in mano in atto di mostrarle la grotta di Orlando “…versus Sutrino insigna Communitatis Civitatis Sutri cont. Saturnus equester cum spicis in manibus ferens et cum quarterio Orlandi (alcune volte vi si legge in manibus offerens et quarterius Orlandi). Quarterius e quarterium, i, in basso latino significa appunto tugurio militare, grotta con bracca (Du Change, Lexicon etc.). Il Comune di Sutri ne' tempi moderni, essendo lo stemma col solo Saturno più proprio e più antico, tralasciò la grotta; non si sa bensì per quali circostanze ciò avvenisse.»

   Lasciamo il Lazio e andiamo in Umbria, a Spello.

Qui troviamo «alcune torri, sporgenti dalla linea delle mura. Fra queste si distinguono per la loro imponenza le torri di Proprezio, realizzate in calcare rosa locale e di epoca medievale, che un’antica tradizione ha legato al nome del poeta latino. Affiancano una porta definita come Porta Venere, costruita in periodo romano e così chiamata per la vicinanza con un tempio dedicato all’antica Dea della bellezza.

 

 

Secondo tradizione una di queste torri ospitava una prigione dove venne rinchiuso il prode Orlando (o Rolando)»

Vedi  https://www.viaggiareinumbria.com/torri-di-properzio-a-spello-prigione-orlando/

 

   Cosa ho scovato su questa tradizione? Ecco i punti salienti…

 

Dal Giornale storico della letteratura italiana, Volumi 25-26, Torino-Roma 1895, pagg. 22,23, trovo che…

«E l’epopea francese era probabilmente portata nell'Italia di mezzo, seguendo specialmente le vie «Francesche» o « Romee », dai giullari che si univano alle moltitudini dei pellegrini, che venivano a Roma. Io non so se sia lecito asserire che le tradizioni dell’epopea carolingia concernenti l’Umbria, secondo le quali la chiesa di S. Angelo a Perugia era chiamata il Padiglione di Orlando, e presso Costacciaro s'indicavano cinque colpi della spada d’Orlando, e a Spello si aveva memoria della prigione d’Orlando e di qualche cosina d’altro [nota 3: MIGNINI, Tradizioni dell’epopea carolingia nell’Umbria, Perugia, Tip. Umbra, e D’ANCONA, Tradizioni carolingie in Italia , in Atti della R. Accad. dei Lincei, 17 marzo 1889, pp. 420-27.], risalgano sino ai tempi di S. Francesco; e neppure so se ai tempi di S. Francesco si possa far risalire la leggenda araldica che spiega in qual modo « el chomuno de peroscia ave « l’arme del grifone che era arme de orleviere » [nota 4: God. vat. 4834, f. 96 v.] e « lo chomuno de Chorciano porta per arme el quartiere » di Orlando [nota 5: Vedi il passo del cod. vatic. riportato dal MONACI nel suo studio: Una leggenda araldica e l’epopea carolingia nell'Umbria, in Antologia della critica lett. mod. del Morandi, ediz. 1a, p. 107.]; la qual leggenda fa parte di una serie di « conti» inseriti in un manoscritto miscellaneo del secolo XIV o del principio del XV [nota 6: Vedi la descrizione di questo singolare manoscritto vaticano fatta dal MONACI, 1. c., 105.]: ma se nell’onomastica dell’Umbria i nomi degli eroi carolingi erano abbastanza comuni prima di S. Francesco [nota 1: Per esempio, nei documenti pubblicati dal Fatteschi nelle citate Memorie istorico-diplomatiche trovo il nome di Rolandus in un atto del 1009 e poi in uno del 1045 e in un altro del 1115.], e se il Santo stesso chiamava i suoi compagni milites tabulae rotundae, si può conchiudere, che già a quei tempi erano popolari anche nell’Umbria le leggende carolingie e brettoni. Nè ciò potè avvenire se non per opera dei giullari francesi; sicchè si deve ammettere che l’arte giullaresca fosse allora assai in voga anche nell’Umbria. Si conceda pure che S. Francesco e i suoi primi seguaci amassero di singolarizzarsi e nel parlare e nell’operare; tuttavia se egli cantava in francese a guisa di giullare e se a' suoi compagni comandava di essere i giullari di Dio, si deve necessariamente inferire che allora nell’Umbria s’intendeva il francese e che i giullari vi erano assai noti.»


Ludovico Cingoli – San Francesco (1597 – ‘99) all’Ermitage

    Ma sul poverello di Assisi, che fu anche egli uomo d’ami e che arrivò perfino in Sicilia, riferisce infatti David Abufalia (ma che nome…) nel suo Federico II, Un imperatore medievale, Einaudi del ’93, a pag. 79…

«Nell’ottobre 1199 Marcovaldo scovò Grasso, che era di casa a Genova, e lo convinse a fornirgli un certo numero di navi per uno sbarco armato in Sicilia. Obiettivo: la conquista della capitale, unico mezzo attraverso ilquale Marcovaldo poteva sperare di imporsi. Alcuni subodorarono un tentativo di appropriarsi della Corona.» e poi a pag. 81…

«A questa «crociata» partecipò un giovane cavaliere, figlio di un mercante di Assisi; suo padre, ricco mercante di stoffe con interessi in Francia, gli aveva mutato il nome originario di battesimo in Francesco ed egli, come Francesco d’Assisi, tornato a casa, avrebbe rinunciato all’esistenza d’armi e di lucro cui era stato destinato.»

 E’ interessante notare sempre Abulafia, a pag. 8, scrive…

«Imposte ridotte sulla prima risorsa del regno, un prodotto richiesto da un capo all’altro del Mediterraneo: il grano. Nel XII e XIII secolo si verificò infatti in tutta Europa e in buona parte del bacino mediterraneo una vera e propria esplosione demografica, con conseguente espansione della domanda di derrate alimentari. Tanto di guadagnato se quelle derrate coincidevano con il grano versatile e conservabile cresciuto in Sicilia. Grano che divenne l’ingrediente essenziale della galletta ad uso dei marinai; (sottolineatura mia!) forniva la materia prima per la pasta, che cominciava a far la sua comparsa sulle tavole dell’Italia settentrionale; era utilizzabile per il cuscus nordafricano (il cuscusu viene consumato anche in Sicilia, soprattutto a Trapani in associazione al pesce); aveva conquistato contrade lontane quali l’Egitto, nelle annate di mancata inondazione del Nilo, e il regno latino di Gerusalemme. Chiunque controllasse la produzione poteva ricavare grandi profitti dalle vendite e relative gabelle. Nel XII secolo Federico II lavorò duramente per migliorare gli standard di rendimento.»

   Ma scusate, gli spaghetti non li aveva portati (sembra nel 1295…) Marco Polo al suo ritorno dalla Cina? A parte che dopo (minimo) tre anni di viaggio saranno stati un po’ stantii, però…

Vabbé, diciamo che nell’Italia de allora c’erano… le fettucine (slurp!)

Evvabbé, lascio le ricerche su sor Francesco a chi gli interessa.

E ora leggiamo una parte di questo gustoso Tradizioni dell’epopea carolingia nell’Umbria a pag. 424 degli Atti, si legge…

«Intanto nel 1885 il sig. Girolamo Mignini, alunno della scuola normale di Pisa, mandò fuori un curioso manipolo di Tradizioni della Epopea carolingia nell’Umbria (Perugia, Tipogr. Umbra). Una di esse racconta, seguitando la materia di quella su Cornaletto, come Orlando giungesse a Perugia e vi liberasse Oliviero. Egli pose il suo padiglione dov’è ora la chiesa di S. Angelo, “perchè Orlando riferì che l’Angelo l'aveva menato a Perugia”, a liberare una bella donna innominata e con essa Olivieri, dalle branche d’un crudele pagano. Trasse il Mignini questa narrazione da un codice del sec. XVIII, già dei Carmelitani scalzi, ora della Comunale di Perugia: ma in forma quasi simile venne poi pubblicata dal nostro socio Ariodante Fabretti nel secondo vol. delle Cronache della città di Perugia ( Torino, 1888, p. 116) ove fa parte delle Memorie storiche dall’anno 1454 al 1540 attribuite a Villano Villani. Ma qui il racconto è compiuto tanto nel cominciamento, il quale ricorda come nel 1495 «a dì 6 Decembre s’alamd la prigione d’Orliviere paladino lì a la porta della Penna, e nota come si chiama la prigione d’Orliviere», quanto nella fine che dice così : «Et di lì a molti anni (dal fatto narrato) quelle case furono donate dal canto di dietro, dove stava la detta prigione, che ora si è alamata, alla casa della Penna, e dall’altro canto alla casa delli Armanni, per premio e remuneratione che queste case havevano renduto grand’honore a questa città: et questa liberalità li fu fatta dalli Baglioni, massime perchè le dette due case erano state in ajutorio dei fiorentini nel pigliar di Pisa e della Vehicula (Verrucola ?)» E mi fermo qui, perché...

Quando ci si mette il caso... ma è proprio un caso curioso, eh! Infatti Porta Venere a Spello in Umbria dove fu prigioniero... Orlando il paladino... «l’impronta commemorativa del monumento è evidenziata dalla cronaca delle processioni che vi transitavano in direzione di Assisi e Perugia, come, in epoca medievale, dei cortei dei consoli di Spello diretti alla sagra annuale della vicina chiesetta di San Claudio.»

 



Pure una chiesetta dedicata a San Claudio, a Spello ci doveva essere…

Vedi https://it.wikipedia.org/wiki/Porta_Venere_(Spello)



   Ma la San Claudio di Corridonia (l’antica Mont’Olmo), sita sotto la collina di Macerata Granne (da Apollo-Grannno), ha una particolarità, le sue due torri attaccate alla struttura della chiesa e qualcuno scrisse (mi pare il professor Mancini) che uno schema simile ha una componente imperiale.

   Da dove viene uno schema simile? Ma dalla Porta palatina di Torino. Scrivono sulla famigerata Wiki…

 

«La Porta Palatina, impropriamente ma comunemente nota col nome plurale di Porte Palatine (Pòrta Palatin-a o Tor Roman-e in piemontese), è l'antica Porta Principalis Sinistra che consentiva l'accesso da settentrione alla Iulia Augusta Taurinorum, ovvero la civitas romana oggi nota come Torino.

[...]

Etimologia

Già nota come Porta Doranea a causa della presenza poco lontana della Dora Riparia nell'XI secolo, il nome Porta Palatina è da considerarsi sicuramente successivo all'epoca romana e deriva dal latino Porta Palatii. L’origine di tale termine può essere riconducibile a diverse ipotesi. La prima e più attendibile di queste, suggerisce che sia da attribuire alla contiguità del Palatium,(vedi nota 3) ovvero l’edificio destinato ad ospitare i sovrani Longobardi. Una seconda ipotesi potrebbe ricondurre alla contigua presenza di un presunto anfiteatro edificato nei pressi dell’attuale Borgo Dora.(vedi nota 4) La rapida caduta in rovina dell’ipotetica struttura circense, potrebbe averle valso l’attribuzione del nome Palatium.

    vediamo un po’ le note…

- nota 3 -Il Palatium, potrebbe essere l'attuale Palazzo Civico o forse fu la Casa del Senato, posta a pochissima distanza dalla Porta Palatina. A esso si attribuiscono i controversi soggiorni di Carlo Magno nel 773, di Carlo il Calvo, di Lotario nel 947 e addirittura di Federico Barbarossa. Tuttavia, non si hanno documentazioni che confermino con certezza tali avvenimenti.

 - nota 4 – L’ipotesi sulla presenza di tale anfiteatro è suggerita dalla particolare conformazione della vicina via Borgo Dora che, con il suo andamento coscrivente un’ellisse, potrebbe essere la testimonianza residua della struttura circense, popolarmente nota come circus.»  

da: https://it.wikipedia.org/wiki/Porta_Palatina

 



JULIA AUGUSTA TAURINORUM - TORINO

vedi: https://www.romanoimpero.com/2013/02/julia-augusta-taurinorum-torino-piemo

 

Il che mi fu rinfacciato che è così anche con le tre torri di Ravenna, solo che…

 



la torre abbinanta al’edificio è staccata da esso e la terza, è appunto solo una e inglobata in una struttura quadrata…

 

 

scriveva G. Rossi nel 1896….

«[…] le torri formano ancor più specialmente un tutto colla chiesa, sicchè i templi di San Vitale e di S. Claudio hanno meglio fra loro attinenza non solo di somiglianza, ma di ordine e di sistema; sistema che poi troviamo nel medio evo applicato alle superbe cattedrali e ai castelli. S. Claudio è fronteggiato dalle torri come a baluardo, S. Vitale n'è difeso e recinto.»

 

 

Il problema è che l’attuale San Claudio mi ricorda troppo la porta Palatina e… la prima volta che vidi San Claudio, una trentina di anni fa questa struttura mi lasciò sconcertato. Non solo per le due torri, ma per l’anomala conformazione del suo tetto: E’ troppo sballato!

    Furono proprio i maceratesi a distruggerla nel 1300 (appena nati, già carogne… e dovevo pure nascere qui!) Peccato che Camerino e Fermo non trovarono i soldi per distruggerla facere et movere guerram contra commune Maceratae mi sembra nel 1320, come scrisse Gabriele Nepi sull’Appennino Camerte... purtroppo non so precisare in quale numero.

   Allora com’è che Palazzo Madama a Torino, riprenderà, certo la sua porta palatina, ma perché mi ricorda tanto (ho detto ricorda non che assomiglia!) San Claudio, nella sua copertura? Bà, fantasie…

 



 

  C’è una chiesa poi, in Serbia (anzi nel Montenegro) usata come scenario della bella pellicola “Il segreto dei soldati d’argilla”; si tratta della Cattedrale cattolica di San Trifone, a Kotor detta anche la città dei gatti.

La chiesa a due torri quadrate con un balcone in mezzo… anch’essa mi ricorda sempre San Claudio, San Trifone nella sua forma attuale, fu costruita nel 1166 sul luogo della precedente e ricostruita definitivamente dopo  il catastrofico terremoto del 1667.

«La cattedrale fu costruita nell'809, e fu in quel periodo che il famoso cittadino di Cattaro Andrea Saracenis (che finanziò la costruzione) acquistò le reliquie (o reliquie) di San Trifone dai mercanti veneziani. Era una chiesa con una fondazione centrale: un martyrium. Il famoso imperatore bizantino Costantino VII Porfirogenito lo cita nella sua opera Dé Administrando Imperio ("Sulla gestione dell'Impero"). Fino agli scavi archeologici del 1987 si pensava che la chiesa fosse rotonda. Ci si rese conto che questa vecchia chiesa era in realtà a volta, non rotonda. È possibile che l'errore fosse dovuto a un errore nella traduzione dell’opera dell'imperatore.

 



Rudolf von Alt – Der Domplatz von Cattaro – 1841

La cattedrale fu costruita come una basilica a tre navate, con tre navate e mezza (lo spazio nella chiesa delimitato da pilastri sopra i quali è una volta) e una cupola sopra la navata centrale della navata principale della chiesa. Ciascuna delle navate ha un'abside.»

Ma guarda, le decorazioni mi ricordano quelle di San Claudio e di Rambona.

 



Queste informazioni le ho prese non certo dalla wiki italiana, ovvio ma dalla…

https://sr.wikipedia.org/wiki/%D0%9A%D0%B0%D1%82%D0%B5%D0%B4%D1%80%D0%B0%D0%BB%D0%B0_%D0%A1%D0%B2%D0%B5%D1%82%D0%BE%D0%B3_%D0%A2%D1%80%D0%B8%D0%BF%D1%83%D0%BD%D0%B0

 

Spero che il collegamento funzioni, sennò dite che mi sono inventato tutto, nella mia mente malata.

 

   anzi per sottolineare che semplici decorazioni, per me carolingie, vi faccio vedere:



   San Pietro a Teglio , in una foto fornitami da Claudio E Piera; vedete le semplici decorazioni all’abside?

«La chiesa fu edificata sulle fondamenta di una preesistente chiesa precristiana del V-VI secolo. La chiesa fu edificata dalle maestranze comacine nel secondo quarto dell’XI secolo.»

Notizie tratte dalla scheda dei beni culturali della Lombardia: https://www.lombardiabeniculturali.it/architetture/schede-complete/1n140-00029/

 

   E ora Santa Croce a Bergamo Alta


   Secondo il cartello posto di fronte alla cappella, essa fu…«Posta nelle pertinenze dell’antico palazzo vescovile, questa Cappella in stile romanico a pianta centrale quadrilobata, risale al sec. XI. Documentata per la prima volta nel 1133, è indicata come cappella del vescovo nel 1169. Rimaneggiata nel secolo XVI, […]»

 

   che dire, qua il ItaGlia, sembra che tutto può solo risalire – magari, al quinto o sesto secolo – al X, oppure XI secolo…

    Eehhh! Mancano i documenti, le prove scientifiche, eppure… un piccolo esempio dal limite occidentale del massiccio delle Corbières. Guardate le decorazioni della parte inferiore dell’abside…



    Porca Mis…! Questa è l’abbazia di Saint-Polycarpe. La data di fondazione – da un pezzo di pergamena (considerato sospetto) è il 30 agosto 834!

   Vedi: https://marcopugacioff.blogspot.com/2023/05/lespansione-carolingia-sui-pirenei-jean.html

 



Con il professore alla abbazia di Fiastra in tempi più felici e più pieni (specie di penne all’arrabbiata), quando si credeva di fare qualcosa di utile a tutti… e invece, Bah! Ormai è andata così...

 

 Va bene, tutte fantasie di una mente malata, ma tutto questo, per dire cosa mi colpì quando uno studioso locale nato nel molisano, il professor Giovanni Carnevale, scrisse un articolo sulla rivista della provincia di Macerata, formulando una sorprendente ipotesi su Carlo Magno in Val di Chienti.

 


La rivista, naturalmente, la portò in casa mio padre. Il titolo mi fece letteralmente ridere, ma non per questo non lessi l’articolo. Alla fine il Professore (così a volte chiamerò, d’ora innanzi, il prof. Carnevale) mi aveva completamente conquistato. 

Del resto, perché non doveva aver ragione? Nella storia della nostra regione, esiste un buco nero che va da quando Camerino aiutò le legioni di Caio Mario, marito della zia di Giulio Cesare, fino alla tragica battaglia di re Gioacchino avvenuta tra Macerata e Tolentino tre mesi prima di Waterloo, contro gli sciacalli austriaci. Con un’unica reale eccezione: la nascita a Jesi di Federico II, una nascita strana, fortemente voluta da Costanza d’Altavilla in piazza sotto una tenda, di modo che tutte le donne del paese vedessero il suo parto.

  Ma se un passato così grandioso c’era stato veramente, qualcosa doveva essere rimasto nella tradizione orale locale, anche a distanza di secoli.

Le mura possono crollare, possono essere distrutte, ma la loro memoria può rimanere anche per secoli.

 

 

Cap.  2  -  La  tradizione

 

 

 

  Le testimonianze sulla tradizione popolare carolingia sono molte e per la maggior parte sono state raccolte dal professor Carnevale in persona. Riguardo il nome “Roma” dato all’attuale paese di Urbisaglia, il Professore sapeva dagli antichi documenti che Carlo Magno aveva creato a pochi chilometri da Aquisgrana una “nuova Roma”, ma non aveva elementi per poterla identificare finché un giorno, come ci raccontò, dovendo farsi rimettere a posto dei pantaloni, si rivolse a una guardarobiera che lavora ai Salesiani. Ma quella certa mattinata era assente. La ritrovò nel pomeriggio e così, per curiosità, le chiese come mai quella mattina non era al lavoro. Lei candidamente rispose che era stata a Roma. Il Professore rimase sorpreso anche perché la signora dichiarò di aver fatto pranzo prima di venire al lavoro. Ed ecco la sorpresa, gli abitanti di Urbisaglia chiamano il loro paese “Roma”. Il Professore si informò ulteriormente, ma ormai «era palese, era pacifico». I contadini avevano continuato a chiamare Urbisaglia… “Roma”, ma non la Urbs Salvia romana. Da cartine geografiche sei-settecentesche risulta una “Salvi rovinata” in altra zona, a Pian di Pieca e non nella valle sotto il paese.

 



   Giovanni Antonio Magini (Padova 1555 - Bologna 1617) fu il primo geografo e cartografo italiano a realizzare un atlante nazionale, l’Italia Nuova. Nel realizzare la sua monumentale opera il Magini si servì di numerose fonti,

così ad esempio nella stesura della carta della Marca D’Ancona (1620) sembra si sia servito dell’aiuto dello scienziato fabrianese Francesco Stelluti (Fabriano, Ancona, 1577 - Roma 1653) (Giorgio Mangani, Marca D’Ancona, da “Le Mappe Storiche delle Marche”, supplemento a Il Resto del Carlino).

All’opera del Magini si rifanno i cartografi olandesi Willem e Joan Blaeu, padre e figlio, nel loro Theatrum Orbis Terrarum sive Atlas Novus (1645). Il risultato è un’immagine precisa e suggestiva dell’Italia del Seicento: «le mie carte permettono a chiunque di percorrere la Terra intera senza lasciare la propria poltrona», come disse Willem Blaeu all’amico pittore Van Hoogstraten (Cosmo. Atlas Novus - Italia, Novara, De Agostini, 1987).

La carta è quella dei Blaeu. Le informazioni su Salvi Rovinata vengono da Flavio Biondo e ne parleremo più avanti.

Di questa città romana si sa che fu totalmente distrutta all’inizio del V secolo dal funesto Alarico. Durante la guerra gotica vi passò, con le truppe bizantine, lo storico Procopio di Cesarea (La guerra gotica, ediz. e traduz. it. a

cura di Domenico Comparetti, Roma 1895-98, Libro II, cap. 16) e constatò che «dell’antico splendore non rimanevano che rimasugli di una porta e della pavimentazione del suolo. Nient’altro».

Oggi, però, sotto Urbisaglia sono ben visibili antiche rovine, ma…

   Questo per Urbisaglia, ma ci sono altre testimonianze come quella scovata da Andrea Bacci di Sant’Elpidio, scrittore del XV secolo: «[…] si vede ancora una parte d’un palazzo da campagna antico, che fino al dì d’oggi dalla memoria di sì gran fazione è chiamato il Palazzo di Re Carlo […]».(Andrea Bacci, Notizie dell’antica Cluana oggi S. Elpidio… 1716, p. 25.)

E testimonianze più recenti non ce ne sono? Certo che sì. A Corridonia vi è un palazzo del ‘700 chiamato “la casa dalle cento finestre”, ove a pochi metri scaturisce una sorgente d’acqua naturale. Gli abitanti del palazzo raccontano che lì una nipote di Carlo Magno filava con un telaio d’oro!

Secondo il prof. Carnevale, la nipote di Carlo Magno era la regina Tetberga, moglie di Lotario II, il quale, secondo quanto riferisce Jean-Claude Schmitt, (Spiriti e fantasmi nella società medievale, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 47-48), voleva separarsi lei per sposare l’amante Valdrada. Accusò la moglie di relazioni incestuose con il di lei fratello Uberto.

Viene in mente quel detto popolare finito in canzonetta …e Berta filava. La suddetta Berta era figlia di Lotario II, (Secondo quanto riferisce Erchemperto, (Storia dei longobardi - sec. IX, a cura di Arturo Carucci, Salerno, Ripostes, 2004, cap. 19, p. 32), alla morte di Lotario I (855) il regno dei Franchi fu diviso in cinque parti, il suo secondogenito Lotario ebbe Aquisgrana.) la quale sposò in seconde nozze Adalberto II di Toscana, chiamato il ricco. Il detto popolare nasce dalla sua “propensione” alle scappatelle extraconiugali.

    Un’altra importante testimonianza è stata raccolta dal Professore dalla viva voce di don Antonio Fioretti, salesiano della Parrocchia della Sacra Famiglia in corso Carlo Alberto ad Ancona, nativo di Sant’Elpidio. Ancora oggi ricorda come molti anni fa rimase colpito da quel che narrava un anziano ritornato dalle Americhe a Sant’Elpidio. Costui gli raccontò fatti e personaggi sulla sua terra natale, ma ciò che impressionò il salesiano era che queste cose accadevano «qui in Francia». La Francia, come tentò di dimostrargli il salesiano, è la nazione a noi confinante, ma l’anziano ribadì che la Francia era solo la sua terra: il Piceno. 

    Lo scrittore Filippo Davoli di Macerata ricorda che sua madre Maria Celeste, nata a Fermo, ancora in vita parlava degli abitanti della sua Val d’Ete come di gente che viveva in Francia. Inoltre, ancora oggi, alcuni suoi amici che abitano in quella valle dicono con naturalezza: “io abito in Francia”.

    E per ultimo, la dichiarazione che diede per telefono la signora…, qui non posso citare il nome per sua esplicita richiesta, che aveva una nonna che gli parlava, da bambina, di certi parenti che abitavano nella zona di Piediripa… proprio non lontano da San Claudio…

     Vabbé, tanto non c’è niente di scientifico, no? Solo fantasie, no? Bene, andiamo avanti…

 



   San Marone visse nel I secolo d.C. e su di lui vi è una curiosa tradizione orale. Questo santo è ancora oggi protettore di Urbisaglia insieme a S. Giorgio, l’uccisore del drago che teneva prigioniera una principessa. Alla foce del Chienti, un drago sarebbe emerso dal mare per mangiarsi una principessa,figlia (e questo è davvero notevole) del re di Urbisaglia. San Marone, emulo di Sandokan e Tarzan, la salvò.

Ma un drago non poteva essere più semplicemente un coccodrillo? E cosa ci faceva un simile animale nelle Marche fuori dal suo habitat naturale? 

Nel 186 d.C. una donna di Tebtunis, colonia romana sul delta del Nilo, fece una denuncia al centurione della locale guarnigione. Il padre e il fratello di questa donna erano scomparsi durante una battuta di caccia. Questo fatto suscitò sconcerto e paura, perché nella località non vi erano solo predoni e animali feroci, ma anche un malefico tempio dedicato al coccodrillo, in cui la statua del dio Sobek aveva corpo di uomo e testa di rettile. Sembra che al principio del culto, diffuso in altre parti dell’Egitto, erano dati in pasto ai coccodrilli anche esseri umani! (Vittorio Di Cesare, I papiri di Tebtunis, in «il Giornale dei Misteri», n. 404, pagg. 44-45, Siena 2005)

Non sappiamo se il centurione Aurelio Giulio Marcellino riuscì ad aiutare la donna, ma questa storia ci rammenta che da varie parti dell’Impero giungevano sulla nostra penisola nuove e misteriose dottrine religiose. Tanto che a Treia, in provincia di Macerata, la professoressa Giovanna Maria Fabrini, presso il Santuario del SS. Crocifisso, ha rinvenuto frammenti di ben cinque statue egiziane del III secolo a.C. (Giovanna Maria Fabrini, Dal culto pagano al culto cristiano: testimonianze documentarie e archeologiche per l’area del SS. Crocifisso a Treia, in «Picus», X, pagg. 108-75, 1990; Silvia Forti, Il Museo Civico Archeologico - Treia, in Beni archeologici della provincia di Macerata, a cura di Giovanna Maria Fabrini, Gianfranco Paci e Roberto Perna, Pescara, Carsa, pagg. 72-73, 2004.)

 Se questa idea vi sembra degna solo per un racconto del terrore, consigliamo a chi legge di recarsi nella chiesa di S. Maria delle Vergini a Macerata. Nella navata di sinistra, in alto, vi è appeso dalla fine del ‘500 un coccodrillo impagliato che, ancora in vita, tentò di mangiarsi il figlio di un contadino del paese! In rete potrete trovare le foto del coccodrillo (Lodovico M. Saggi, Il tempio S. Maria delle Vergini in Macerata: storia, fede, arte, Cassa di risparmio di Macerata, 1974 nella Collana di opere di arte sacra nel maceratese, II.  1974, pp. 88-90.

Cfr. Fabio Filippetti - Elsa Ravaglia, Guida insolita ai misteri, ai segreti, alle leggende e alle curiosità delle Marche, Roma, Newton & Compton, 2002, Guide insolite, 37.  2002, pp. 197-98.)

 



 

Cap.  3  -  Il  pellegrinaggio  di  Carlo  Magno

 

 

 

 Una delle chansons de geste più antiche è Il pellegrinaggio di Carlo Magno, composta attorno la fine del X secolo. Jules Coulet nel 1907 la analizzò nella sua Tesi di Dottorato in Lettere all’Università di Parigi.

Riportiamo in traduzione alcuni passi: «Se Carlo conduce con sé un gran seguito di cavalieri, di valletti e di bestie da soma, né lui né i suoi compagni hanno armi per andare in guerra. […]

Essi attraversano l’Europa e arrivano in Palestina, senza colpo ferire, senza incontrare la minima resistenza. Entrano a Gerusalemme quando e come vogliono. Nel compiere il loro pellegrinaggio non hanno alcuna noia. Danno liberamente le loro offerte ai Luoghi Santi.

Prolungano il loro soggiorno a loro gradimento.

Durante molti mesi, vivono a Gerusalemme, come dei nobili cavalieri,   Demeinent grant barnage car l’emperere est riches

Costruiscono una chiesa sotto l’invocazione di Santa Maria. In breve, è come se fossero a casa loro, lo stesso patriarca s’offusca davanti Carlo Magno, e lo riconosce come un sovrano. È lui, il reale padrone della città santa».Più avanti scrive: «Il suo pellegrinaggio rassomiglia a una passeggiata fatta attraverso l’Europa e l’Asia come se fosse nel suo dominio. Qui siamo, è evidente, in piena fantasia e in piena fiction [Finzione]». 

(Jules Coulet, Études sur l’ancien poème français du voiage de Charlemagne en orient, Montpellier, Coulet, pagg. 23-24 e 33, 1907)  

   Il prof. Carnevale rintracciò un’importante testimonianza. In una nota dei suoi libri è scritto: «Devo alla signora Igea Frezza Federici di Amelia, in Umbria, la segnalazione che ad Amelia è ancora viva la seguente tradizione carolingia: “stando non alla leggenda ma alla tradizione di Amelia, Carlo Magno, tornando dalla Terra Santa, sarebbe passato da Amelia…

In vicinanza della città vide un ponticello, che gli ricordò il Monte Calvario, e siccome aveva una fede profonda… pensò di farvi edificare una chiesa… La collinetta si chiama oggi del S. Salvatore e si hanno notizie che ci sia stata una

chiesa con dignità di basilica; alcuni fortunati scavi hanno portato alla luce resti bizantini” (da “La Voce”, anno 1962)».

(Giovanni Carnevale, S. Marone & l’Alto Medioevo in Val di Chienti, Civitanova Marche, Biblioteca Comunale “S. Zavatti”, pag. 40, nota 70  2002.)

Il giovane Carlo Magno pellegrino in Terra Santa può sembrare un’idea strana. Ma i contatti diplomatici con l’Islam erano molto fitti.

È accertato, dagli studi di Rita Ferraresi – una appassionata di storia e ricercatrice dilettante di Casarile milanese (MI) – che il monaco Fidelius, presente alla Corte di Aquisgrana, fece un viaggio in Arabia dove risalì il fiume Tigri, per poi percorrere il canale, che allora ancora esisteva, che congiungeva il Nilo al Mar Rosso; Da qui partì la gigantesca spedizione navale egiziana avvenuta nel II sec. a.C. e diretta verso la mitica Ofir.  

In più le ambascerie islamiche continuarono anche dopo l’inizio delle crociate, visto che il 24 marzo del 1174, come riportato negli Annales Aquenses, in una festa di incoronazione in Aquisgrana furono presenti inviati del sultano Saladino. Infatti  il prof. Carnevale nel suo libro del 2002, p. 58, alla nota 119, riferisce che ad an. 1174, p. 38, è riportato che «Imperator in pascha Aquis coronatus est, et filius eius et imperatrix, sub presentia nuntiorum Salahdin».

 

   Secondo tradizione, l’antico Crocifisso di Numana, detto “di Sirolo”, fu portato in Europa da Carlo Magno nel suo viaggio di ritorno dalla Terra Santa. L’Imperatore, costretto da una tempesta, dovette sbarcare a Numana, sulla costa anconetana, e a ringraziamento dello scampato pericolo depose la sacra immagine nella locale Cattedrale. Secondo altra versione il Crocifisso sarebbe stato trasportato dagli angeli, come si narra per la vicina Santa Casa di Loreto.

    Una strana coincidenza messa in evidenza dallo storico di Corridonia Claudio Principi (Claudio Principi, Tra Terra e Mare. Scorci di folclore  marchigiano, Macerata, Sico, 1996, p. 42), il quale fa notare che il Crocifisso approdò presso la riva tra Numana e Sirolo due anni dopo la Traslazione della Santa Casa di Loreto. 

   Vi è un detto popolare che recita: 

 

 



Chi va a Loreto e non va a Sirolo

Vede la Madre e non vede il Figliolo.

 

 

Vedi Giovanni Crocioni, La gente marchigiana nelle sue tradizioni, Milano, Corticelli, 1951 (Ethnos. Tradizioni popolari italiane, 1)., pp. 186-87; ed anche Giovanni Ginobili, Mestecanza: varie sul folklore marchigiano, Macerata 1961, pp. 119-21. Interessante lo studio a cura di Fabio Toccaceli, Il Crocifisso di Numana, Camerano (AN), Cassa Rurale ed Artigiana “S. Giuseppe”, 1994.  sui testi della tradizione relativa al Crocifisso dal sec. XVIII.

Anche il professor Giovanni Carnevale, La scoperta di Aquisgrana in Val di Chienti, Macerata, Queen, 1999, pp. 209-10, nota la somiglianza tra il Crocifisso di Sirolo e l’immagine raffigurata sul Dittico di Rambona voluto dal’imperatrice Ageltrude.

 

Cap.  4  -  Strade  e  santi

 

  In riferimento alla toponomastica stradale locale, bisogna segnalare un sentiero di montagna che, secondo tradizioni raccolte a Castelluccio di Norcia, ancora oggi viene denominato “strada imperiale”.

(Maurizio CALIBANI - Alberico ALESI, a cura di, Guida dei Monti Sibillini, Club Alpino Italiano: Sezione di Ascoli Piceno, pp. 108, 110, 283.)

   Ancora più interessante sembrerebbe il ricordo di una strada che da S. Ginesio conduceva a Belforte e a Caldarola, anch’essa denominata “strada imperiale”. Il nome le deriverebbe, secondo tradizione, da Carlo Magno, che percorrendo questo itinerario scelse San Ginesio (mimo e martire dioclezianeo che fu anche vescovo di Brescello… me lo immagino naturalmente con la faccia di Fernandel) quale patrono del paese omonimo.

 



San Ginesio oppure molto più verosimilmente Pipino e Berta?

riproduzione della pietra alla Collegiata di San Ginesio.

 

Ricerche del professor Febo ALLEVI, docente di Tradizioni popolari all’università maceratese, e descritte nei suoi Segni del tempo a San Ginesio dall’età di Roma all’alto Medioevo, in Atti del XXII Convegno di Studi Storici Maceratesi (Macerata 15-16 novembre 1986), Macerata 1989 (Studi Maceratesi, 22), pagg. 68-69.

E ancora, in Assistenza e ospitalità nella Marca medievale. Atti del XXVI Convegno di Studi Maceratesi, San Ginesio 17-18 novembre 1990, Macerata 1992 (Studi Maceratesi, 26), p. 703.

Una processione ginesina per il giubileo del 1600, in Vita e cultura del seicento nella Marca. Atti dell’undicesimo Convegno di Studi Maceratesi, Matelica 18-19 ottobre 1975, Macerata 1977 (Studi Maceratesi, 11)., p. 116;

Segni del tempo a San Ginesio dall’età di Roma all’alto Medioevo, in Atti del XXII Convegno di Studi Storici Maceratesi (Macerata 15-16 novembre 1986), Macerata 1989 (Studi Maceratesi, 22)., p. 68. 

    Secondo l’interpretazione del prof. Giovanni Carnevale, il paese di San Ginesio sarebbe l’antica Saint Denis carolingia, e il bassorilievo rappresenterebbe Pipino III, padre di Carlo Magno; lì vi sarebbero (una follia assoluta!!! Vero?), di fronte la collegiata, le tombe dei suoi genitori.

Tanto che sul portale romanico della suddetta Collegiata, è presente un bassorilievo con i loro ritratti; il padre – morte prima – a figura intera e la madre – la Berta dal gran piede – raffigurata solo con il volto.

 

    Parlando di santi, il professor Allevi nota la somiglianza di alcuni santi marchigiani con quelli francesi.

Tra gli altri troviamo: S. Martino, «il santo di Tours, il cui culto s’era in Italia diffuso durante il periodo franco»; S. Ginesio raffigurato «“avec son violon” a Parigi in compagnia di “Saint Julien l’Hospitalier” [da notare che San Giuliano, è il patrono di Macerata Granne], due statue presso la porta dell’omonima chiesa».

In riferimento a San Giuliano, Arturo Graf in Miti, Leggende e Superstizioni del Medio Evo, II, Torino, Ermanno Loescher, 1893, p. 209, riferisce il detto di un poeta sulla chiesa parigina: «Saint Juliens / Qui herberge les Chrestiens»; inoltre Pompeo Compagnoni, nel suo La reggia Picena, overo de’ presidi della Marca, Macerata 1661 (rist. anast., Forni, 1980), p. 57, lo definisce «Patrono antico di Ricina, e il primiero de’ Maceratesi».

   C’è anche S. Eligio meglio conosciuto col nome francese di S. Alò, patrono  degli Ospedalieri; S. Egidio dà il nome a un borgo presso Macerata, chiamato dai suoi abitanti S. Gilio, alla francese, interessante è il fatto che il Santo è raffigurato sulla pala dell’altare maggiore della sua chiesa «che rimanda […] per accostamento di richiami, alle figurazioni affidate alle vetrate di Chartres […], dove è rappresentato mentre pregando ottiene il perdono del misterioso peccato commesso da Carlo Magno: un episodio consegnato anche alla resistenza del sarcofago che ad Aachen racchiude le spoglie del grande imperatore». (vedi Allevi nel suo libro del 1992, alle pagine 708-12.)

Non si sa quale sia il peccato (e il buon Carletto ne deve aver fatti parecchi), però Schimitt, nel suo libro del 1995, a pag. 216, ci avverte che il monaco Heito di Reichenau (anno 824), nella Visio Guetini, descrive i tormenti subiti nell’oltretomba da Carlo Magno. Poco dopo, la Visio Rotcharii rivela che l’imperatore si è ormai salvato.

   Riguardo al culto di S. Basso, il Civalli nel 1598, parlando del monastero intitolato al Santo in contrada Civita a Cupra, scriveva: «Vogliono alcuni, che qua fosse anticamente la città di Nizza, della quale era vescovo S. Basso», probabilmente si trattava di un agglomerato composto da profughi nizzardi. Come scrive P.D. Faustino Mostardi, S. Basso da Nizza a Cupra, Cupra Marittima, Comitato Festeggiamenti S. Basso, 1962.

    Credo che i profughi abbandonarono la loro città, nel «[…] 1871 e ciò dieci anni dopo l’annessione, […] dodicimila Nizzardi avevano abbandonato la propria terra rifiutando l’annessione, quando vi era stata una massiccia immigrazione francese...»

Vedi: https://marcopugacioff.blogspot.com/2017/06/nizza-il-suo-passato-il-suo-futuro.html

 

 

Cap.  5  -  Chiese  e  città

 

 

    Il paese di Mont’Olmo oggi Corridonia su volere di un certo duce, era così chiamato per la presenza di un gigantesco olmo che sorgeva fino al 1831 nel punto più alto dell’abitato. In seguito, nel 1851 prese il nome di Pausula dalla vicina città romana distrutta di Pausulae. Dal 1931 il paese ha assunto il nome di Corridonia, in ricordo del sindacalista rivoluzionario Filippo Corridoni. Notizie riprese dal libriccino TCI del 1979 a pag. 490. 

Sulla chiesa di San Pietro a Mont’Olmo, troviamo delle note degne di attenzione in uno scritto che credo ancora inedito su Santa Maria in Selva del professor Carnevale. Narrando la storia della chiesa di Santa Maria in Selva, il Professore riferisce che «nel 1082 Adalberto, signore del Castello di Ajano, non avendo successori, insieme alla moglie Adelberga, donò i suoi beni alla chiesa di San Leopardo di Osimo e a Lotario, vescovo di quella città. Nel 1096, papa Urbano II unì la chiesa di Santa Maria in Selva all’abbazia di Rambona, concedendola all’abate Gislerio, insieme ai beni annessi alla chiesa, che già appartenevano alla basilica di San Pietro di Roma». Non bisogna confonderla con la San Pietro della Roma di Giulio Cesare, perché si tratta della “nuova Roma” carolingia. Era un’antica basilica in onore di San Pietro, fatta costruire nel sec. VIII da Pipino il Breve, padre di Carlo Magno, sulla sommità del Mons Ulmi, intorno alla quale si sviluppò in seguito Mont’Olmo. Da qui a confonderla con quella del Vaticano, dal sec. XII in poi, il passo è stato breve. La chiesa, di antichissime origini, fu demolita e ricostruita nel 1750. Ancora oggi conserva un dente di San Pietro.

Una tradizione ricorda che vi pregò San Francesco e lì si conservano due mattoni su cui si sarebbe inginocchiato il Santo. Una tradizione fantastica? Non proprio. Nel canto XIII dei Fioretti è scritto che «[…] fatta l’orazione, si levarono per camminare in Francia. […] E fatto questo, disse santo Francesco: “Carissimo compagno, andiamo a San Piero e a San Pagolo, e preghiàmgli che c’insegnino e aiútinci possedere il tesoro ismisurato della santissima povertà; […]”. E in questo parlare giúnsono a Roma, ed entrarono nella chiesa di Santo Piero. E santo Francesco si puose in orazione in uno cantuccio

della chiesa, e frate Masseo nell’altro. […] Di che ciascheduno pieno di letizia diterminarono di tornare alla valle di Spoleto, lasciando l’andare in Francia».

La versione dei Fioretti è ripresa da Roberto Di Marco, a cura di, I fioretti di San Francesco, Bologna, Cappelli Editore, 1973.

    Nel libricino rosso del Touring Club Italiano si legge che il paese di Morrovalle (Morro=muro a valle, perché vi è verso la montagna un altro Morro… perlomeno, così mi riferì il prof. Mancini) «secondo la leggenda venne fondato da Carlo Magno, e ampliato nel sec. XII da Guarniero, duca di Spoleto; in ogni tempo vi dimorarono artisti e poeti». Vedi alla pag. 487…

   Di Ascoli Piceno si occupò prima Carlo Magno in un diploma (ovviamente falso) datato al 5 agosto dell’800, in cui si afferma che le reliquie di Sant’Emidio sono situate sub altare (sotto l’altare), poi Ottone III con la prima attestazione di rilievo della Cattedrale di Ascoli in un diploma del 996.

Vedi Furio Cappelli, La cattedrale di Ascoli nel Medioevo. Società e cultura in una città dell'Occidente, Ascoli Piceno, Lamusa, 2000, pag. 35.  

    Ora è la volta di tre comuni dell’alto Abruzzo.

Il primo è Sant’Egidio alla Vibrata che «fu vico romano con il nome di “ILIUM” che in latino antico denominava “Troia”, appunto la città di Ilio. Fu poi dominato dai Longobardi, la cui occupazione terminò nel 793 per intervento di Pipino il Breve e sotto il dominio dei Franchi, Carlo Magno, nell’istituire il Regno della Chiesa con annessione del Ducato di Spoleto, delimitò i confini estromettendo Sant’Egidio».

Notizie tratte dal sito in rete del Comune di Sant’Egidio alla Vibrata nell’anno 2010. Non so se siano ormai cambiate.

Sant’Omero è situato in una collina, il suo centro storico viene fatto risalire al XII secolo. Di fondazione normanna secondo alcuni, fondata invece da Carlo Magno secondo altre fonti. Di certo, in epoca romana il territorio ebbe un periodo di grande floridezza grazie all’insediamento di varie famiglie nobili, che portarono all’edificazione di due grossi agglomerati.

Notizie tratte dal sito web del Comune di Sant’Omero, sempre nel 2010.

Secondo una tradizione riferita al prof. Carnevale da un suo allievo originario di Sant’Omero, vi era in paese un castello detto di “Rolando”, come nella versione originale francese della Chanson de Roland e non “Orlando” della versione italiana.

    Ancora un fatto, secondo la tradizione il castello di Rolando era posto sul Limen, confine della Bretagna, e Sant’Omero, come Sant’Egidio alla Vibrata e Ancarano, era posto all’incirca al confine col territorio Longobardo.

    Ancarano è sorto intorno a un tempio dedicato alla dea Ancaria. La dea Ancaria era la dea Diana dei Piceni. La madre di Francesco Stabili, detto Cecco d’Ascoli, sembra fosse devota alla “Signora degli Animali” e iniziò ad avere le doglie davanti allo spazio verde che circondava il tempio della dea, forse proprio ad Ancarano. Notizie  riprese in rete, ma di comune dominio.

Il paese fu donato da Carlo Magno al vescovo di Ascoli Piceno. «Un anonimo cronista ci ha lasciato questa inedita descrizione: “Ancarano è castello donato al Vescovo d’Ascoli dal Re Carlo Magno venuto in quelle bandi già intorno a ottocento anni, come appare nell’istrumento fatto et sottoscritto da Rinaldo et Rolando di quel lignaggio. Ancarano è detto dalla dea Ancaria che dicesi haver avuto quivi il suo domicilio, come si congiettura da certi vestigi intorno alla chiesa, che al di d’hoggi è nell’istesso luogo. Il Vescovo al presente è di

casa Aragonia et è chiamato vescovo d’Ascoli et vescovo d’Ancarano, et Prencipe”. Nel 1766 […] il Marcucci lasciò parecchio spazio alla saga carolingia. A suo dire, Ancarano sarebbe stato distrutto nel 793 dai re Pipino e Lodovico perché il baldanzoso duca Grimoaldo di Benevento lo aveva occupato dichiarandolo suo baluardo di frontiera. In seguito, trinceratosi nel vicino castello di Garrufo, Grimoaldo venne nuovamente sconfitto da Carlo Magno il quale ordinò di spianare la fortificazione e trasportarne le pietre nella nuova fabbrica di Ancarano, dove sarebbe stata collocata una lapide a celebrazione dell’evento:

CAROLUS HIC MAGNUS HOC

CASTRUM CONDIDIT ILLO TEMPORE QUO

CARUFAE DIRUTA TERRA FUIT».

 

Scritta ripresa da Luigi GIROLAMI, Ancarano (Castrum Ancarani), in Castelli, rocche, torri, cinte fortificate delle Marche: I Castelli dello Stato di Ascoli, vol. IV, t. 1, a cura di Maurizio Mauro, Roma - Ravenna, Istituto italiano dei castelli - Adriapress, 1998 (Castella,  64), p. 456.  

 

    Monte San Martino nel maceratese, posto a circa 600 metri sul livello del mare, ebbe forse origini romane. Il castello fu poi dedicato a San Martino quando, «dopo alterne vicende, divenne quartiere dei Franchi», all’incirca nel IX secolo.

Notizie tratte da Maurizio Mauro, Castelli, rocche, torri, cinte fortificate delle  Marche, vol. III, t. 1, Roma - Ravenna, Istituto italiano dei castelli - Adriapress, 1996 (Castella, 52), pag. 298.  

   Di Monte Rinaldo, nel fermano, si è scritto che «dopo l’arrivo dei Franchi e dei monaci Farfensi (anno 759), nell’entroterra fermano sorsero dei piccoli centri fortificati e ciò vale anche per Monterinaldo (Mons Raynaldus). Non solo è evidente l’influsso dei Franchi su questo nome, ma anche su quello del suo patrono S. Leonardo, che fu confessore del re franco Clodoveo».

Notizie tratte da Luciano PALLOTTINI, Monte Rinaldo (Mons Raynaldus), in Castelli, rocche, torri, cinte fortificate delle Marche: I Castelli dello Stato di Fermo, vol. IV, t. 2, a cura di Maurizio Mauro, Roma - Ravenna, Istituto italiano dei castelli - Adriapress, 2002 (Castella, 72), p. 384.

   Un reperto marmoreo veramente unico si trova nella chiesa di San Marco di Ponzano di Fermo. Qui, è raffigurata una figura umana acefala, che stringe un tassello o un’elsa di spada con la seguente iscrizione:

PIPINI ADRIANI PAPAE,

ovvero al tempo di Pipino (figlio di Carlo Magno) e di papa Adriano. La statua dovrebbe risalire al 781, quando papa Adriano I consacrò a Roma, nel giorno di Pasqua, Pipino re d’Italia.

Ferruccio SCOCCIA, Chiesa di S. Marco (Sec. XII). Ponzano di Fermo, in Castelli, rocche, torri, cinte fortificate delle Marche: I Castelli dello Stato di Fermo, vol. IV, t. 2, a cura di Maurizio Mauro, Roma - Ravenna, Istituto italiano dei castelli - Adriapress, 2002 (Castella, 72), pp. 468, 470.   

 Nel territorio di Servigliano, nel 1108 un gruppo di famiglie costruì un castello detto di Servigliano o Sorbelliano. Ma interessante è che i signori di un altro castello giurarono fedeltà al Papa. Chi era questo Papa? E perché ci interessa?

Perché il castello in questione porta il nome di Clarmonte (o Chiarmonte). Vedi  Carlo TOMASSINI, Servigliano (Castel Servigliani o Servelliani). Castel Clementino, in Castelli, rocche, torri, cinte fortificate delle Marche: I Castelli dello Stato di Fermo, vol. IV, t. 2, a cura di Maurizio Mauro, Roma - Ravenna, Istituto italiano dei castelli - Adriapress, 2002 (Castella, 72), pag. 543.

E, se fosse di qualche anno più antico dell’altro, ci troveremmo di fronte al luogo in cui Urbano II fece il suo famoso discorso, che inizia così: «Popolo dei Franchi, popolo d’oltre dei monti, popolo come riluce in molte delle vostre azioni eletto ed amato da Dio, distinto da tutte le nazioni sia per il sito del vostro paese che per l’osservanza della fede cattolica e per l’onore prestato alla Santa Chiesa, a voi si rivolge il nostro discorso e la nostra esortazione».

Discorso pronunciato da Urbano II a “Clermont” il 27 novembre 1095.  Il testo non è giunto in originale, ma è stato tramandato da cronisti e storici coevi. La versione che qui si riporta è quella di Roberto il Monaco: Historia Hierosolymitana.  Le notizie sono state tratte dalle rete…

   Questa era l’esortazione alla gigantesca impresa militare e di conquista chiamata “crociata”, che già cento anni prima era sollecitata da Silvestro II.

Giova qui ricordare come la tradizione locale, considerata spuria dagli storici ufficiali, ricordi la predicazione di Urbano II ad Ascoli e a Fermo della prima crociata. Inoltre, bisogna sapere che Goffredo di Buglione era nominalmente duca di Spoleto e marchese di Camerino, cariche queste ereditate dallo zio Goffredo il Gobbo.

Vedi il libro del prof. Carnevale et al., 2008, p. 291: notizie tratte da B. Jungmann, Dissertationes selectae in Historiam Ecclesiasticam, Ratisbona, Ed. Pustet, 1882.  

   Del resto non è più una fantasia, visto gli studi di Mario Moiraghi, nel suo libro L'italiano che fondò i templari. Hugo de Paganis cavaliere di Campania, Milano, Àncora, 2005,  che Hugo de Paganis o Hugues de Payens non sia nato nel territorio dell’attuale Francia, ma in Italia, nella salernitana Nocera.

   A Monteprandone, nell’ascolano, la tradizione ci dice che il castello Castrum Montis Prandonis, eretto sul colle più alto, sia stato possesso di un “Prandone” o “Brandone”, cavaliere di nascita franca giunto nell’800 ad Ascoli al seguito di Carlo Magno. Investito dei territori di queste contrade, il cavaliere raccolse le popolazioni sparse e disperse per ricorrenti incursioni e le guidò sulla collina, più difendibile, dove edificò il castello che da lui prese il nome: Mons Prandonis o Brandonis.

Notizie tratte da Saturnino LOGGI, Monteprandone (Castrum Montis Prandonis), in Castelli, rocche, torri, cinte fortificate delle Marche: I Castelli dello Stato di Ascoli, vol. IV, t. 1, a cura di Maurizio Mauro, Roma - Ravenna, Istituto italiano dei castelli - Adriapress, 1998 (Castella,  64)., p. 130.

   Per Montegranaro, nei pressi della chiesa di Santa Croce al Chienti, non ci viene in aiuto la tradizione bensì un documento ufficiale, un “Decreto” del IX secolo redatto nel Palazzo Regio di Aquisgrana il 22 giugno 829.

Qui, Ludovico il Pio e suo fratello Lotario, Imperatori romani, attestano la concessione all’abbazia imperiale di Farfa del monastero di Santo Stefano, posto nel Teatino, con tutte le sue integrità, tra le quali tre chiese di Montegranaro: «in monte Granario Ecclesies tres».

Notizia tratta da Chronicon Farfense, I, pag. 192-94.   

La cosa notevole è che nel documento tutti i possedimenti vengono rigorosamente indicati nei loro siti per l’indicazione, tutti tranne Montegranaro! La cosa lascia particolarmente stupiti. Ma se consideriamo l’odierna San Claudio al Chienti come l’originaria Aquisgrana, l’enigma sarebbe presto risolvibile!

Come ci ha fatto notare il nostro amico ricercatore Massimo Orlandini, il sito di Montegranaro è da lì visibile a colpo d’occhio e dunque non doveva essere indicato. È talmente semplice che nessuno ci crederebbe. 

   Ritornando al nostro piccolo libricino rosso del TCI, soffermiamoci sulla chiesa di Santa Maria a piè di Chienti, detta dell’Annunciata (o dell’Annunziata). La chiesa, sita a Montecosaro, è «uno dei monumenti più interessanti della regione; venne eretta in forme romaniche nel sec. IX, più tardi rimaneggiata, e ha un ben conservato e suggestivo interno a due piani sovrapposti. Nella zona esisteva anticamente un monastero dipendente dall’Abbazia di Farfa.

Qui, verso la fine del sec. IX, veniva eretta l’attuale chiesa che un’altra fonte fa risalire al secolo precedente allorché Carlo Magno, battuti i Saraceni nelle vicinanze, l’avrebbe fatta innalzare a ricordo della vittoria».

Notizia tratta dal libriccino rosso TCI del 1979, a pag. 486. Francesco Laureati nel suo Storia ed Arte in terra di Montecosaro, Macerata, Ente provinciale per il Turismo, 1969, a pag. 16, ricorda che «in questa Chiesa furono sepolti molti religiosi e laici acclamati martiri del memorabile combattimento». 

    Come vedete sono notiziole interessanti, attinte sia da documenti che dalla

tradizione orale locale. Nel compilare però la voce sulla chiesa dell’Annunciata, l’autore del libricino incorse in un piccolo equivoco confondendola con un’altra chiesa situata, poco distante, tra S. Elpidio a Mare e Montegranaro. Si legge di un «[…] quadrivio ove si stacca a destra una carreggiabile che, scesa ad attraversare l’Ete Morto, ne segue poi la sponda sinistra sino a raggiungere (km 2,5) la chiesa romanica di S. Croce al Chienti o all’Ete, eretta per volontà dell’imperatore Carlo il Grosso, consacrata nell’886, manomessa nel 1790, poi trasformata in casa colonica; la costruzione, in laterizi, è a pianta basilicale a tre navate divise da colonne e termina con tre absidi».



La splendida tavola iniziale sul fumetto di Cagliostro di Sergio Zaniboni

 

Vedi il libriccino TCI 1979b, a pag. 395 Fu questa la chiesa fatta costruire da Carlo III il Grosso, confuso con Carlo Magno nella costruzione dell’Annunciata. In quegli anni Bari era diventata, purtroppo, una conquista araba e venne usata dai predoni Saraceni come base per incursioni nel resto del nostro “bel paese”, spingendosi addirittura dalle coste all’interno. Re Carlo dovette rifugiarsi a San Leo (la famigerata prigione settecentesca di Cagliostro), fortificarla, riunire gli armati e ritornare a combattere contro gli invasori fino a quella battaglia in cui li sconfisse e ricordata più sopra per la chiesa dell’Annunciata. La chiesa precedente di S. Croce al Chienti era stata ridotta in macerie dagli invasori e sopra le sue rovine fu costruita quella nuova. Quasi certamente [Nella nostra fantasia malata] è in quella precedente chiesa che visse San Benedetto di Aniane (da non confondere con San Benedetto da Norcia, ora a Montecassino) e dove fu sepolto prima di essere traslato nell’attuale Francia a Saint Benoit sur Loire, vicino Orléans, in seguito all’invasione araba dell’881.

San Benedetto di Aniane (n. 750 circa – m. Kornelimünster 821) come cavaliere seguì Carlo Magno in Italia e, scampato alla morte per annegamento in Pavia (774), si dedicò a vita ascetica. Morì a Inde, 7 Km da Aquisgrana. (Fonte: Enciclopedia Treccani) 

«Il monastero ad Indam – il suddetto Inde, n.d.A – fu distrutto, stando agli Annales Fuldenses, nell’anno 881.

[…] S. Croce sorge ove il fiume Ete confluisce nel Chienti. In locali documenti posteriori al Mille l’Ete è chiamato Eta, possibile derivazione etimologica di Inda, che pronunciato dai Franchi con suono iniziale nasale, da En-a diede E-ta» (Vedi il professor Carnevale nel suo libro del ’99, a pag. 153). La distanza che separa Indam da Aquisgrana è la stessa che intercorre tra S. Claudio al Chienti e l’abbazia imperiale di S. Croce al Chienti.  

All’interno della chiesa di S. Croce al Chienti vi è ancora, murata a parete, un’iscrizione lapidea del XVIII secolo che ricorda l’imperatore Carlo il Grosso:

«CAROLO CRASSO IMPERATORE».

 Santa Croce è una chiesa gloriosa e carica di diplomi imperiali, infatti in merito ai documenti medioevali del monastero di Santa Croce conservati nell’Archivio Segreto di Sant’Elpidio a Mare si veda Anna Maria Accardo, I documenti di Santa Croce conservati nell’Archivio Segreto di Sant’Elpidio a Mare, in Santa Croce al Chienti. I perché di un recupero, a cura di Manfredo Longi, Sant’Elpidio a Mare, Associazione Santa Croce, 1996, pagg. 23-39.

Sulla questione dell’autenticità dei due documenti più antichi, risalenti agli anni 883 e 887, si veda: Wolfgang Hagemann, Studien und Dokumente zur Geschichte der Marken im Zeitalter der Staufer, III. Sant’Elpidio a Mare, estr. da «Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Biblioteken», 44, Tübingen 1964, pp. 78-79.

Di questo studioso tedesco, che durante la guerra fu come Toshiro Mifune in Cina, un giovane ufficiale che lavorò come interprete, nutro poca fiducia…



Vedi anche Vincenzo Galiè, Insediamenti romani e medievali nei territori di Civitanova e Sant’Elpidio. Ipotesi di ricostruzione topodemografica nell’ambito del Cluentensis vicus e di Cluana, Macerata, Comune di Civitanova Marche, 1988., pp. 42, 46, 48-49; Emilia Saracco Previdi, Presenza monastica nelle Marche. L'esempio di S. Croce al Chienti tra IX e XIII secolo, estr. da Le abbazie delle Marche. Storia e arte. Atti del Convegno Internazionale (Macerata, 3-5 aprile 1990), a cura di Emma Simi Varanelli, Roma, Viella, 1992 (Università degli Studi di Macerata. Pubblicazioni della Facoltà di Lettere e Filosofia)., pagg. 161-63;

Vedi ancora la Accardo, nel suo libro del 1996, pag. 23-24; ed anche Delio PACINI, Fermo e il fermano nell’alto Medioevo. Vescovi, duchi, conti e marchesi, in «Studia Picena», LXII (1997)., pagg. 26-27.

   Ma anta Croce forse nasconde un’ulteriore storia, che voglio qui narrare in forma romanzata.

    «Siamo in un giorno di maggio del 1003, l’estate è alle porte, eppure quel dì il cielo è oscuro e così l’anima di Gerberto, il suo cuore è pieno di funesti presagi. Egli sa che la sua vita sarà troncata entro breve. Si mormora che il nobile romano Crescenzio abbia già deciso il nome del successore al soglio di Pietro, il suo acerrimo nemico Giovanni nato a Rapagnano, figlio del conte Sikko.

Crescenzio era figlio di tal Crescenzio a capo della rivolta scoppiata contro il primo papa non romano: Gregorio V, Brunone, fratellastro di Ottone III.

    La messa che Gerberto, da Papa, sta ora celebrando è seguita da nobili e popolani. Lui stesso aveva deciso che tutti potevano assistere alle funzioni senza distinzioni di classi, lui, nato in un misero paesino in Alvernia, senza alcuna nobiltà. I nobili lo odiano con tutto il cuore e stranamente sorridono sotto i baffi.

     Le porte di Santa Croce, ove sono custodite le reliquie della sacra Croce portate in Italia dalla madre di Costantino, si aprono. Gli sgherri di Crescenzio entrano. È la fine. Gerberto sa che non lo uccideranno, il terrore dell’inferno è in loro, ma hanno portato i cani, li sente ringhiare sonoramente al di fuori. Eppure svolge la sua funzione fino alla fine.

     In quell’anno nero, dopo la morte del giovane Ottone, pur svolgendo regolarmente tra mille difficoltà le sue funzioni di Pontefice massimo, amava rifugiarsi sulle torri del Laterano, sopra quella che era stata la Cappella palatina di Carlo Magno.

   D’un tratto, ricorda le stelle del firmamento da lui studiate coi suoi strumenti e sorride. Poi si gira con il maturo volto risoluto e detta il suo tragico testamento. Confessa di essere stato musulmano per sete di conoscenza e di ciò, come uomo, chiede perdono a Dio, ma come Papa ordina che l’ostia da quel momento in poi sia rivolta verso i fedeli! Infine, pronuncia le sue ultime parole: “la messa è finita, andate in pace”.

     A quelle parole gli sgherri si precipitano su di lui, lo scaraventano a terra e in mezzo al terrore della povera gente viene trascinato al di fuori della chiesa e dato in pasto ai cani!

   Dopo il triste spettacolo, delle pie donne lavano alla meglio il suo povero corpo, il quale viene posto da vigorosi contadini sopra un carro trainato da buoi, che si incammina lungo la strada che porta al Laterano. Un lungo corteo

segue i resti di Gerberto nel suo ultimo viaggio.

   Rivestito con abiti nuovi viene sepolto all’ingresso del Laterano.

   Solo tre giorni dopo, Giovanni è il nuovo Papa. Quale nuovo pontefice, redige il testo della lapide funeraria di chi lo ha preceduto, così come Gerberto aveva fatto con Brunone. Ma con un astio profondo, la nuova iscrizione recita semplicemente: Scandit ab R Gerbertus in R, post papa viget R

  

   Per la scritta della prima lastra tombale di Silvestro II, vedi Arturo GRAF, Miti, Leggende e Superstizioni del Medio Evo, II, Torino, Ermanno Loescher, 1893 (rist. anast. Sala Bolognese, Forni, 1980).

Notizia tratta (tra molti altri) da Claudio Rendina, I papi. Storia e segreti, Roma, Newton & Compton, 1987 (Grandi tascabili economici, 216).

   La leggenda su Gerberto riferisce che egli sarebbe morto dopo aver celebrato messa in Gerusalemme.

 Infatti, si narra che egli sia morto nella chiesa di S. Croce in Gerusalemme a Roma, ma non poteva essere quello il luogo, in quanto vi era stato tenuto un Sinodo sotto re Teodorico e Gerberto, da esperto canonista, era certamente a

conoscenza del fatto e sarebbe stata quindi cosa per lui agevole sottrarsi alla morte.

Vedi Karl Ferdinand HOCK, Gerberto o sia Silvestro II papa e il suo secolo, a cura di Marco Pugacioff, Macerata, Aquis Chienti, 2010 (l’edizione originale di Milano del 1846 è comunque presente in rete). 

   Dunque Gerberto è morto nella chiesa di S. Croce in Gerusalemme a Roma o nella chiesa di S. Croce nel Piceno?

 

 

 


Andiamo a Riprantrasone, Luigi Antonio Vicione pubblico il suo Dissertazione sull’esistenza di Ripatransone prima dell’anno MCXCVIII, a Fermo nel 1827

 

pag. 26 «le attualmente esistenti Chiese, di S. Benigno nel Quartiere di Agello , di S. Angelo   di Rufiano, de’ Ss. Gregorio, e Margarita in quel di Capo di Monte, e de’ Ss. Niccolò, Rustico, ed Eleuterio in quello di Monte Antico. Che le dette quattro Contrade, chiamate ora Quartieri, parte formassero di Ripatransone fin dal principio del sec. XIII.»

ma alle pagg. 87-88 si spinge più avanti…

«3. La nostra Chiesa di S. Tommaso , che nella Piana Bolla dicesi 'in Cletis, e che ora più non esiste, prima dell’Epoca di Marcoaldo esisteva, e ponesi, come confine, del Castello di Monte antico. E’ lecito giudicare, che detta Chiesa sia stata una delle più antiche, e che esistesse in tempo dei Franchi, o che dai Franchi istessi fosse edificata.»

A pag. 89  prosegue… « 4. In Monte antico esistevano le dette due Chiese. Quella però, che, sopra di queste, e delle altre in detto Castello si distingueva, era la Pieve de' SS. Niccolò, Rustico , ed Eleuterio.»

pag. 90 «Nel secolo XI, titolo di Pieve aveva la Chiesa di S. Rustico, e il Distretto di sua giurisdizione chiamavasi Ministero, come apparisce da due Carte Fermane una dell’anno 1099, e l’altra del 1073.»

pag. 93 «Per giudicar poi quanto grande fosse la estensione di nostra Pieve, basti riflettere, che la Chiesa rurale di S. Martino che trovavasi a un miglio circa di distanza dalla Terra di Offida anche nel principio del sec. XIII, era alla Pieve di S. Rustico soggetta. La detta Chiesa poi era della Pieve lontana di circa cinque miglia..»

pag. 93-94 « I Santi Titolari di detta Pieve erano S. Rustico ed Eleuterio. Penso, che S. Niccolò sia stato aggiunto posteriormente. Furono essi due insigni Apostoli, e Martiri delle Gallie , nè con altri è lecito confonderli. Il Quadro , che osservasi in detta Chiesa, li rappresenta uniti con S. Dionisio, e dei medesini dal Paroco si celebra la Festa nel dì 11 Ottobre giorno, come ognun sa, dedicata alla memoria di quei tre Santi della Chiesa Gallicana . Ma quali altri, domando io, fuori che i Franchi, fabbricar potettero tal Chiesa in onore di detti Santi? Io penso , che la costruzione di detta Chiesa per mano dei Franchi, accaduta sia verso la fine del secolo IX.»

 

pag. 98 «3. Altra Chiesa eretta in onore di un Santo della Nazione dei Franchi esisteva in Ripatransone nel fine del passato secolo, ed era una delle più, quella cioè di Sant’Omero.»

pag. 99 «In una Carta Fermana dell'anno 1056, assegnasi per uno dei confini di un fondo dato dal Vescovo, di Fermo in Enfiteusi a un certo Luitulfo di Ripatransone la via di S. Maria, che va nel Rigo di Routiano, e prosiegue nel Rigo di S. Merio. Vi è presso Ripatransone una Contrada rustica chiamata il Fosso di S. Omero, e in quella Contrada esisteva pure una Chiesa in onore di detto Santo, Il Titolare adunque delle due Chiese sì dentro, che fuori della Città, fu S. Omero , e non Imerio.»

p. 102 «6. Oltre le dette tre Chiese esiste in Ripatransone qualche altro indizio di soggiorno dei Franchi. Presso alla Città vi è una Contrada rustica, che chiamasi Ciapella, e in detta Contrada sulla pubblica via esiste pure un picciolo Oratorio, o sia Cappella detta della Carità in onore di Maria Santissima. Essa in più volte è stata accresciuta; ma la piccola Cappella in origine è di antichissima costruzione. Da questa Cappella, credo io, che passata sia la denominazione a tutta la Contrada Ciapella. Questo vocabolo non essendo nè Italiano, nè Latino, forza è, che si derivi dal Francese Chapelle pronunciato fra noi, com’è noto, Sciapell. Menagio alla voce Chapelle sull’autorità di Durando lib . XI. del suo Razionale ci avverte, che i Re di Francia, quando marciavano alla guerra, seco portavano colla massima venerazione la cappa di S. Martino , e che dalla medesima, la quale i Francesi dicono chappe, e pronunziano sciapp, la tenda, sotto di cui portavasi, o esponevasi in venerazione la detta cappa, venisse denominata chapelle: Il medesimo Durando aggiunge, che la tenda , sotto di cui celebravasi la Messa cuoprivasi al di sopra con pelli di capra, e che da tal copertura si denominasse cappella.»

pag.104 «7. Altro indizio di dominio, e soggiorno dei Franchị in Ripa scorgesi in due nonni, e cognomi, che nel Processo Ripano sono accennati; l’uno è quello di Bertovino Angaral, e l’altro di Alberto Baril. Il primo adduceși come testimonio nel Processo Ripano al num . 2. (Ant. Pic. to. XVIII. App. n. XIV) , e l’altro si nomina nel D. D. XXVII. l. C. Facilmente si scorge, che il primo nome è un corrotto di Baldovino, è l’altro di Adelberto, ambedue, che furono assai comuni nomi agli antichi Franchi.»

e finisce con

pag. 106 «La voce Trasone, o Transone, aggiunta in qualità di cognome: al Castello di Ripa presenta al fine un nome, che pare di Francica origine, che tra i Franchi parlando dei cognomi incominciarono a usarsi nei secoli X e XI con la desinenza in son, vari esempi […]  Anche oggi la voce son presso gl’Inglesi e  shon presso i Tedeschi si usa, per significar figlio; e tienesi per certo , che le dette due Nazioni presero dai Celti, e dai Franchi non pochi vocaboli. Quindi la voce Transon può aver significato figlio di Trano, o Tramo. »

 

Dalla scheda della ConsultazioneBeniCulturali sulla CHIESA DEI SS. DIONISIO, RUSTICO ED ELEUTERIO

« Dopo la morte del conte Transone, la cui famiglia ebbe il luogo in feudo dal vescovo di Fermo verso la fine del IX sec., da cui il nome della città, a cura e spese delle nuore furono edificate due pievi di cui una dedicata ai Ss. Dionisio, Rustico ed Eleuterio, santi di origine franca, sul Monte Antico. In S. Dionisio e' rimasta intatta l'abside e la sottostante cripta in arenaria locale, lavoro attribuito al sec. IX, edificata nel gusto del cosiddetto rinascimento carolingio.

intero bene, La chiesa assunse il titolo di S. Nicolò nella seconda metà del sec. XV, dal culto che a questo santo portavano Slavi ed Albanesi, immigrati a Ripatransone. »

 

attenzione: Scheda non più in linea e sostituita

 

Torniamo ancora una volta al libro di

Luigi Antonio Vicione

pag. 9 «Degno di considerazione sembrami un Castello chiamato Ripa posto nel Comitato Fermano, e presso al mare, del quale si fa menzione in una Carta Farfense mancante di nota Cronica, ma sicuramente del secolo XI.

Quantunque Ripatransone non sia distante dal mare, che di sole cinque miglia [poco più di una decina di chilometri…], e che possa dirsi vicina al mare, ciò non ostante il porto, che ivi si nomina, la posizione di detto Castello sotto Monte Seccone il diritto della pesca is che ivi godevano i Monaci di Savino sono circostanze, le quali non permettono di confondere la nostra Ripa con altra delle vicinanze. Detta Ripa juxta mare più non esiste attualmente, ma la prossimità del mare, e la posizione sotto Monte Secco fa credere che abbia esistito presso la rispettabile Terra di Grottamare, nel suo Territtorio in oggi trovandosi una Contrada detta di Monte Secco. In quella Carta, ove si notano i Beni usurpati ai Monaci Farfensi, viene di fatti indicato un Castello chiamato Cripta, conforme s’indica Montebello, Visiano, e Agello contrade appartenenti a Ripatransone.»

 

Frammento da

HISTORIA REGUM FRANCORUM - MONASTERII SANCTI DlONYSII.

Cumque omnia ad regis fiscum pertinerent, ipse gloriosus rex Dagobertus ecclesìe sancti Dionisii easdem possessiones, id est Novingentum in pago Andegavensi, Parciacum, Nulliacum, Podenciniacum, Pascellarias atque Anglarias in pago Pietavensi[o Pictavensi], aliasque perplures cum salinis supra mare, devotissime tradidit.

Quarum nomina si quis inquisierit, ot reor 27 inveniet. Ipse vero rex gloriosus inter alia que laodabiliter gessit, memor voti sui, sanctorum Dyonisii Rustici et Eleuterii auro puro et preciosis gemmis memoriae exornavit, et quamvis ecclesiam, quam a ſundamine construxerat, intrinsecus miro decore ſabricaverit, foris quoque desuper auxidam, inſra quam martirum corpora tumulsverat ex argento puro cooperuit.

 

 

Piccolo libro ritenuto storicamente inattendibile

E quando tutte le cose appartenevano al tesoro del re, il glorioso re Dagoberto stesso diede gli stessi possedimenti alla chiesa di S. Dionisio, cioè Novingentum nel villaggio di Andegavansi, Parciacum, Nulliacum, Podenciniacum, Pascellarias e Anglarias nel villaggio di Pietavensi [o Pictavensi], e molti altri con saline a picco sul mare, devotamente.

I cui nomi, se qualcuno chiede, credo ne troverà 27. Ma lo stesso Re glorioso, tra l'altro che fece lodevolmente, memore del suo voto, adornò i santi Dionisio Rustico ed Eleuterio d'oro puro e di gemme preziose di memoria, e sebbene la chiesa, che aveva costruito dalle fondamenta, l'avesse decorata dentro di mirabile bellezza, ricoprì anche l'esterno d'argento puro, da sopra l'assida, nella quale avea seppellito i corpi dei martiri.

 

Tradotto a cavolo dal traduttore in rete, già in latino mi avevano colpito le saline e le tante località menzionate. Il che mi porta alla nota nella malefica wiki “possiede anche uno dei territori comunali più estesi”.

 

   Tranquilli! Ormai è assodato che queste son solo voli di fantasia…

 

 

Cap. 6a  - Fantastici  prodigi,  magie  e  orrori

 

 “Da quello che credono, che le femmine mangino la Luna

perché possano ammaliare i cuori degli uomini 

presso i Pagani”.[*]

 

   «In quest’epoca, dicono, si generò d’improvviso a Parigi un ciclone così violento che a Montmartre dei muri edificati su fondamenta solide di pietra furono demoliti da cima a fondo. Si videro dei demoni, sotto forma di cavalieri, abbattere una chiesa nelle vicinanze e gettarne tanto vigorosamente le travi sui muri di cui noi parliamo, per sventrarli. Questi demoni sradicarono anche le vigne delle colline e devastarono le colture. L’apparizione di questi prodigi fu immediatamente seguita da un disastro presso i Bretoni».

Vedi Richer, Histoire de France (888-995), a cura di Robert Latouche, Parigi, Les Belles Lettres, 1967, Libro II, cap. 41, p. 193. Prosegue poi al Libro II, cap. 7, p. 139. E infine Libro I, cap. 65, p. 123.

Cronista francese vissuto nel X secolo; monaco del monastero di S. Remigio a Reims, studiò sotto la direzione di Gerberto di Aurillac. Di Richerio, o Richer,

dobbiamo ricordare le Historiae in quattro libri, dall’888 al 995, in cui viene narrata la fine della dinastia carolingia e gli inizi di quella capetingia, quale prosecuzione dei precedenti annali di Incmaro (806 ca. - Épernay 882), arcivescovo di Reims e teologo, e quelli di Flodoardo.

[*]Girolamo Tartarotti, Del congresso notturno delle Lammie, Rovereto 1749., p. 452: «De eo quod credunt, quia feminæ Lunam comedant quod possint corda hominum tollere juxta Paganos», passo ripreso da un «Indicetto di Superstizioni Gentilesche» annesso al Concilio Liftinese del 743.

   Così riferisce il Richerio nella sua Histoire de France riguardo l’anno 944. Altri prodigi avvennero nel 937: «fiamme misteriose scaturirono nella parte

settentrionale del cielo al cadere della notte».

Ancora, andando indietro fino al gennaio del 936, «a Reims si videro delle armate di fuoco attraversare il cielo; si videro inoltre delle fiamme di sangue che rassomigliavano a delle frecce o a dei serpenti».

Non basta, nel 926 «avvenne un’eclissi di luna, si videro così [ancora a Reims] delle armate di fuoco nel cielo».

In genere questi prodigi, che il Richerio ha ripreso dagli annali di Flodoardo,

precedevano epidemie o invasioni. 

L’opera del Richerio è dedicata a Gerberto di Aurillac, arcivescovo di Reims che lo convinse a redigerla. Inutile dire come Gerberto, calunniosamente definito “papa mago e stregone, nonché satanista”, attiri fatti prodigiosi.

   Come si sa, il ‘povero’ Gerberto era troppo dedito alle scienze profane, tanto che, come ci è stato riferito da uno studioso di simbologia marchigiano, da papa scrisse dei grimori potentissimi da contrapporre ad altri grimori troppo pericolosi. Vero o falso? Molto probabilmente è falso, visto che fu fatto santo e l’ultimo giorno dell’anno è dedicato a lui, anche se sui calendari è indicato erroneamente il primo Silvestro, ovvero Silvestro I, morto il 31 dicembre.

Eppure, nei primi anni del Basso Medioevo correva una voce particolare… in Roma durante il secolo XI vi era una scuola di magia nera, nella quale personaggio principale era l’arcivescovo Lorenzo di Amalfi, il principe dei malefizii, il quale prediceva il futuro anche dal «gorgheggiare» degli uccelli. Lorenzo era stato discepolo di Gerberto, il quale fu il primo ad insegnare quell’arte in Roma, dopo la scomparsa della primitiva scuola dove aveva studiato il mantovano Virgilio.

Vedi sempre il libro di Arturo Graf del 1893, a pag. 9; ed anche Giovanni Di Döllinger, Favole del Medio Evo intorno ai papi: frammenti di storia ecclesiastica, Torino 1867.1867, p. 150.

   Altro discepolo di Gerberto fu Teofilatto, il quale fu pontefice con il nome di Benedetto IX (1032-1044). Teofilatto sacrificava ai demoni e innamorava le donne con le sue arti, che «come cagne se le traeva dietro per selve e monti», (lo riferisce sempre Graf a pag. 9 del suo libro) una pratica, quest’ultima, che ricorda da vicino quella narrata da Leland nel suo Aradia (Charles Godfrey Leland, Aradia o il Vangelo delle Streghe, Viterbo, Stampa Alternativa, 2001 Fiabesca, 62.)

   Discepolo di Gerberto nelle “arti maledette” fu Idelbrando di Soana, divenuto papa Gregorio VII (1073-1085). Degno allievo di questi maestri, e quindi anche di Gerberto, si dice che Ildebrando spargesse nell’aria un nugolo di faville solo scuotendo le maniche, che avesse in casa un libro magico e per compagnia ben due “familiari”.

Sui familiari, vedete sempre Graf a pag. 8. I “familiari” sono spiriti che uno stregone riceve nel momento in cui stringe un patto con le potenze del male.

   Costantino Di Maria, nel suo Enciclopedia della magia e della stregoneria, (CDE spa, Milano 1985) a pag. 52 scrive…

«Non mancano, nella coscienza popolare, i demoni “familiari”. Questi sono coloro che si addomesticano e a cui piace vivere con gli uomini, che imparano ad amare.

    Uno storico svizzero riferisce che un barone di Rosenberg si era ritirato in una torre del proprio castello di Basilea onde consacrarsi con maggiore sollecitudine allo studio delle Sacre Scritture e delle belle lettere. Il popolo era rimasto sorpreso di questo fatto e della scelta di questo luogo solitario,in quanto si sapeva che la torre era abitata da un demone che permetteva l’ingresso a nessuno. Senonché il barone era un uomo coraggioso e non temeva gli spiriti. La notte, mentre il barone era intento ai suoi studi, i demone gli appariva in sembianze terrene, si sedeva vicino a lui, gli rivolgeva qualche domanda intorno al suo lavoro e s’intratteneva affabilmente con lui, senza mai fargli alcun male. Lo storico afferma che se avesse voluto rivolgere al demone qualche domanda, ne avrebbe senz’altro ottenuto risposta.»

Mi chiedo… e se invece di un demone… fosse comparsa una demonessa? Tipo Fiammetta, la figlia di Satana, fidanzata con Geppo, io buon diavolo? Al diavolo!!! Meglio non pensarci.



L’apparizione di Fiammetta nella mia versione di Cucciolo & Beppe in Pipo 5

 

Cap.  6  -  Marche  e  Sicilia

 

 

   È da Gregorio però che vogliamo partire per parlarvi della distruzione di Roma da parte dei Normanni (definiti nelle cronache del Richer, o Richerio, semplicemente come “Pirati”).

Sul Richer, o Richerio vedi Richer, Histoire de France (888-995), a cura di Robert Latouche, Parigi, Les Belles Lettres, 1967, Libro IV, cap. 108, p. 329.

Dopo la cosiddetta umiliazione di Canossa di Enrico IV, nel castello di Matilde nel Natale del 1077, Gregorio dovette subire l’oltraggio dell’assedio dell’esercito tedesco in Roma nel 1084. A questo punto entra in scena Roberto d’Altavilla, detto il Guiscardo, ovvero l’Astuto. Enrico IV fugge all’arrivo del Guiscardo, il quale penetra nell’Urbs scatenando un inferno.

Per i fatti relativi all’assedio vedi il libro del professor Carnevale et al. del 2008, alle pagg. 226-38.  

Un incendio spaventoso divampa nella città creata da Carlo Magno qui nel Piceno (perché di questa doveva trattarsi e non della Roma di Giulio Cesare di cui ho parlato più sopra).

   Durante questi fatti, la basilica di San Pietro era stata ridotta a fortezza dai partigiani del Papa. Qui entra in scena Goffredo di Buglione, che la espugna penetrandovi da una finestra.

Dopodiché la basilica venne gravemente danneggiata. 

     Intanto, papa Gregorio scongiura il Guiscardo e suo figlio Ruggero di metter fine al massacro. I Normanni decidono così di lasciare il territorio portando con se numerosi prigionieri, tra cui lo stesso Papa, che morirà poi esule a Salerno.

Roberto il Guiscardo morirà nel 1085 in Grecia, ma secondo quanto riferito da Giovanni Villani [(Firenze 1276 ca.-1348) che fu mercante, scrittore e storico, più volte priore di Firenze, ha lasciato una monumentale cronaca storica della sua città in 12 libri: la Nova Cronica.]  dietro avvertimento divino, il Guiscardo doveva morire in Gerusalemme. A questo punto, il Guiscardo, lasciato il suo regno a Ruggero, parte via mare dall’Italia in pellegrinaggio per la Terra Santa. Giunto in Grecia si ammalò nel porto che da lui prese il nome, ovvero Porto Guiscardo. Di fronte al porto vi era un’isola dove il Guiscardo si fece portare per rimettersi in forze, ma la sua salute si aggravò. Venne poi a sapere che l’isola era detta di Gerusalemme. Era quello dunque il luogo in cui doveva morire!

   Una leggenda che deve il suo debito a quella di Gerberto (Vedi sempre Graf alle pagg. 26-27).

 I Normanni proseguiranno poi con la loro conquista del sud Italia, che sarà conclusa da Ruggero in Sicilia contro i Saraceni. Ed è proprio in Trinacria che avviene un fatto strano (di cui mi narrò il professor Carnevale), in uno degli ultimi capisaldi saraceni: Erice. A Ruggero, che non riusciva a vincere la resistenza saracena, apparve in sogno San Giuliano l’Ospitaliere. Il Santo, avanzando su di un bianco destriero, vestito con un mantello rosso, tenendo in mano un falcone e con dei cani che gli correvano innanzi, era in atto di mettere in fuga i Saraceni!

Come riferito da  Raffaele Foglietti nel suo Conferenze sulla storia medioevale dell'attuale territorio maceratese…, 1885, pag. 55, nota 30: «Parrebbe che fosse stato anche in Sicilia nei pressi di Monte S. Giuliano. Il Pirri, Sicilia Sacra, fa cenno in due luoghi del fatto che nel 1079, 22 maggio, essendo la città assediata dai Saraceni, e combattendosi furiosamente tra assedianti ed assediati, il Santo apparve al Conte Ruggeri incedendo su bianco destriero, vestito con mantello color rosso, tenendo in mano un falcone, con i cani che gli correvano innanzi, ed in atto di mettere in fuga i Saraceni.» notizia tratta da Rocco Pirri, Sicilia sacra, disquisitionibus et notitiis illustrata...

Ruggero riuscì a vincere i Saraceni e cambiò il nome del paese di Erice in Monte San Giuliano, come era in origine il nome di Macerata: Poggio San Giuliano, dal nome del Santo Ospitaliere.

Una semplice coincidenza?

 

Cap.  7  -  Papi  e  imperatori

 

 

 

   Ma torniamo nelle Marche, nel Piceno.

   Negli scritti dello storico Mario Latini, che lesse un brogliaccio appartenente alla famiglia Lazzarini di Morrovalle, si legge che anticamente esisteva «un luogo detto Campomaggio, ossia, in antico, Campo di Majo, perché al tempo dei Carolingi, vi si tenevano i parlamenti o adunanze dell’esercito, dei cittadini, prelati e baroni…».

Mario Latini, Attorno al castello di Morro un giorno lontano, Pollenza, La nuova Foglio, 1972, scusate non ricordo la pagina.

Successivamente il termine «Campomaggio» dovette designare l’accampamento militare dei vari imperatori, il quale essendo mobile non sempre lo attestavano vicino ad Aquisgrana.

Ancora oggi esiste, a un paio di chilometri dalla attuale chiesa di S. Claudio al Chienti, una località chiamata Campomaggio. 

   Avvenne che nel 964 l’imperatore Ottone I, nell’assedio a Camerino, fece «Campomaggio» sotto le porte della città. Nell’antico centro si erano chiusi Adalberto e Guido, figli di Berengario II. I due fratelli riuscirono a fuggire da Camerino. Adalberto si rifugiò in Corsica, mentre Guido «nella badia di Piè de Chiento situata fra gli orrori di foltissima selva».

Notizia tratta da Patrizio SAVINI, Storia della città di Camerino narrata in compendio, Camerino 1895 (rist. anast. Camerino 2001).

Ottone I aveva fatto eleggere come capo della Chiesa, poco tempo prima, Leone VIII al posto di Giovanni XII, (Da Rendina nel suo libro del 1987, alle pagg. 139-41, veniamo a sapere che il primo Pontefice a mutare il nome di battesimo fu Giovanni II (533-535), il suo nome era Mercurio o Mercuriale, ma tale pratica divenne comune solamente a partire da Giovanni XII), Giovanni XII un papa dalla condotta immorale, tanto che si racconta della sua morte dovuta a un marito che, tornato a casa e avendolo trovato a letto con la moglie, lo buttò dalla finestra.

Per una rivolta capeggiata appunto da Giovanni, Leone dovette fuggire da Roma, riuscendo ad arrivare nelle tende dell’Imperatore ai primi di febbraio.

Dopodiché fu ospitato nel monastero della chiesa dell’Annunciata, la stessa che era stata confusa con S. Croce al Chienti.

Nel frattempo, il 14 maggio Giovanni venne sfracellato su una strada. Morto lui, Leone, non senza difficoltà, poté rientrare a Roma in giugno e il 2 ottobre concedere speciali indulgenze a S. Maria a pié di Chienti.

Questa è storia vera, ciò nonostante esiste un documento dei Regesta Pontifici, Romanorum, libro I, p. 468  ritenuto falso da tutti gli storici.  


In questo Regesto si legge che Leone il 3 aprile trascorse Pasqua insieme a Ottone I a Camerino, il 13 giugno era in «Aula regia» e il 23 dello stesso mese a Roma «in ecclesia Lateranensi», ove tenne un concilio alla presenza dell’imperatore Ottone I.

Il bello è che in questo concilio erano presenti diversi vescovi tra cui quello di Camerino, quello di Fermo e quello di Macerata Granne.

Eppure il primo vescovo di Macerata è del XIV secolo.

 

 

Cap.  8  -  Vescovi  e  assedi

 

 

 

   Esistono altre Macerata nel nostro “bel paese”.

Una è Macerata Feltria (da Giove Feretrio, così come Macerata Granne deriva da Apollo-Granno), sempre nelle Marche, un’altra vicino Napoli, Macerata Campania, un’altra ancora in provincia di Pisa. Ma il problema non è questo, perché nel documento summenzionato si fa cenno sicuramente al capoluogo marchigiano.

Il vero problema è se il primo vescovo di Macerata è del XIV secolo oppure se è solamente il primo di cui si ha notizia.

   Giuseppe Rossi condusse uno studio su San Claudio al Chienti poco più di un secolo fa, poi pubblicato su «Atti e Memorie della R. Deputazione di Storia Patria». Il Rossi intelligentemente riteneva la chiesa più antica di quanto si pensasse, egli riferisce notiziole interessanti.

In riferimento a diversi “Claudio” marchigiani, il Rossi scrive che «[…] un Claudio […] prese parte al concilio di Rimini, nell’anno 359. È detto Episcopus Provinciae Piceni, e ciò è bastato per farne un vescovo di Elvia Recina […]» (, p. 34).

Il Rossi si riferisce a Pompeo Compagnoni che nel 1661 diede alle stampe La Reggia Picena e che scrisse di questo “Claudio” come ultimo vescovo di Ricina

e primo di Macerata (sempre a pag. 34, la nota 2).

E non è finita: «Da un manoscritto (che si conserva in casa dei Marchesi Costa in Macerata) di Girolamo Carboni, del 1638, antico signore del castello di Lornano […] Vigilio sommo Pontefice assegnò per vescovo di Macerata S. Claudio fin dall’anno 545» (stavolta a pag. 37, sulla nota 1.).

    Ovvio, le notizie di questi storici sono più contrllabili, ma la domanda rimane: quale fu il primo vero vescovo di Macerata?

    A questo punto vi racconto una storia, leggenda, tradizione orale o come diavolo chiamarla riguardante un vescovo maceratese.

Una sera di alcuni anni fa, con il nostro amico Gabriele Porfiri, eravamo sotto le mura cittadine.

Il luogo e l’atmosfera sembravano giusti per parlare di archeologia e storia locale. Gabriele però uscì dal seminato e ci riferì che molto tempo addietro, in

                                                 

 

un’epoca imprecisata, arrivarono, sotto quelle stesse mura dove ci trovavamo, dei pirati dal mare a tener d’assedio la città.

A quel punto Gabriele mi parlò di un quartiere che non conoscevo, mi guardò con indulgenza, come si fa con gli imbecilli e mi disse se ero di Macerata.

NO! Sarò nato qui, ma non sono un maceratese, perché a Macerata Granne ci vivono solo coloro che se ne fregano del passato e da buon leccaculi della loro antichissima università, mi guardano come si guarda un povero demente.

E qui, nella demoscristiana Civitas Mariae, avvenne dopo la sconfitta di quel gran condottiero che fu il grande Re Gioacchino, nel 1817 proprio in questa cittadina, «[…]si arrivò a numerosi arresti, un processo e undici condanne a morte, poi commutate nel carcere a vita» (come scrive Rendina nel suo libro a pag. 752); se il maresciallo Murat fu un gran opportunista soprattutto per conservarsi il trono (ma che pienamente appoggiato dalla bella mogliettina, chi potrebbe dire il contrario?), i maceratesi non lo furono da meno.

Scusate lo sfogo! E torniamo a noi… Il quartiere è quello  della “Cocolla” (La cocolla è una sopravveste con cappuccio che alcuni ordini di frati portano sopra la tonaca.), dove vi è il Duomo, il vescovo riunì i suoi servi e altri uomini di chiesa e con dei viveri e pieni di tesori si rifugiarono nelle profonde grotte di cui è piena la collina cittadina.

Non ne uscirono mai più.

Questo episodio riferisce di un fatto di cui non ci sono documenti scritti, ma che è rimasto nella memoria orale della gente, così come quelli della “Roma” di Urbisaglia o della “Francia” picena.

Un altro piccolo esempi mi è dato dal Ponte degli schiavi, che non può riferisci al periodo antico, ma a subito dopo il periodo carolingio.


  Se prendiamo la strada per Tolentino, arriviamo a Belforte del Chienti e prendiamo la strada per San Ginesio, passeremo per Camporotondo di Fiastrone. Qui alla Contrada Colvenale, passeremo sopra al Ponte degli schiavi, che ha dato nome a un ristorantino.

   Ma quando può essere avvenuto, l’asedio a quel villaggio che era sotto il dominio di Fermo (l’altro era sotto Camerino)? Di incursioni di pirati se ne ebbero in tutti i secoli, viene in mente addirittura il pirata barbaresco Dragut,

che nel XVI secolo depredò in lungo e in largo tutto il Mediterraneo. Ma di incursioni all’interno ce ne viene in mente solo una, quella già citata sopra per re Carlo avvenuta in un’epoca, il IX secolo, in cui Macerata già esisteva, ma che non aveva ancora inglobato il colle San Giuliano, un’epoca di cui vi sono pochi, se non alcuno documento scritto.

   E quel paesino che poi divenne Macerata Grane, forse, subì un ulteriore assedio pochi anni dopo.

Nell’anno 900 fu assassinato Fulco, il metropolita di Reims, parente dei Vidoni di Camerino. Al suo posto, il re di Francia Carlo III il Semplice vi collocò un tal Eriveo. Ma Erembaldo, nemico di Eriveo, si era impadronito dell’oppidum quod vocant Macerias, feudo dell’archidiocesi di Reims. Eriveo organizzò una spedizione da Reims, per riprendere l’oppidum. Dopo un mese di assedio Maceriae si arrese ed Erembaldo, sfuggito all’assedio, andò in esilio.

Vedi il libro del professor Carnevale del 2002, a pag. 34, alla nota 52

La storiografia ha identificato Maceriae con Mezière in Francia, ma come appunto scrive il Professore: «è un’identificazione fatta “a orecchio”». In questa cronaca degna dei libri di Robin Hood, l’identificazione con Macerata è più fondata, soprattutto pensando che vi è di mezzo la famiglia imperiale di Camerino.

Guido, di origine bretone, ereditò il titolo del padre e divenne Marchese di Camerino e duca di Spoleto e sposò la principessa di Benevento Ageltrude e insieme al loro figliolo Lamberto nel 891 divennero Imperatori.

    L’imperatore Lamberto morì ammazzato nella foresta di Mastrengo,  il 14 ottobre dell’898, all’età di diciotto anni, senza eredi. In seguito alla morte del figlio, l’imperatrice Ageltrude si ritirò in monastero, dopo aver fatto costruire l’abbazia di Rambona a Pollenza. Che sia stata lei a farla costruire è accertato da un bel dittico in avorio conservato nel Museo Sacro Vaticano. Inoltre, sempre lei fece costruire un altro monastero a Fiume, in antico, dove vi era una grotta-romitorio dedicata a S. Michele Arcangelo, patrono dei Longobardi. Il luogo fu probabile cripta di un antico monastero che, secondo quanto riportato sulla lapide inserita nella facciata della chiesa, nel 1148 divenne monastero benedettino. Oggi il luogo è noto come Eremo Santuario di Sant’Angelo in Prefoglio.

Notizie tratte da Angelo Antonio Bittarelli, Itinerario storico - artistico, estr. da «Pieve Torina», Recanati, Micheloni, 1979., pagg. 174-79; ed anche Andrea Antinori, I sentieri del silenzio, Folignano, Società Editrice Ricerche, 1997, pagg. 88-95.  

Fiume è una frazione di Pievetorina, ed è interessante notare, come riferisce Aldo A. Settia, Chiese, strade e fortezze nell'Italia medievale, Roma, Herder, 1991 (Italia sacra, 46), alle pagg. 140-41, che negli anni tra il 568 e il 570 papa Pelagio scriveva al vescovo di Camerino pregandolo di interessarsi della «Turinas ecclesia», già allora posta ai limiti della giurisdizione vescovile spoletina in direzione di Camerino. In seguito, nel secolo XVI Pievetorina fu incorporata nella diocesi di Camerino.

Non solo l’Imperatrice realizzò una basilica dedicata a San Nicomede a Fontana Brocoli, frazione di Salsomaggiore Terme

Notizia tratta da Leporace, pagg. 77, 79.  

 

  Fermiamoci ancora a Pieve Torina che, mi sembra si sia gemellata in un solo comune con Pive Bovigliana chiamandosi Val Fornace.

Scriveva il professor Carnevale a pag. 30 del suo bel libro del 1999, probabilmente, il miglior libro che ha scritto, sia da quelli scritti da solo, sia da suoi collaboratori.

«Pochi anni dopo la morte di Carlo Magno, Claudio vescovo di Torino scriveva: “Appena divenuto vescovo, come son cresciuti i miei impegni… D’inverno, quando devo correre su e giù per le strade che portano al “Palatium”, non posso applicarmi ai miei amati studi. E da metà primavera devo prendere con le mie pergamene anche le armi e devo muovermi lungo la costa, in guerra controSaraceni e Mori. Di notte combatto, di giorno maneggio la penna e i libri...”. (M.G.H. Epistolae IV, p. 601, n. 6)

Il passo, quando lo lessi la prima volta, mi parve sconcertante. In inverno, su e giù tra Torino e Aquisgrana! Inconcepibile, anche prescindendo da dove fosse Aquisgrana, se in Val di Chienti o ad Aachen. Ma poi ho scoperto che in Val di Chienti c’era una civitas chiamata Torino e Claudio era evidentemente vescovo diquesta Torino, che oggi si chiama Pieve Torina. Sia Aquisgrana che il mare erano lì a breve distanza e gli andirivieni invernali si spiegano col fatto che Ludovico il Pio svernava abitualmente ad Aquisgrana.»

  e sempre sui dintorni di Pieve Torina…

   Verso la metà del XII secolo era diffusa in Francia l’opera De vita Caroli magni et Rolandi, attribuita al vescovo  Turpino, in cui compare il toponimo di Soricinio e Galliano abbazie carolingie.

Fu una scoperta – mi disse il professore – di Giovanni Scoccianti, e visto che ormai ha abbandonato del tutto l’ipotesi di Aquisgrana in Val di Chienti, mi sento autorizzato a parlarne.

«Et Karolus conquestus fuit ei de Abbate Soricinio, et de Galliano, et de multis aliis, qui non venerant in adjumentum ipsius Narbonam, asserens quod Pater suus Pipinus aedificaverat monasterium suum Soricinium, et ipse reaedificaverat, et multa ei contulerat ; quare Abbas ad eum debuisset venisse cum toto suo posse, ex quo scivit eum Narbonam veraciter obsedisse. Et Falco respondit ei: quicquid vobis placuerit faciet ; et quilibet eorum cum toto posse suo veniet et in brevi.»

Vedi De vita Caroli Magni et Rolandi Historia a cura di Sebastiano Ciampi, Firenze 1822, pag. 81.

Carlo Magno, nel 778, stava assediando Narbona e si era sdegnato perché l’abate di Soricinio, quello di Galliano e molti altri non avevano contribuito col loro aiuto all’assedio della città nel 778, anno della spedizione di Carlo Magno nella Spagna dei Mori. In quell’anno, mentre Carlo assediava Narbona, l’abate di Soricinium (identificato con la francese Sorèze) e molti altri abati, tra cui quello di Galliano, non portarono rinforzi al Re che, e ci dice lo Pseudo Turpino, tanto da sollevare la sua indignazione. La campagna di Spagna si chiuse per il Sovrano franco infelicemente, come è ben noto, e questi una volta rientrato in Aquisgrana dovette privare l’abate di Soricinium di tutti i beni prediali di cui l’aveva dotato suo padre Pipino, e lo stesso fece con Galliano, oggi solo Gallano. Anche se il suo toponimo originale è ricordato da due vie presenti, sia a Visso (splendido centro dalle oscuri origini ma che dovrebbero risalire all’VIII secolo) che a Camerino.

   Per quanto riguarda Soricinio scriveva ancora il Professore in uno scritto Documento rilasciato da Pipino nel suo settimo anno di regno per la fondazione del monastero di Soricinium, che ritengo ancora inedito, che conservo nel mio cervellone (il Professore mi diede un po’ dei suoi scritti, prima che mi allontanasse) «[…] sulla localizzazione di Soricinium abbiamo validi elementi per collocarlo in Val di Chienti e correggere così l’unico errore in cui caddero nel 1391, identificandolo con Soreze. […]Dalle ricerche da noi effettuate, risulta però che l’abbazia di Soricinium  fu fondata da Pipino il Breve nell’attuale Val di Chienti.

   La nascente abbazia sorgeva su di un territorio dipendente da un castrum chiamato verdinius e veniva da lui dotata di ampi fondi prediali che occupavano buona parte del versante sud della valle e cioè Villamagnus, e la contigua Villapinta, tutti questi toponimi sono ancora esistenti nella zona: il termine verdinius è ancora vivo in Casette Verdini, il castrum, all’arrivo dei cistercensi nel sec. XII, fu da essi trasformato in grancia col nome Castello della Rancia, a Villamagna la sovrintendenza di Ancona da qualche anno sta effettuando  una campagna di scavi, e contigua ad essa c’è la località Pinto, derivata evidentemente da Pinta. In quest’ottica si colloca perfettamente la localizzazione di Soricinium che nelle più antiche carte fiastrensi è citato col nome volgare di Sorrecciano, Sorciano, e Sarrocciano, ancor oggi in uso (Vedi O. Gentili, L’abbazia di Chiaravalle di Fiastra, a pag. 72.).»

Vorrei precisare che questo scritto del professore è anteriore, almeno al 2014…

 

   Passiamo a Goffredo di Buglione, l’autore della prima crociata, era nominalmente duca di Spoleto e Camerino.

La notizia viene dal Professore nel suo libro del 2002, alle pagg. 53-54.

Dopo le lotte contro papa Gregorio VII, Goffredo, ritornato nelle grazie della zia Matilde, ufficialmente duchessa di Spoleto, [Matilde regnò dal 1073 al 1115, prima con suo marito Goffredo il Gobbo e poi da vedova. Prima di Matilde, dal 1070 al 1073, regnò la madre Beatrice, vedova di Goffredo il Barbuto. Interessante notare che papa Vittore II (1055-1057) nel 1056 fu nominato da Enrico III reggente dell’Impero ed ebbe anche il titolo di duca di Spoleto, che passò nel 1059 a Goffredo il Barbuto. (Notizia ripresa da Savini, a  pag. 219)] parte per Gerusalemme.

Il Professore si spinge più in là aprendo prospettive sorprendenti sulla preparazione della prima crociata da parte di Urbano II, che qui tralasciamo. Ma segnala anche che a Campi, «frazione rurale di Camerino, c’è una torre databile nei secc. XI-XII e strutturata alla sommità in modo da poter accogliere colombi viaggiatori in arrivo. Completa il complesso un edificio che nella parte più antica presenta, scolpiti sulle finestre a pian terreno, emblemi con la rosa o la croce, dunque dei “Rosacroce” (i Rosacroce potrebbero essere solo l’invenzione goliardica di studenti del ‘700 o più probabilmente i futuri Templari; a proposito Aristide Conti, Camerino e i suoi dintorni, Camerino, Cortesi, 1872 (rist. anast. Macerata, Aquis Chienti, 2007)., pp. 264-65, riferisce che la chiesa di S. Domenico a Camerino appartenne ai Templari.).

Ce n’è a sufficienza per ipotizzare una rete informativa che collegava alla Val di Chienti altre stazioni di colombi viaggiatori, in Europa o con la Palestina».

Vedi il professore nel suo libro del 2002, a pag. 54, nota 104. Il paese di Campi, nel testo originale, viene erroneamente indicato come Fiegni; nelle ristampe è stato corretto dal sottoscritto.

   Un’ultima aggiunta: i templari, mi disse Claudio (che insieme a Diego e una particolare professore di cartografia medievale sta facendo un gran studio su Vespucci), ricevevano notizie dalla cosiddetta Terrasanta, tramite piccioni viaggiatori che arrivavano a Saint Omer, in France… oppure a… S, Omero, sotto Ascoli, nel teramano, nella Francia delle origini?

 

  Torniamo sul Bacci. Nei suoi scritti l’Autore parla della grande e vittoriosa battaglia che Carlo Magno sostenne contro i Saraceni e per la quale edificò Santa Croce al Chienti. Subito dopo, parla dei resti del «Palazzo di Re Carlo». Continua dicendo che sempre Carlo Magno volle costruire una chiesa «ad onore di Maria Vergine».

Bacci, nel suo libro alle pagg. 24-25, identifica questa chiesa con «S. Maria a pié di Chienti».

Ma il primo possibile riferimento a questa chiesa è in un documento farfense del 936.

Solo che si parla non di una chiesa ma della cella monastica di «Sancte Marie juxta flumen Clentis».

    Grazie a quel straordinario e formidabile ricercatore che era il professor Febo Allevi, ho saputo che dopo il crollo dello stato centrale, il Piceno (e tutti i territori controllati da Roma) al posto delle antiche città, si riempì di abbazie, di celle. Per cella si intendeva, in senso sacro e profano, un piccolo centro abitato per lo sfruttamento agricolo o per l’allevamento del bestiame (ricordate… Pieve Torina, Pieve Bovigliana) e una cappelletta con un piccolo oratorio diretto da un monaco.

Notizia riprese dal suo splendido libro del 1965, Con Dante e la Sibilla ed altri, dagli antichi al volgare, ma scusate non ricordo la pagina.

 

Cucciolo & Beppe vanno a Rambona. Dal mio secondo Pipo

 

Per le notizie sulla chiesa, vedete sia la Chronicon Farfense, I, p. 38. Confrontate poi con Giuseppe Avarucci, Epigrafi medievali nella chiesa di S. Maria a Pie’ di Chienti, in «‘Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia’ dell’Università di Macerata», VIII (1975), a pag. 85; Delio Pacini, La pieve di San Lorenzo ed altre istituzioni medievali a Montecosaro, in AA.VV., Montecosaro. Percorsi di storia, Montecosaro, Comune di Montecosaro, 1995, alle pagg. 94-95.

L’attuale chiesa risale al XII secolo, come attesta un’iscrizione datata 1125. Realizzata in stile cluniacense con deambulatorio a cappelle raggianti (unico esempio marchigiano), schema architettonico adottato per meglio venerare delle importanti reliquie. Nel corso di lavori di restauro effettuati negli anni ’20 del nostro ‘900, si rinvenne, nei pressi dell’antico altare, una capsella con all’interno quattro contenitori per reliquie. La capsella presenta sulle pareti dei nomi graffiti, che per l’aspetto paleografico, secondo Avarucci, alle pagg. 90-91, si possono datare tra la fine dell’XI e l’inizio del XII secolo.

Ma Francesco Laureati, Storia ed Arte in terra di Montecosaro, Macerata, Ente provinciale per il Turismo, 1969., pp. 33-34, riferendosi al professor Amedeo Ricci, le fa risalire al secolo IX o X. Tra i graffiti figura un presbitero di nome Fulco, che – guarda, guarda o Tiens, tiens (come nelle BD populares de Blek le Roc – ci ricorda l’arcivescovo di Reims, parente dell’imperatore Guido. 

Per approfondimenti su origini, caratteri tipologici e stilistici della chiesa di S. Maria a pié di Chienti si veda Raffaella Cortese, L’Abbazia di S. Maria a pié di Chienti, Roma, Gabrieli, 1995.

    Ora torniamo a Bacci. Egli deve avere avuto notizie di prima mano, ma le ha interpretate un po’ male, infatti confonde Carlo Magno con Carlo il Grosso e quando parlava della chiesa di «Maria Vergine» è molto probabile si riferisse alla cappella palatina di Sancta Maria Mater Domini, poi traslata in Germania da Federico Barbarossa e oggi nota come San Claudio al Chienti.

    Su Sancta Maria Mater Domini ne parla il professor Carnevale nel suo libro del 1999, a pag. 131, in cui si parla della Translatio Imperii, ossia del trasferimento della primitiva sede imperiale di Aquisgrana dall’Italia alla Germania.

Torniamo a parlare di questa piccola cittadina chiamata Macerata, in dialetto è chiamata “Macerata Granne”, evidenziando un passato grandioso che non è mai esistito.

Del resto, tra le prime notizie su Macerata c’è una novella del Sacchetti in cui Macerata viene ricordata per l’allagamento del paese dovuto all’ostruzione di

una… fogna!

  Episodio riferito nel suo Trecentonovelle, alla novella CXXXII. Franco Sacchetti (Ragusa, Dalmazia, 1332 -  San Miniato, Pisa, 1400) fu poeta e scrittore italiano.

Macerata Feltria – come ho già scritto più sopra – deriva da Giove Feretrio, allora cerchiamo l’origine di quel “Granne” nell’antichità.      

  Quando i signori del Castello di Ajano costruirono Santa Maria in Selva, lo fecero nel «planu de Ara Grani», cioè in una radura nella foresta chiamata “pianoro dell’altare di Granno”.

Dopo il trionfo del cristianesimo, sul versante destro del Potenza i pagani, ovvero i contadini dei pagi, i villaggi, avevano tramandato il culto della Dea Bona, mentre i pagani del versante sinistro avevano tramandato il culto del Dio Granno in un lucus, bosco, a lui sacro.

Questo sempre da una ricerca del prof. Giovanni Carnevale su Santa Maria in Selva.

   Il dio Apollo-Granno doveva avere il suo santuario in quel centro cultuale in cui vi erano teatro e anfiteatro destinati a far divertire i pellegrini, dove Carlo Magno costruì la “nuova Roma”, ovvero nella cosiddetta città romana di Urbisaglia. Il ricordo delle acque curative di Granno, con cui lo stesso sofferente imperatore Caracalla cercò di curarsi (Lo dice Dione Cassio, nel suo Hist. Rom., LXXVII, 15.), diede origine al nome di Aquisgrana e al nome di Macerata Granne.

Riguardo la collocazione topografica della Urbs Salvia romana presso la località Pian di Pieca di Macerata, nei pressi dell’attuale paese di Sarnano, la antica Servana, ritorniamo a quanto riferito più sopra riguardo l’ubicazione di una “Salvi rovinata” in cartine sei-settecentesche.

A tal proposito, ci viene in aiuto uno scritto cinquecentesco in cui si fa menzione della antica «Salvia» romana posta a cinque miglia da «Servana», esattamente sul luogo della attuale Pian di Pieca. Vengono altresì menzionate le rovine di «Salvia», l’attuale Urbs Salvia, quel centro cultuale poc’anzi menzionato, ai piedi dell’odierno paese di Urbisaglia, ed esattamente a tre miglia di distanza vengono collocate le «ruine del gran monasterio di Chiaravalle», ovvero la località dell’attuale Abbazia di S. Maria di Chiaravalle di Fiastra:

«[…] sopra ne primi colli de l’Apennino è san Genesio, terra non mica trista; presso la quale, ma più a dentro è Servana; fra le quali due terre è il piano di Plica; dove presso nasce il torrente Letovivo, cinque miglia sotto Servana a canto a questo torrente è una antica citta chiamata gia Salvia; dove si veggano molte gran ruine di edificy antichi; tra i quali egli è certo che vi furono tre teatri, ma non troviamo ne a che tempo, ne da chi fusse questa citta edificata; e fuora che in Plinio, e ne la nostra historia di Gotti, non è troppo presso gli antichi il suo nome mentionato; hora in un cantone de le tante ruine sue è una terra, che serva il nome antico, ma corrotto, di lei, tre miglia sotto queste ruine di Salvia presso a Letovivo si veggono le ruine del gran monasterio di Chiaravalle […]».

Vedi Flavio Biondo, Roma ristaurata, et Italia illustrata, traduz. in volgare di Lucio Fauno, Venezia 1543 (ediz. orig. in latino Italia illustrata, Verona 1482), a  p. 129; tutt’oggi presente in rete.

 

 

Cap.  9  -  I  paladini

 

 

 

    E’ ora torniamo a parlare di Orlando (o Rolando), paladino di Carlo Magno, e delle saghe epico cavalleresche che ritroviamo nei “pupi siciliani”.

   Orlando, nipote di Carlo Magno, ricordate bene, secondo la tradizione sarebbe nato in una grotta a Sutri, lungo la strada per Roma.

   A Monterubbiano, nel fermano, si tramanda la leggenda secondo cui il conte Orlando Paladino entrò in paese nel 787 dopo la vittoria su Argiso, duca di Benevento. Questo secondo quanto riferito nella Relazione di Monte Robbiano di Luigi Centanni, a cura di, Bollettino Storico Monterubbianese, Anno I - n. 4, Monterubbiano 1903, alle pagg. 57-58..

  La leggenda acquista fondamento storico perché, sempre secondo il Laurenzi, esisteva ancora all’epoca «un’iscrizione d’una pietra in lettere antiche, che stava in un Pilastro alla Porta del Pero di là del Girone». Sulla lapide era scritto:

 

Urbem, quam cernis fundatam vertice montis

Ingredere, o felix tum venerare Comes.

Dicitur Urbana, Urbanam sic dicito gentem,

Stellantis Regis sub ditione vigens.

 

 

 

(Entra, o fortunato Conte, e venera la città

che vedi fondata sul vertice del monte.

Essa si chiama Urbana, così tu chiama

Urbana la sua gente, prosperante sotto la

protezione del Re Stellante - Giove)

 

 

 

Considerato che a introdurre i conti in Italia fu lo stesso Carlo Magno, ergo il conte riferito nella iscrizione dovrebbe essere lo stesso Orlando.

  Su Orlando vi è un’altra leggenda viva fra gli abitanti di Montefiore dell’Aso, in provincia di Ascoli Piceno, che fu considerata e riferita come storia vera dagli Statuti del Comune del 1569.

Nel colle chiamato di Aspromonte, […], Almonte re di Spagna, nudato il capo dell’elmo e chinatosi ad una sorgiva per dissetarsi, fu ucciso da Orlando: a ciò allude anche l’Ariosto (XXVII, 54) ricordando il quartier d’Almonte, 

 

Che a quel meschin fu tolto ad una fonte,

Dal giovinetto Orlando in Aspromonte.

 

Del che, prosegue lo Statuto, può far fede una polla d’acqua limpidissima che fin da tempi remoti ha conservato e conserva il nome di “Fonte d’Aspromonte”. […] lì presso si innalzava un olmo gigantesco, detto l’Olmo di Orlando, presso cui il Paladino legò il cavallo dopo la vittoria […]».

Notizia tratta da Guido Vitaletti, Dolce terra di Marca…, Milano, Casa Editrice Scolastica Luigi Trevisini, s.d., alle pagg. 143-44.   

    Il professor Allevi riferisce che la «carta 163a del 1177, […], ci dà un Aspromonte (in pertinentia Aspromonte), località posta lungo la linea Osimo-

Recanati da Ricina».

Vedi il suo libro del ’65,  a pag. 298

    Proseguiamo con un altro Paladino o Capitano di Ventura dell’epoca di Carlo Magno.

Lotario, questo il suo nome, si innamorò, ricambiato, di Imelda figlia di Eufemio, feudatario di Ascoli Piceno. Il Paladino, essendo forte ma diseredato, fu ostacolato nel suo amore dal padre della fanciulla, che la rinchiuse in un convento. Lotario, per salvarsi dai sicari di Eufemio, si rifugiò sui monti. Passato un anno nella disperazione, Imelda morì di crepacuore. Il Cavaliere, infuriato, galoppò verso il castello del tiranno, penetratovi di viva forza, affrontò il feudatario in una lunga lotta estenuante. All’alba Lotario uscì dal castello con la spada insanguinata, ormai sazio di vendetta. Egli sparì

senza lasciar traccia.

Molto tempo dopo, in una capanna tra una boscaglia, si sentiva un mormorio di preghiera che si confondeva con quello delle acque del Chienti e dell’Ete.

L’eremita era Lotario. Presto altre capanne di eremiti sorsero affianco alla sua, finché Teodosio, vescovo di Fermo, non ordinò di abbatterle tutte insieme alla boscaglia che le nascondeva per farvi sorgere una badia, di cui Lotario ne divenne il capo.

   Narrazione riferita da Nicola Leoni, nel suo Leggende marchigiane, Senigallia 1962 (i Quaderni de “la famiglia marchigiana”), alle pagg. 23-25.

   Questa è la leggenda che si narrava per la nascita di Santa Croce al Chienti o all’Ete, la chiesa sorta sulle fondamenta del monastero ad indam nel quale visse S. Benedetto di Aniane, che mise su carta le Regole di S. Benedetto da Norcia (bella fantasia, vero?).

Con il Concilio di Aquisgrana, tenuto nell’817 in Laterano, le Regole di San Benedetto vennero imposte a tutte le abbazie dell’Impero.

   All’epoca i nobili, oltre agli uomini di chiesa, ricevevano un’istruzione. Chissà che Lotario non sia stato lo stesso S. Benedetto di Aniane!

   Leggendo di Paladini veniamo a sapere che «i santi pellegrini Amico e Amelio, sepolti a Mortara (in prov. di Pavia, n.d.A), vennero trasfigurati in paladini carolingi caduti nell’immaginaria battaglia di Silvabella».

Vedi  Aldo A. Settia, Chiese, strade e fortezze nell'Italia medievale, Roma, Herder, 1991 (Italia sacra, 46)., p. 306.

   Colucci, riferendosi al Bacci, scrive che i Longobardi venivano equiparati per la loro ferocia ai Saraceni. Come Colucci ritengo, dunque, che i Longobardi possano essere stati confusi con i Saraceni (Giuseppe Colucci, Antichità Picene, XVIII, Fermo 1793, a pag. 45.), ne abbiamo conferma da un’altra leggenda riguardante Orlando.

Nel 776 Carlo Magno dovette affrontare una rivolta dei Longobardi, da lui già vinti e ora insorti a Treviso sotto il comando di Rotgaudo, duca del Friuli. La leggenda attribuì l’impresa a Orlando e trasformò i Longobardi in Saraceni.

Presso la città, fino al ‘600 era ancora in piedi una torre (ma quante ne aveva) chiamata Torre di Orlando, ancora oggi vi è una strada detta di Orlando dove c’è una chiesetta che il Paladino consacrò a S. Michele Arcangelo (a conferma di ciò, sulla facciata vi è un’iscrizione latina).

Vedi Guida all’Italia leggendaria, misteriosa, insolita, fantastica, di autori vari, Milano 1966. Ma comunque gli studi sulle presenze carolingie su suolo italico ve ne sono molti altri…

    Però, come mai ci interessa il fatto che i Longobardi siano stati confusi con i Saraceni? Se non ricordiamo male, i Saraceni erano coloro che avevano fatto fuori Orlando a Roncisvalle.

Bien, A Osimo «si pensa che possa essere un toponimo romano anche la odierna denominazione di Roncisvalle data alla contrada fuori la città […], nella zona di nord-ovest di essa, ove […] sorse già la chiesa primitiva osimana di S. Fiorenzo, ora continuata da quella del Crocifisso […]. Il termine

Roncisvalle verrebbe spiegato infatti come una voce corrotta e volgarizzata di una forma latina Roscivallis, ossia “Valle di Roscio”».

Notizia ripresa da Gino Vinicio Gentili, Avximvm (Osimo), Regio V - Picenvm, Roma, Istituto nazionale di studi romani, 1955 (Italia romana: municipi e colonie, Serie I - Vol. XV), alle pagg. 117-18.

   Ad Osimo, secondo la wiki, vi è anche la Via Roncisvalle, conosciuta localmente come la… Gattara, termina che indica una signora che dà da mangiare ai gatti.

Ma su Roncisvalle ne parleremo più avanti…

   Eginardo (uno dei biografi di Carlo Magno) su Orlando è molto preciso, egli parla di Spagna e di Baschi ed è considerato più che attendibile dagli storici, eppure…   

                                                

   Ecco un’altra piccola assurdità ereditata dai “secoli bui” del Medioevo. Nella Chanson de Roland, il cui testo è stato scovato in rete, sempre imperniata sul nostro paladino morto a Roncisvalle sui Pirenei, si legge:     

 

 

Charles dort, le puissant empereur.

Il rêva qu’il était dans le grand défilé de Cize

 

Carlo dorme, il potente imperatore.

Lui sogna di aver già varcato il passo della Cisa

 

 

 

   La canzone è stata scritta almeno 300 anni dopo la morte di Carlo, ma ancora oggi vi è qualcosa che non torna. Il passo della Cisa si trova in Italia, tra la Toscana e l’Emilia Romagna, tra Firenze e Bologna per intenderci. 

  Perché per tornare a casa l’imperatore deve passare in Italia? Forse perché Aquisgrana, l’originale Aquisgrana, era qui e non in Germania.

E, in ultima analisi, si dovrebbe togliere il forse.

 


“La morte di Orlando”.

(da: La canzone d’Orlando, traduz. it. a cura di G. L. Passerini,

Città di Castello, s.d., XX secolo)

 

    Ma… c’è un ma! Su la batalla de Roncesvalles vi è un testo scritto nel 1929 da un bibliotecario della Real Colegiata, Agapito Martínez Alegría.

 

 

pag. 23 «Collocato Roncesvalles a 962 metri sopra al livello del mare […] Nella stessa località [da Burguete] finisce la spianata e con inizia la gola dell’Ibañeta, passaggio obbligato in questi Pirenei [Pirineos], che attualmente sale ai ruderi della cappella di Carlo Magno e nella antichità saliva al passo [puerto de Cisa] della Cisa (collo di Lepoeder [cuello de Lepoeder]). Questa gola è lo scenario storico della cantata e celeberrima sconfitta dei Franchi, il 15 agosto, dell’anno 778

[…]

pag. 26 “Secondo un vecchio detto a Roncesvalles di solito ci sono otto mesi d’inverno e quattro d’inferno, perché la sua estate è come di passaggio e non vi è posto così scuro se non per la nebbia”.»

da pag. 31 La prima, impropriamente chiamata "battaglia", ma, in realtà non fu altro che un’imboscata o sorpresa guerresca, in cui i Vasconi [Vascones], senza dare ai Franchi il tempo di entrare in ordine di battaglia, li sorpresero sulle pendici meridionali dell’Atzobiskar, [Tra le vette del massiccio spicca la vetta dell’Orzanzurieta (1.570 metri), chiamato Orçiren çorita nel XIII secolo. Il passo Astobiskar (1.507 mas.) sorveglia da sud-est il fosso meridionale della valle, osservando l'alta strada che passa attraverso il suo versante orientale. V. pag. 111 de El mito del camino alto entre Roncesvalles y Saint-Jean-Pied-de-Port, di JOSÉ M.a JIMENO JURIO in rete] li costrinsero a ritirarsi lungo le pendici dell’Ibañeía e li schiacciarono nella piana di Roncisvalle. […]

La seconda azione guerresca ebbe luogo dopo la morte di Carlo Magno, nell’anno 824, tra i Vasconi e gli Agarenos uniti, contro i conti, Eblo e Aznar-Sánchez, entrambi del Ducato d’Aquitania e il secondo discendente dei duchi di Vasconia.

 […]

p.32

L’Astronomo nella sua opera: Vita di Ludovico il Pio [cap. XXIII de «Vita Ludovici Pii»], assicura che “ passata l’estate, dell’812, il re (Ludovico) si decise a passare i difficili passi dei Pirenei e, senza grandi difficoltà, arrivó a 'Pamplona per assicurarsi in Vasconia il suo regno e stabilire il suo dominio in esso dove si stavano ribellando i duchi baschi».

[…]

p. 34

risultato della grande sconfitta del 778, ci fu un periodo, in cui i Vasconi sembrano però essersi sottomessi ai Franchi ma solo in apparenza, in realtà restarono subito indipendenti; Ora si allearono con gli arabi; (i Muladi [muladíes, nella Spagna musulmana, 'cristiano converso al islam'] aragonesi) […] ora con essi, ma seconda delle convenienze»

Ma ciò che risulta più interessante è la nota a pag. 33…

« Questo nome che secondo Huarte nel suo manoscritto “Silva de varia liccion” si menziona per la prima volta in San Antonino de Florencia descrivendo la Rota de Roncesvalles, ha subito numerose trasformazioni: Sempre Huarte nel foglio 41 scrive: “È una tradizione molto antica che il famoso Giulio Cesare dopo che conquistato la Gallia, che oggi è la Francia, venne molte volte in Spagna nei viaggi di andata e ritorno attraverso gli stessi passi [puertos] e che ha dato loro il suo nome chiamandoli "Cessáreos". Dopo corrompendo un po’ il vocabolo, sono chiamati Cisséreos, come li chiama Sant’Antonino de Florencia scrivendo la Rota de Carlo Magno en Roncesvalles: da dove i terreni ad essi confinanti, dalla parte della Francia, si chiamano la terra di Cissa il cui capo è la città di Sn. Joan", e a pagina 44 aggiunge: "Dopo sette giorni che il duca d’Alba si fermò a Roncesvalles andò a San Juan e portò l’artiglieria [è scritto proprio artillería, bo? Sarà l’esercito, l’armata…] in alto della sierra Cissérea e dalla sua collina che inizia in Altovizcarr, e quella collina dura fino alla cayda de la venta di Arizún in tre leghe di percorso...» e nel foglio 50, continua: «L’indomani era il 10 luglio: all’alba udì messa e salì con tutta la cavalleria al puerto Cisséreo o Cessáreo di «garazvizcay», i cui monti e le sue estremità sono molto diversi e del tutto separati da Alduyde, però l’avidità umana può così tanto che i baygorrianos li hanno rivendicati senza alcuna ragione o giustizia. Inizia il puerto Cisséreo sopra Roncesvalles in un passo chiamato Altovizcarr, dalla salita lunga, anche se non molto accidentata...» sulla via è il passo della fonte di Iturri (detto anche Roldan) dove il conte di Echauz ed i Baygorrianos fecero l’imboscata della quale è stato scritto e arrivò fino alla punta di baycarrataca fine della giurisdizione della Spagna da dove un quarto di lega più avanti è nei Vascos l’antico castello del Peñón distrutto da il Duca d’Alba nel 1512 come quello di San Joan.» Tutto quanto sopra è conforme al "Codex Compostela", che chiama questi monti “Portus Ciserae”, Puerto de Cissa, e soprattutto con le cronache arabe che la chiamano "Bor Schezaroun" Puerta de Cesar.

   Sappiamo già, quindi, senza dubbio alcuno, cos’è il Puerto de Cissa: il passo che oggi chiamiamo Lepoeder, cioè un’apertura di Atzobizkar prossima a Ortzanzurieta: e quali sono i monti Ciséreos che iniziano nel detto passo e si dirigono per Elizeachar-Bentartea, castillo del peñón, Venta e l’ermita [eremitaggio] de Orissún (Sta. Magdalena de Orisón, fino a de Saint Michel (San Miguel).»

 



Un’ultima cosa sulla composizione dell’esercito franco…

p. 53-54 «Il suo esercito era composto, secondo analisti contemporanei, da 40.000 uomini a piedi e a cavallo. L’abate di Prum (Germania), che scrisse i suoi annali nel 908, dice: “Al suo ritorno, dopo aver cacciato i Saraceni da Pamplona e averne distrutte le mura, tornò in Francia soggiogato; i Vasconi [Reginus Prúmi Abbas Chron ad annum 778 (Petz Monumentorum German. Historia t.1)].

Eghinardo (D. Bouquet: tomo V) «Cuyus muros ne rebellare posset ad solum usque dextruxit ac regredi statuens Pyrenaei saltum ingresus est.»

[…] Continuando la sua marcia, entrò nella gola di Ronçabal (Roncesvalles), senza aver trovato in il suo cammino né nemici né segno di ribellione»

Lafuente: «Historia de España» tomo II, pág. 177.

E inizia l’imboscata…

«“I lamenti e le urla dei soldati di Carlo Magno, morente, si confondevano con le grida dei Vasconi; e rimbombando negli anfratti e nei gole accrescevano il terrore della scena cruenta». Nella conca finirono di schiacciare tutto l’esercito; lì perì Eghiardo, maggiordomo della mensa del re, vi morì Anselmo conte del palazzo, là Rolando l’eroico Prefetto delle Maree dei Bretoni; là infine fu sepolto il fiore della nobiltà e della cavalleria franca, senza che il loro re Carlo potesse farlo tornare per l’onore delle loro bandiere o vendicare così dura aggressione.” scrive Eginardo «Questa sconfitta non si poteva allora vendicare, perché il nemico, dopo aver terminato l’ultimo dei soldati della retroguardia, scomparvero come per incantesimo; in maniera tale che non si udiva una voce neppure si poteva rintracciata la sua posizione.»

E l’autore del libro conclude a pag. 58 «Come si vede, il valoroso, rozzo ed inatteso attacco dei Vasconi, non fu altro che un terribile atto di rappresaglia contro il re franco e i suoi soldati, per aver smantellato la loro città-fortezza e averli lasciati inermi contro i Saraceni, i quali, non smisero di infastidirli con le loro irruzioni.»

E in più…

da pag. 77 in poi «dicono..., che il 15 agosto, di notte, ogni anno, legioni di spiriti, ripetete in questi pendii e in questa conca, il simulacro di quelle scene bellicose e sanguinarie... Quando le ombre della notte avvolgono con la loro oscurità questa gola, comincia a farsi sentire lontano... lontano... il rumore di eserciti armati, in avvicinamento che vengono alla gola; nella cavità l’eco ripete l’abbaiare allarmante del grosso cane, che fa la guardia alla cascina; sulle creste della montagna, appena appaiono e subito scompaiono, alcune sagome bianche, con frecce sulle spalle, dalla cui cintola pende un corno di toro e portano una lancia alta il doppio di loro. E quel rumore lontano si avvicina; e comunque da Ibañeta, e dal pendio Atzobiskar, salgono, lentamente, stanchi, ansanti dei soldati, sopportando il peso del loro bagaglio e delle loro armi; arrivano già a cuello de Lepoeder, son già ial puerto de Cisa; Già respirano l’aria della loro patria!

    Ma che confusione è quella? il irrintzi, tremulo e penetrante,soffia di montagna in montagna: il fragore del corno, rimbomba come un tuono negli anfratti e nelle curve, e si vedono cadere dalle vette, come folgore, come fossero enormi strati di neve, interminabili gruppi di fantasmi, che seppelliscono sotto il loro candore le vistose file di guerrieri incuranti...; Ah, che agonia! Che urla di dolore! Di morte!

[…]

...Sono le dodici di sera:...il 15 è passato e con essa sono scomparse, come per incanto, tutti i fantasmi guerrieri.»

 

   Comunque mi sembra che giganteggia sempre di più Giulio Cesare su Carlo Magno… e peste lo colga chi dice che aveva diverse tendenze (non diceva egli stesso “si sparli, purché si parli), alla faccia di quella linguaccia di Svetonio…

  

Ma torniamo a noi. Così dopo due “Roma”, due “Aquisgrana”, ci sono ben due passi della Cisa! E ditemi… resterete sconvolti se vi dicessi che ci sono (e non parlo di “Valle di Roscio” ad Osimo) due Roncisvalle? Per non dire di due Monti Bove?

 

 



Foto ripresa da Angelo Passuello - Storico dell'arte, in Facebook 15 dicembre 2019

in cui scrive « L’arma racchiudeva nell'elsa un dente di san Pietro, il sangue di san Basilio, alcuni capelli di san Dionigi e un lembo di veste della Madonna.»

 

Intanto Agapito a pag. 92, parla della spada di Orlando…

«La famosa spada si chiama "Durindana" per italiani e spagnoli; "Durenda", nella cronaca del falso Turpino; "Durandat", per Demín, e "Durandarte”, da molti storici; dell'età moderna.»

e in nota «Nella cattedrale di Verona c'è una statua di Roldan che poggia le braccia su una grande spada sulla quale si legge: “Durendart”. Nessuno è stato in grado di spiegare in modo soddisfacente il significato di questa parola.

   I cantos de gesta dicono che fu stato forgiata da un certo Qaland e che apparteneva al giovane Eaumond, figlio dell’emiro Agoland; E avendo ucciso Rolando in battaglia, s’impadronì della sua spada e il paladino non la lasciò più, essendo questa lama, come dice poco prima di morire, lo strumento di tutte le sue vittorie.

   Un’altra versione dice che Carlo Magno lo ricevette dalle mani di un angelo con l’espresso desiderio di affidarla al migliore dei suoi capitani e siccome questo era Roldano, quel potente monarca gliela consegnò.»

 


   Ritorniamo sui nostri monti, su quella spina dorsale che attraversa e taglia in due lo stivale italico, per la precisione in Abruzzo, proprio a ridosso del Lazio.

   Grazie all’appassionato Andrea Carletti, ho visto (e che vi invito a vedere) il video: Colli di Monte Bove - Alla Ricerca Della Durlindana. Sulle Orme dei Paladini Orlando e Bovo d’Antona

https://www.youtube.com/watch?v=K-weKG50_oU

 



In questo bel video, da cui ho “amichevolmente” rubato tre immagini, vengono citati due libri, in cui è scritto…

«La limpida e serena mattina del quinto giorno, ci rimettemmo in viaggio verso Tagliacozzo.

Alle otto, arrivammo a Colli di monte Bove, dove, invece di ripassare per la via Valeria, ascendemmo il monte Bove. E, due ore dopo, ansanti e trafelati, ne raggiungemmo la vetta rocciosa, alta 1296 metri sul livello del mare.

Per circa mezz’ora, ci riposammo seduti sopra una roccia aperta, a guisa di porta, dalla mano dell'uomo, detta la Portella. Tutta la sommità, poi, si chiama Guardia d’Orlando; forse, perché, Orlando paladino e Bovo d’Antona vi stettero a guardia, nel 916, allorché i Saraceni, dopo aver saccheggiato buona parte d'Italia, vollero invadere anche la Marsica; ma furono sconfitti.

Da quell'altezza, con entusiasmo, ammirammo un grandioso panorama.»

Notizie riprese da Giuseppe Marini, cinque giorni in viaggio a pag. 399 de La Rivista abruzzese di scienze, lettere ed arti del 1895.

E poi…

«[…] ma non capirei nulla se dessi ascolto a chi mi racconta che Orlando paladino posto colassù a speculare con Bovo d’Antona se ne venissero i Saraceni. In un atto di impazienza per il lungo attendere, picchiò rabbiosamente con la durlindana su quel macigno e lo spaccò e poscia, a furia di sciabolate lo ridusse largo per quanto erano le sue spalle.»

Riferisce Giacinto De Vecchi Pieralice “Regione Carseolana da Riofreddo a Colli” in

Degli Abbati L. “da Roma a Solmona, guida storico-artistica delle regioni traversate dalla strada ferrata. 1888.

 


   Sempre in questi luoghi vi è la Vardullana, un’ ampia valle che il signor Francesco Salvadei ipotizza possa essere la valle di Orlando, oppure la valle della Durlindana. Secondo le leggende dei pastori e boscaioli, che frequentavano queste zone,  appena usciti dalla vallata in un punto preciso ci sarebbe un tesoro di inestimabile valore.

In molti venendo da Roma, scendevano alla stazione di Colli di Montebove, e salivano sulle alture verso il monte Guardia di Orlando… Cosa cercavano, solo una domenicale gita fuoriporta?

Orlando morì per lo sforzo di aver suonato il suo olifante e cercando di spezzare la sua Durlindana su una roccia perché non fosse preda dei Vasconi o per meglio dire, i Baschi; ma la lama non si spezzò, solo la roccia… allora in un ultimissimo sforzo la depose sotto di sé e spirò.

Sarebbe stata la fantasia popolare a trasportare i fatti della morte di Orlando dai Pirenei fino alle nostre cime appenniniche creando il teatro di una seconda Roncisvalle, a Colli di Montebove.

Qualcuno fantasiosamente racconta che la spada fu ritrovato a Colli, nel corso del XIV secolo.

 

A Colli vi è un castello che fu eretto da famiglia di origine franca, discendente da Carlo Magno, erano i Conti Berardi, che furono in prima linea contro l’invasione saracena.

Da questa famiglia venne San Berardo [Berardo Berardi, noto come Berardo dei Marsi (Colli di Monte Bove, 1079 – Marsia, 3 novembre 1130), dice la wiki…] che nacque proprio in quel castello; e conclude il signor Francesco Salvadei…

«Possiamo affermare che Colli è la Roncisvalle degli Appennini.»

 



    Guarda il caso, vi è pure una chiesetta rurale detta di Santa Maria di Roncisvalle situata sull’antica via romana denominata Numicia o Minucia, lungo il tracciato del tratturo Celano-Foggia.

Il suo nome secondo la leggenda deriverebbe da un feroce episodio di battaglia avvenuto tra gli abitanti di Sulmona e quelli di Pescocostanzo.

Appartenuta ai monaci Agostiniani, prese il nome dall’Ordine ospedaliero di S. Maria in Roncisvalle, originario di Pamplona e seguace della regola Agostiniana. Conosciuta anche con il nome di Santa Maria Lungis Valle, Rosa de Vallis […], fu eretta forse sopra un tempio romano nel XIII secolo in una zona ritenuta sacra  dedicata probabilmente al culto di Minerva.

La chiesa divenne meta di pellegrinaggi soprattutto dopo che Papa Paolo III (1534-1549) riconobbe il potere miracoloso all’immagine della Vergine di Roncisvalle.

Vedi: https://www.abruzzoturismo.it/it/chiesa-di-s-maria-di-roncisvalle-sulmona-aq

 

   Secondo il sito

https://www.confinelive.it/mistero-e-storia-a-colli-di-monte-bove-secondo-il-desi-negli-anni-venti-vi-nacque-il-solidalizio-evola/

sempre a Colli di Montebove vi sarebbe nato un sodalizio magico attivo negli anni ’20 del nostro 900, appena trascorso, in una casa costruita nell’800, i fondatori erano Arturo Reghini, Julius Evola e Giulio Parise…

Sembra che i discendenti dei fondatori, siano custodi della Durlindana ritrovata a colli nel 1300…

E’ una notizia, vera o falsa, esiste e si ricollega alle leggende abruzzesi su Orlando che riferisce il signor Salvadei; e si fa vedere pure una foto della spada, che questo dipartimento occulta… cosa ci faranno? Meglio non domandarselo… Un segno del comando è sempre stato ambito da tutti.

   Visto che è tutto sotto diritti, vi faccio vedere la presunta Durlindana in un mio schizzo…

 

 

 

 

 

Per ultimo: gli scherzi di Gatto Silvestro

 

 
Frammenti da: 
Della Historia di Bologna di Cherubino Ghirardacci – M.DC.V.  
  pagg. 38 – 39, Libro II.
 
 
   Dopo due anni venendo à morte questo invittissimo Imperatore [Carlomagno], fu in Aquisgrano Lodovico coronato, & per le sue virtù, & bontà cognominato Pio, si come Pietro Messia nella vita di Lodovico primo scrive. Non degenerò Lodovico punto dal Padre, percioche confirmò la pace al Pontefice, & l'Essarcato con tutte le altre Città, & luoghi descritti nella donatione; della quale Raffaello Volaterrano nel libro 3. della sua Geografia attesta haverne veduto l'originale nella Cancellària del Papa nel Vaticano, che cosi dice. 
 
Nel nome del padre, Figliuolo, e Spirito Santo.
 

   lo Lodovico Imperatore concedo à te Pietro, Apostolo prencipe degli, Apostoli, & per te, al tuo Vicario Pascale Sommo Pontefice, & à tuoi successori perpetuamente la Città di Roma con tutta la sua giurisdittione, & con tutte le Terre del suo Distretto, Confini,Città, Porti, & tutti i luoghi maritimi di Toscana, & ancho i Mediterranei, Ciuità vecchia, Balneoreggio, Viterbo, Savòna, Populonia, Roselle, Perugia, Maturano, Sutri, Nepi, & nella volta verso Terra di Lavoro, Amenia, Segna, Setentino, Alano, Patrico, Frusino con tutte le terre, & luoghi à loro soggetti, & anche tutto l’Essarcato della Città di Ravenna interamente, secondo, che l'imperatore Carlo mio Padre di pia memoria, & parimente Pipino nostro avolo nel papato concessero all’apostolo San Pietro, cioè, Ravenna, Bonio, Emilia, Forlimpopoli, Forlì, Faenza, Imola, Bologna, Ferrara, Comacchia, Adria, Cervia; & nella Marca Pesaro, Fano, Sinigaglia, Ancona, Osimo, Humana, Esio, Fossombrone, Feltro, Vrbino, il territorio Valnense, Cagli,  Luceolo, Vgubbio [ma guarda quasi le stesse della donazione di Ottone a Gerberto, ritrovata nel 1139 da una commissione del pontefice nell’archivio di Assisi], & ancho in terra di Lavoro Asola, Aquino, Arpino, Theano, & Capoua; & etiandio le Terre alla nostra giurisdittione pertinenti, cioè il Ducato di Benevento, di Salerno, Capoua, & la Calabria Superiore,  & inferiore, quello di Napoli, di Spoleti, Tuderto, Oricalco, Narina, & quanto è di quella giurisdittione. Somigliantemente tutte le Isole del Mare detto inferiore, la Corsica, la Sardegna, la Sicilia; tutte le quali dette Terre, & Città Pipino nostro Avolo di pia memoria, & dipoi nostro Padre Carlo per loro Privilegi, & per iscrittura concessero, & donarono per mezo de i loro Ambasciatori Atherio, & Mainaldo Abati di sua propria volontà mandati à San Pietro, & à suoi successori. Et noi ancho tutto questo confermiamo, & concedemo. Oltra à tutte le quai cose lasciamo, che l’autorità di eleggere il Sommo Pontefice rimanga libero al Concilio, & Collegio Romano, il quale si faccia senza alcuno schisma, & discordia. Et dopò eletto, & consacratosi mandino ambasciatori per confernatione dell’amore, & amicitia à me, & a miei successori, che saranno Re di Francia, come si usò di fare al tempo di Carlo mio Bisavolo, & di Pipino mio Avolo, & in ultimo di Carlo mio Padre. Et quesla nostra volontaria gratia, che facciamo, noi la diamo per iscritto, & confirmiamo per giuramento, & à Paschale Sommo Pontefice nostro Signore la mandiamo, Sottoscritta, & confirmata di nostra propria mano, per Theodoro Legato della Santa Chiesa Romana. Io LODOVICO. Fu confirmata parimente la detta donatione da' tre figliuoli dell'Imperatore, da dieci Vescovi, otto Prelati. Quindici Conti, un Bibliothecario, vn Mansionario, & un'Ostiario, la quale donatione il medesimo Volaterrano afferma haverla veduta, dapoi confirmata da Ottone terzo, l'anno del Signore 962. al tempo di Papa Giovanni duodecimo. Anco di questa donatione se ne ha memoria nel Decreto cap. Ego Ludovicus alla Distintione sessagesima terza.

 

La donazione di Ottone a Gerberto dal capitolo X di Hock

 

   Successore di Gregorio fu Gerberto. La sua elezione, alla quale contribuirono il favore d'Ottone ed i novelli servigi da lui prestati, ebbe luogo il 9 febbrajo 999, e la domenica delle Palme, il 2 aprile, venne celebrata la sua solenne intronizzazione. Egli era il primo francese che sedeva sulla sacra cattedra. La terza R nella serie ́delle sedi vescovili, che gli erano state promesse, doveva verificarsi. Leone, abate di Nonantola, lo segui nell'arcivescovado di Rayenna 2. Come si conoscono i documenti agli altri pontefici rilasciati dagli imperatori, co'quali ne approvano la elezione e conferiscono la conferma de' possedimenti e de' diritti temporali della Santa Sede, sì ci è pure noto un decreto, con cui Ottone III deve avere conceduto tale favore al suo maestro Gerberto. Ammirabile è il modo severo, con cui questo principe, confessando essere Roma capo del mondo, madre di tutte le chiese, biasima ad un tempo le prodigalità dei defunti pontefici, le profusioni loro de beni ecclesiastici, la loro usurpazione de'diritti imperiali; e, discorrendo più oltre, dichiara favolosa la pretesa donazione di Costantino e invalida quella di Carlo, il quale, essendo allora già spoglio del suo reame avea dato ciò che non aveva. Soggiunge però, che com'egli per amore di San Pietro aveva dato opera in fare eleggere al Papato il maestro suo Silvestro, e col volere di Dio intronizzarlo; così egli per affetto a quello aveva preso da' beni de' suoi Stati una parte per presentare a San Pietro, acciò avesse Silvestro alcun che da portare in dono al principe degli apostoli in nome del suo discepolo. Donavagli quindi e conferivagli otto contee, Pesaro, Fano, Sinigaglia, Ancona, Fossombrone, Galo, Jesi ed Osimo, ond'egli le possedesse e amministrasse ad onore di Dio e di San Pietro, alla sua ed alla salute di Cesare, a vantaggio della Chiesa e dell' Impero.

L'autenticità di questo documento è materia di dotta disputa; e noi ci decidiamo contro la stessa, ancorachè siamo di avviso occorrere nel carattere e nello stile del medesimo alcuna traccia che ricorda l'indole dello stile di Gerberto e del suo amico.

1 Questo documento, tolto probabilmente dallo stesso manoscritto che apparteneva al Parlamento di Parigi e donde Masson aveva tratte le lettere di Gerberto, venne pubblicato da un anonimo in uno scritto che porta il titolo: « Ottonis III Imperatoris donatio Sylvestro II papae facta. Romae, 1607 ». Esso dev'essere stato ritrovato il 1139 da una Commissione del Pontefice nell'archivio di Assisi, ed occorre anche in estratto nel Catalogo fatto circa Muratori. il 1336, Chartarum Archivi S. Romanae Ecclesiae. Antiq. VI, 9S.Goldast, Constit. Imp. IV, 226. Baronio, Fantuzzi, Pert. ne'Mon. leg. 11, B. p. 162 etc.; e Archivio V, 469, pe sostengono l'autenticità. Pagi ad Baron., t. XVI, p. 391. Höfler, e con gravi argomenti Wilmanns, Excurs. X1, p. 255 etc., la contestano.

dal libro Gerberto o sia Silvestro II papa e il suo secolo, e in più Richerio, Origine e giovinezza di Gerberto, a cura di Marco Pugacioff, pagg. 101, 102, Aquis Chienti 2011



    Come mi disse il professor Carnevale «Questi (riferito alla corte pontificia), dovevano pur mangiare!» Mi sa che c’aveva ragione.

 

Conclusione

 

 

   Una curiosità nasce nel leggere le burle del Piovano Arlotto nell’edizione fiorentina del ‘36.

   Nel racconto “Errore del Re di Napoli messo al libro del Piovano” si legge che il re Alfonso I, detto il Magnanimo (che regnò dal 1435 al 1458), mandò in Magna (Alemagna, la Germania) a comprar cavalli con una somma enorme un certo Teodorico, un tedesco al suo servizio da giovane età. 

   Il Piovano Arlotto considera un errore «[…] aver fidati tanti denari a un barbaro tedesco […] e peggio è che la Maestà vostra lo manda nella Magna a casa sua […]».

   Vedi Novella 6, pagg. 23-25 de Le burle del Piovano Arlotto, oltre 150 pagine di racconti illustrati del ‘400 fiorentino, edizione di Marco Pugacioff, stampato da youcanprint Lecce 2023.

Purtroppo nel testo, ci sono alcuni errori che mi sono sfuggiti e mancano ancora altre novelle… eppure, anche così, sono molto orgoglioso di questo lavoro.



Il Pievano di fronte al Re

 

   Questa è l’opinione che si ha nel Quattrocento della Germania. Una terra barbara abitata da barbari e il Piovano Arlotto se ne intendeva perché, come è attestato nei racconti della sua vita, fece numerosi viaggi all’estero. Ma la Germania non era la sede di Aquisgrana?

Da dove un genio militare come Carlo Magno scendeva in Italia nel corso delle sue innumerevoli campagne belliche?

   Ma di certo il Piovano Arlotto si sbagliava, così come si sbaglia il professor Giovanni Carnevale.

Ma ha ancor più ragione lo storico Mario Latini di Morrovalle, che scrive nel ’94…

«Ogni paese della nostra terra marchigiana vanta di essere stato fondato, toccato, calpestato, difeso, distrutto, onorato da Carlo Magno, re dei Franchi, imperatore d’Occidente. Sono fantasie di uomini che amano la loro terra e vogliono dare a essa impronta di nobiltà e di gloria».

 

   Il tedesco Heribert Illig scrisse due libri (nel ’94 e nel ‘96) in cui espose la tesi secondo cui l’età carolingia è da cancellare dalla Storia per la totale assenza – in Germania – di relative prove archeologiche e storiche. Parlando del possente macigno che funge da chiave di volta della Cappella imperiale di Aachen, dove fu ancorato il gigantesco lampadario ottagonale in bronzo, dono votivo di Federico I Barbarossa, l’Autore riferisce che tale ancoraggio richiese la perforazione del macigno in tutto il suo spessore, naturalmente prima che fosse sollevato in sede a completamento della cupola. Se così avvenne, il lampadario firma l’età del monumento.

   Nel catalogo della Mostra su Carlo Magno, allestita in Vaticano nel 2001, in riferimento alla Cappella palatina di Aachen, il Nesselrath così riferisce…

«Vi sono crescenti dubbi che sia stato proprio Carlo Magno l‘ideatore di questa perfetta scenografia. È più probabile infatti che essa sia stata realizzata nel periodo ottoniano e attribuita a Carlo Magno a sostegno del mito creatosi intorno alla sua figura. In tal caso la simbologia scelta appositamente dai successori di Carlo Magno si sarebbe trasformata in interpretazione storica, senza che nessuno se ne rendesse conto».

Ripreso da  Arnold Nesselrath, Carlo Magno e i papi del suo tempo - Scheda 2, in Carlo Magno a Roma, catalogo della Mostra, Roma, Pontificio Comitato di Scienze Storiche - Direzione Generale dei Monumenti, Musei e Gallerie Pontificie, 2001, p. 103.  

 

E del resto ad Aachen, hanno anche il corpo di Carlo Magno…

ma è davvero il suo?


   La calotta presenta un bel buchetto… potrebbe essere il buco di una operazione al cervello come quella che ebbe Carlo III il grosso, ma come mi ha fatto osservare un componente della combriccola di San Claudio, allora dovrebbe essere rotonda… Ergo, come gli dissi subito, ebbe una brutta fine come il faraone Tutankamen (o come si scrive). Fu fatto fuori!

 A Carlo Magno chi lo faceva fuori? Una concubina? Ma Carlo III, eh Sì! Quello stesso personaggio che lo aveva fatto deporre un anno prima della sua morte: Arnolfo di Carinzia, uno dei due nemici principali (l’altro era Berengario) di Guido del Piceno, l’Imperatore!

 

   Una cosa colpisce del grande Caio Giulio Cesare. Egli in gioventù riuscì, accompagnato solo da un segretario e da un soldato di scorta, ad andare da Roma al fiume Rodano in soli otto giorni di cavallo. Ma se è riuscito in questa

impresa è merito anche, e soprattutto, delle “autostrade” che nell’antichità costellavano la Repubblica di Roma (solo alla sua morte divenuta Impero).

Al disfacimento dell’impero romano, la manutenzione di queste grandi vie ebbe fine.

Carlo Magno, i suoi figli e i suoi nipoti che risiedevano in Aquisgrana valicavano spesso le Alpi per venire in Italia. Questi personaggi, per stare continuamente a cavallo, dovevano avere una vera e propria schiena d’acciaio, questa sì che è pura fantascienza.

   E’ quello che pensava anche il professor Carnevale, infatti alle pag. 19 e 20 del suo Aquisgrana trafugata del ’96, scrive…

«Dall’autunno dell’8l5 fu abate di Farfa Ingoald. Dall’anno precedente era  ormai imperatore ad Aquisgrana Ludovico il Pio e il nuovo abate vi si recò con frequenza per incontrarvi il nuovo imperatore. Lo troviamo ad Aquisgrana nell’estate dell’8l7, nell’estate dell'8l8 e nella primavera dell’8l9.

Nell’estate dell’818 l’abate Ingoald era ad Aquisgrana per presentare all’imperatore due richieste, accolte ambedue da Ludovico il Pio. […]

Prima di concedergli un bosco a Rieti e dei terreni a Farfa, l’imperatore volle che alcuni suoi funzionari andassero ad effettuare dei sopralluoghi di controllo.

Il bosco del Reatino entrò a far parte dei possessi di Farfa con diploma imperiale rilasciato tra il 2 e il 4 giugno, dopo un sopralluogo e la redazione di una relativa mappa effettuata dal vasso Donato.

Le incertezze sulla data sono dovute ad un'abrasione già presente sull’originale copiato da Gregorio da Catino.

Per incamerare i terreni nel Farfense bisogno invece attendere altri 2 - 3 giorni

perché l’imperatore aspettava il ritorno dei suoi messi inviati sul posto per un

sopralluogo. Solo il 5 giugno, al ritorno dei messi, sentito il loro parere, rilasciò a Ingoald un secondo diploma di possesso.

Per il sopralluogo a Farfa i messi di Ludovico il Pio disposero dunque al massimo di tre giorni in più rispetto al sopralluogo per il bosco di Rieti portato rapidamente a termine dal vasso Donato, giusto il tempo necessario per coprire l’ulteriore tratto Rieti-Farfa e ritorno ad Aquisgrana.

Come messi imperiali potevano anche usufruire di frequenti cambi di cavalli

freschi. Questo naturalmente se il Palatium era in Val di Chienti e non ad Aachen. Da Aachen ci sarebbe voluto... l’ippogrifo!»

 

   E il riferimento all’ippogrifo mi dà il là per farvi capire una cosa… Un collaboratore di Tolkien scrisse le cronache di Narni, che in latino era Narnia.

   Perciò ecco la chiave per comprendere (se ne avete voglia) questa mia mente malata, da povero imbecille (me lo dico da solo, ma badate bene a non dirmelo in faccia…).

 

    Creare un nuovo mondo da trasportare nelle mie storie, in generale a fumetti… le cronache della Francia delle origini con il bambino della selva, il caro, vecchio Cucciolo di Rino Anzi poi ereditato da Giorgio Rebuffi, che gioca con il cuginetto Beppe a fare Robin Hood!

 



Marco Pugacioff

[Disegnatore di fumetti dilettante

e Ricercatore storico dilettante, ma non blogger

(Questo è un sito!)]

Macerata Granne

(da Apollo Granno)

S.P.Q.M.

(Sempre Preti Qua Magneranno)

15/08/’23

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