Colonnello
Mikoyan: preda e cacciatore
I contenuti del romanzo breve de Il Colonnello
Mikoyan: Preda e cacciatore di Marco
Graziosi, in arte Marco Pugacioff pubblicato su questo blog non possono essere
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L’ufficio è sinistro, come il luogo dove situato, nel più oscuro
corridoio dell’antica sede del KGB, la famigerata Lubjanka in piazza
Dzerdzhinsky a Mosca. L’ufficio è denominato la Tana dello stregone, e così è conosciuto perfino al Cremlino; un’alta
finestra con un’inferriata alla sinistra dell’entrata è l’unica fonte di luce
naturale della stanza; al soffitto vi è una lampada oscura che illumina il
tavolo centrale e all’intorno ci sono vecchi scaffali arrugginiti che
contengono fascicoli su tutto ciò di sinistro che avviene nel nostro pianeta.
Stregonerie, diavolerie, rapimenti alieni. Ovviamente non è che un dipartimento
staccato da altri uffici che indagano sugli stessi fenomeni. Il suo abitante è
forse ancora più sinistro, è un uomo prossimo ai sessant’anni, con i gradi di
colonnello. Si chiama Leonid, Leonid Vladimir Mikoyan e di lui si dice che
abbia discendenze mongole; ma sono solo voci.
Ma le
voci più sinistre spiegano perché anche al buio porta occhiali scuri e anche
nel caldo più intenso indossi dei guanti alle mani. Alla fine degli anni ’80
era stato trasferito come giovane sottufficiale in Antartide nella base sovietica
sul lago Vostok; in quella gelida
località avvenne un misterioso incidente provocato ad arte da un vecchio
scienziato nazista prigioniero da anni dell’armata rossa. Il giovane Mikoyan
aveva perso la mano destra, l’intero braccio sinistro e la vista nel salvare lo
scienziato e questi, con fredda e
spietata riconoscenza si dice che gli avesse sostituto le due braccia con arti
bionici e gli organi visivi con quelli di una tigre. Voci, solo voci, e
tecnicamente impossibili ma è vero che il colonnello può effettivamente vedere
al buio come i gatti e abbia una forza straordinaria.
Per entrare nel suo ufficio bisogna passare
una porta a vetri che immette nel corridoio scarsamente illuminato, ed è sempre
con un brivido alla schiena che il colonnello Popesco lo percorre. Quando
l’ufficiale dai capelli grigi e di origini ungheresi arriva alla fine
dell’androne, prima che apra la porta, la lampada centrale dell’ufficio si
illumina in maniera meno sinistra. Per Popesco, anche se sa che è solo scienza
tecnologica, resta sempre un’opera di magia.
Mikoyan sta mettendo nello schedario un
fascicolo in cui Popesco riesce a leggere in caratteri latini ”Mortegliano”.
-
Salve
Ivan, mettiti pure comodo. – Mikoyan accolse l’amico con un sorriso quasi sinistro
-
Ciao
Leonid. – dice Popesco mettendosi a sedere.
-
Da
tempo ho compreso bene che difficilmente mi verresti a trovare per invitarmi
alla “bella Napoli” a gustarmi un buon piatto di pasta… – dice, mettendosi a sua volta a sedere.
-
Tu
e l’Italia, devi avere sangue latino nelle vene – Popesco esita a parlare, non
gli va di mettere il vecchio amico in pericolo ed esita a entrare in argomento
– Vedo che tua zia tiene sempre la tua tana pulita e ordinata.
-
Naturalmente,
ma sarebbe ora che andasse in pensione e io con lei! Perché ogni volta che mi
fai visita significa che hai una patata bollente tra le mani…
-
È
così ! mi dispiace darti questo incarico ma l’ordine viene dall’alto.
-
Non
poteva essere altrimenti.
-
Leonid,
la richiesta viene dagli ex compagni di Kiev…
-
Perdio!
Chi è penetrato nella zona rossa?
-
Hai
già capito che la patata è incandescente. Del resto nella zona rossa non
entrano più nemmeno i reparti specializzati dell’esercito. Ma è successo un
fatto nuovo. Una giornalista statunitense è entrata ieri nella zona e…
-
Non
ha dato più sue notizie di sé, vero?
-
Sembra
che sia nipote di un pezzo grosso e a Kiev hanno rimbalzato la patata al
Cremlino chiedendo il tuo personale intervento.
-
Così
dovrei rischiare la vita per la nipotina del “vagabondo”? Non basta agli yankee
essersi comprati mezza Ucraina? Comandano un po’ troppo quella gente!
-
È
quello che dicono ancora di noi in tutta Europa… ma come hai capito che quella
sciagurata è la nipote dell’attuale presidente degli Usa a cui hai proprio
rifilato un bel sopranome?
-
Dì
pure di tutte e due le Americhe, come dell’Italia è il Pontefice gesuita e
dell’Europa la banca tedesca. Sai bene che anch’io ho i miei personali canali
che mi informano su ciò che succede nelle zone calde del nostro pianeta;
immagino che per il mio intervento abbiano già chiesto una sontuosa
contropartita.
-
Credo
proprio di sì, ma tutto è dipeso da te…
-
Incomincio
ad invecchiare per queste missioni, ma non posso certo tirarmi indietro. Me ne
frego di quella “sciagurata” – come l’hai chiamata tu – che probabilmente è già
carne da macello, ma scommetto che per farmi intervenire farebbero pressioni
sulla mia famiglia.
-
Leonid,
io…
-
Buono
Ivan! In fondo avevi ragione tu, non avrei dovuto salvare quel nazista a Vostok.
Ora non sarei così… – gli occhiali neri di Mikoyan, guardano in basso e un
sinistro sorriso piega le sue labbra –
…”equipaggiato” e adatto a questi lavori, tanto che in molti vorrebbero
capire le mie funzioni. Ma puoi esser certo che se dovessi fallire, farò in
modo che non ritrovino più il mio corpo! E ora andiamo, non c’è da perdere
troppo tempo. Puoi accompagnarmi tu al mio mig?
-
Ma
certo! Andiamo !
Entrando nell’auto di Popesco, Leonid si colloca nel sedile accanto al
guidatore e trova sotto ai suoi piedi un paio di anfibi sporchi di terra.
-
Diavolo ! Scusami, ieri sono stato in campagna con i miei uomini e…
- Per
così poco, non mi danno certo fastidio… anzi. Abbiamo le stesse misure di
calzatura. Posso prenderli?
- E
come no?
Leonid si cambia le scarpe con gli anfibi, poi sistema le scarpe dietro
al sedile e lì trova due libri per l’infanzia, posati sul sedile posteriore.
Con insolita delicatezza li prende in mano. Popesco è vedovo da alcuni anni e
sua moglie gli ha lasciato due figlie; Ilenia di quindici anni e la più piccola
Nadezda di sei anni di età.
-
Ah!
Nadezda li voleva portare a scuola stamattina, ma Ilenia gli ha fatto cambiare
idea. – Mikoyan li sta spogliando con cura. Cercando di non piegare i fogli. –
Stasera devo portarli a casa !
-
Il Pinocchio di Tolstoj
in una edizione della Germania Orientale
Chiodino in una
versione russa
-
Sono
Burattino e Chiodino al circo!
– fa Leonid – Sono quelli che gli avevo regalato. Ancora ricordo come mi
chiese se Chiodino fosse il mio fratellino più piccolo…
-
E
tu non l’hai smentita!
-
Non
potevo! Dimmi, Ilenia è sempre così vicina alla sorella?
-
Sì!
È lei che la va a prendere a scuola quando io non posso e questo capita spesso…
troppo spesso per i miei gusti!
L’auto
di Popesco, finito il tragitto, passa i controlli all’aeroporto e infila la
pista di decollo, dove il vecchio mig di Leonid è già pronto al decollo.
Leonid si infila la tuta di volo con una
strana, serena, tranquillità, sale sulla scaletta e si infila nell’abitacolo.
Indossa il casco e parla un’ultima volta all’amico.
-
Avverti Grigori che sto per arrivare ! – Un veloce saluto con la sua mano, poi
accende il motore.
Il
mig infila pista di decollo e si alza in volo poi sotto gli occhi di Popesco lo
vede girare verso l’ovest. In quel momento si sente una angosciosa stretta al
cuore, ma dentro di sé si dice:
-
No! Se c’è mai stato un uomo d’acciaio questo è lui. Tornerà, sì! Tornerà!
I primi guai
Al
controllo aereo dell’Ucraina avevano visto il mig del colonnello passare il
confine e dirigersi verso l’aeroporto più vicino alla zona rossa, ma uno dei
controllori nota subito delle imperfezioni nella direzione di volo e chiama il
suo ufficiale, un uomo sui cinquant’anni, il maggiore Grigori Borzov.
-
Signore!
Il mig del colonnello ha dei problemi! Ha anche cambiato direzione per… per dirigersi risolutamente verso la zona
rossa!
-
Che
cosa? All’inferno! Leonid! – nel maggiore spunta subito un’enorme tormento. Era
stato lui a far chiedere il suo aiuto da Kiev a Mosca.
-
Mettetemi
in contatto con il colonnello Mikoyan… – ma non riesce a finire la frase che la
voce di Mikoyan si sente alla radio
-
Qui
Mikoyan, centro di controllo mi sentite?
-
Forte
e chiaro colonnello! Ha dei problemi con il suo aereo?
-
È
così! ho cambiato rotta perché il mio mig sta avendo gravi problemi
strutturali, inoltre la cloche oramai è diventata pesante e non mi risponde quasi
più. È sicuramente un sabotaggio! – la parola risuona come un esplosione al
centro di controllo.
-
Colonnello,
si butti ! Manderemo degli uomini a recuperala, non è ancora nella zona rossa… –
ma il maggiore viene immediatamente fermato dalla voce di Mikoyan
-
Negativo
Borzov! Ho una missione da compiere, me la caverò da solo. Chiudo!
-
Colonnello
! Colonnello !
-
Inutile,
maggiore. Ha interrotto il contatto.
Intanto sullo schermo il mig prende lentamente
la direzione del suolo.
-
Ma
signore… mandare i nostri uomini, rischiare la loro vita per recuperare un
russo, un nemico… – fa il controllore, ma il maggiore risponde subito:
-
Conosco
personalmente quel colonnello. Se c’è un uomo da salvare, questi è proprio lui
! Chiamatemi subito il colonnello Popesco a Mosca!
Lentamente il segnale del mig scompare dallo schermo, ormai è a terra. Non
è trascorso nemmeno un minuto che il maggiore è messo in comunicazione con
Popesco.
-
Il
mig è caduto e Leonid non si lanciato. Secondo me dobbiamo assolutamente
recuperarlo!
-
Aspetta
Grigori. Che cosa ti ha riferito nell’ultimo contatto? – chiede Popesco
-
Non
vuole essere recuperato ma…
-
Allora
– fece Popesco con profondo sospiro – dobbiamo seguire le sue volontà; non c’è
altro da fare !
-
Ivan
! dovresti sapere che al confine con la zona rossa vi è quella che è
considerata la sua anticamera. Non possiamo lasciarlo lì. È stata sinistramente
chiamata dal suo padrone Ship-trap!
-
Grigori,
ascolta. Leonid conosce tutti i luoghi oscuri del pianeta. Sa sicuramente cosa
l’aspetta… – un ulteriore esitazione poi Popesco prosegue – potrebbe anche
farcela. Dobbiamo avere fiducia in lui, come abbiamo già fatto in passato,
quando venne catturato ma riuscì a liberarsi da solo. Tieni sempre pronta ad
intervenire la squadra di recupero solo per il compimento della sua missione
alle porte della zona rossa. Questa notte resterò qui, mi raccomando chiamami
per qualunque novità.
I due
uomini correvano nella massa verde. Hanno le tute mimetiche dei spetnaz, i corpi
specializzati dell’ex armata rossa. Non avevano armi ed erano già scampati a
due trappole solo grazie al loro addestramento e alla loro esperienza. Ma era
inevitabile; non avrebbero resistito a lungo. Sentivano i cani dietro di loro.
-
Maledetti cani! Capitano, quando potremo
ancora sfuggirli? Quel pellerossa è davvero un formidabile cacciatore.
-
Ma
è anche uno schiavo, come la donna con la bambina. – risponde l’ufficiale.
-
Loro
saranno le prossime vittime. Sono riuscito a parlato con lei. È rassegnata e
teme più che altro per la figlia.
-
Dobbiamo
raggiungere quelle basse colline là in fondo. Questa notte ho visto delle luci,
come di una città. Una volta arrivati potremo metterci in contatto con la
polizia locale e farle liberare… Guarda!
-
Ma
è un mig! Sta letteralmente cadendo a terra, però il pilota lo sta ancora
governando dannatamente bene. Diavolo! Non ho mai visto una simile abilità.
Infatti il mig è letteralmente scosso nel
tenere una direzione planando verso terra – segno della cloche praticamente non
governabile – questo indica una potenza non comune del pilota. L’ufficiale
capisce immediatamente chi è alla guida.
-
No!
Non è solo abilità. C’è solo un… uomo, sì uomo, che può far questo! Dobbiamo
raggiungerlo e metterlo al corrente del pericolo che correrà qui. E poi
dovrebbe essere armato e questo sarà un aiuto per noi. Andiamo.
Mikoyan riesce a far planare con diabolica abilità un mezzo ormai
praticamente incontrollabile. L’impatto è tremendo ma il colonnello si tira
fuori dalla carlinga senza grandi problemi, salvo il sudore sulla sua fronte.
Poi
si libera dalla tuta di volo e rimane in divisa, giacca e cravatta; era partito
così in fretta che non si era cambiato. Si lascia gli anfibi e indossa gli
occhiali scuri; prima di partire per le basse colline che sono a poche distanza
e che sono il limite della zona rossa, si gira un attimo verso il suo fedele
mig e gli fa:
-
Se
riuscirò a tornare a Mosca, ti farò recuperare. Ne abbiano viste troppe
insieme.
All’improvviso risuona un colpo d’arma da fuoco, seguito da un urlo
lacerante. Mikoyan preferisce seguire la nuova direzione. Sullo sfondo si può
intravedere una sontuosa costruzione che il colonnello giudica simile a un
grosso rancho tipico dei territori statunitensi vicini al Messico. È sicuramente
quello – pensa Leonid – che il suo proprietario ha definito Ship-trap, trappola di navi.
Il
capitano corre verso un possibile riparo sotto la piccola rupe alle sue spalle,
ma a un metro dal riparo un colpo risuona nell’aria e l’uomo cade lentamente a
terra. Negli ultimi istanti vede un uomo davanti a sé, nella boscaglia.
Dall’alto della rupe un altro uomo si erge vittorioso con un fucile da
caccia alle sue mani. Alto, occhi azzurri, cappelli rossi e con un sorriso
beffardo sul viso lentigginoso. Ha al suo fianco, oltre a tre doberman, un
altro uomo taciturno i cui tratti lasciano indovinare l’origine in un
pellerossa, forse un Navajo o un Apache, con al collo un medaglione come i
cani; ma il medaglione è spesso, metallico e possiede una piccola luce
intermittente. Lo “schiavo” indica al “padrone” davanti, verso la boscaglia.
Mikoyan emerge dal verde, calmo e si dirige verso l’uomo morente,
incurante del cacciatore sulla rupe. Si inchina verso lo spetnaz, lo gira con
delicatezza verso di lui, e l’uomo inizia a parlare con estrema difficoltà
visto che non riesce più a respirare.
- Colonnello, quello
lassù è solo un pazzo assettato di sangue… al ranch c’è anche una donna con una
bambina e… e…
Sono
le sue ultime parole. Leonid lo aveva già visto, era uno dei più abili uomini
dei corpi speciali, ufficialmente disperso in azione da pochi mesi. Con calma
gli chiude gli occhi e…
Una pallottola di grosso carico lo colpisce al
braccio strappando la sua divisa, ma ribalzando subito come se avesse colpito
un’armatura. Con calma si tira in piedi, alza lo sguardo e fissa il cacciatore.
-
Era
solo un colpo d’avvertimento ! Chi siete ?
-
Colonnello
Leonid Mikoyan. Vengo da Mosca!
-
Ma
certo; l’aereo che è caduto a poco meno di un chilometro da qui. Spiacente
colonnello ma a casa mia si gioca secondo le mie regole. La mia passione è la
caccia all’uomo e mi sono creato un parco divertimenti. L’ho chiamato Ship-trap in onore dello romanziere Richard
Connell che ha scritto il racconto La
partita più pericolosa.
-
Mi
è giunta voce dei suoi sinistri “tornei di caccia” mister Cheney. Chi riesce a
fuggirvi, entra nella zona rossa e non fa più ritorno.
-
Siete
bene informato, ma non vi servirà a niente! Ho una lunga esperienza, acquisita
prima con i pellerossa e poi con voi russi. – Cheney infila, in maniera
eloquente, un nuovo proiettile nel fucile da caccia – Vi odio mortalmente e…
-
Ho
una missione da compiere. Devo entrare nella zona rossa e sono già in ritardo.
Provate pure a fermarmi!
Detto questo il colonnello gira le spalle e
si inoltra nella macchia verde, lasciando sbigottito Cheney, che non reagisce
subito. Dentro di lui, per un attimo, ma solo per un attimo, nasce una gelida
sensazione di terrore.
Cheney
reagisce troppo tardi e inizia a sparare verso Mikoyan, ma il colonnello
penetra nel verde con gelida calma. Il polso inizia a tremargli e una rabbia
furiosa esplode in lui e la rivolge al Navajo.
-
maledetto
porco, perché non gli hai sparato. – ma il pellerossa resta in silenzio a
fissarlo – Mandagli dietro i cani. Deve morire sbranato!
Lo “schiavo” fa un fischio ai tre doberman e
li scaglia dietro al colonnello, poi si mette sulla loro scia.
Leonid ha percorso altro terreno verso le basse e sinistre colline,
quando sente dietro di sé i doberman. Con un’enorme distensione si ferma; non
può sfuggirli, lo sa, perciò si gira e li aspetta. Dal fogliame sbucano i tre
molossi, sembrano creature infernali, neri come la notte. L’unica cosa di
bianco che hanno sono le fosse degli occhi e i loro denti.
Il
più vicino a lui, il più veloce dei tre, spicca un balzo per azzannarlo alla gola.
Il colonnello lo aspetta fermo come una statua di pietra e reagisce all’ultimo
istante possibile. Il pugno al suo muso è tremendo e il cane cessa di vivere
all’istante; il suo corpo cade a terra mentre il secondo è pronto a scagliarsi
sull’uomo, ma un robusto manrovescio lo spinge indietro a terra, avvitandosi su
se stesso.
Il
terzo doberman si ferma sbigottito da ciò che ha visto, sente il suo compagno
guaire dal dolore. Si avvicina piano all’altro cane che si rialza a fatica, ma
ormai ogni bestialità in loro si è fermata e all’improvviso si danno una fuga pazzesca dominata dalla paura.
Il
Navajo si vede tornare indietro i cani, letteralmente impauriti e in cerca di
carezze. Un sinistro presagio nasce in lui, e sente su di sé la sinistra ala
della morte ma dopo aver calmato i cani
li lascia indietro e si dirige verso il colonnello con funesta rassegnazione.
Le tracce lasciate dopo l’albero hanno
qualcosa di strano. Nonostante la sua esperienza, non riesce a ragionare.
Eppure all’improvviso capisce ! Le tracce sono troppo profonde rispetto a
prima, il russo è tornato indietro, calpestando le sue orme per salire
sull’albero… il tempo di rendersi conto della cosa, girare la testa in alto e
si vede piombare l’uomo su di lui.
Leonid lo stordisce mentre lo butta a terra. Il Navajo ormai ha la
certezza di essere ormai morto. In fondo è una liberazione; da quando fu fatto
schiavo da Cheney si sente più morto che vivo, non era vita quella. Malgrado
ciò gli sembra di sentire una voce che gli parla nella sua lingua, quella dei Navajo.
- Pensa tu alla donna
e alla bambina. Liberale e poi fuggite !
Il pellerossa si rialza stordito, con la testa
che gli duole e ci mette un po’ a rendersi conto… che non ha più il collare al
collo. Con sua enorme sorpresa lo vede a terra spezzato e comprende subito che
solo il russo può averlo spezzato; ricorda le sue parole e si mette a correre
felice come un pazzo verso il rancho.
Cheney vede correre poco lontano da sé il suo schiavo; gli urla contro, e
poi si accorge della sua aria felice e che è senza collare. La paura ritorna in
lui e la sensazione di avere qualcuno non molto lontano alle sue spalle gli fa
tremare i polsi.
Si gira e vede il colonnello fermo che lo
fissa da dietro quei sinistri occhiali scuri. D’istinto prova a sparargli, ma
il colpo non colpisce Leonid e il terrore si impadronisce di Cheney. Lascia
cadere il suo fucile e nell’oscurità che precede la notte, inizia una fuga
senza una direzione precisa, come aveva fatto sempre fare alle sue prede. Preda!
Ora capisce di essere diventato una preda, lui, il cacciatore. E nella sua fuga
impazzita finisce verso uno stagno e non si ricorda più delle mortali sabbie
mobili che vi sono all’interno, finché non s’accorge delle braccia che
sinistramente spuntano fuori dalla melma fangosa. Nello stesso tempo sente le
sue gambe arrestarsi in un terreno fangoso e una voce urlare aiuto. Ma si rende
conto che è lui a chiedere aiuto. Dietro di sé c’è il russo con il suo fucile in
mano.
-
Aiutami
! aiutami ! Non posso morire così !
Il colonnello gli lancia al fianco il suo
fucile.
-
Eccoti
la tua arma, Cheney ! Difenditi !
Al rancho, in una stanza da letto
ermeticamente chiusa, una bambina, di sei anni come Nadezda, è seduta a terra
su un tappeto con una bambola. La sua giovane madre, uno splendido esemplare
femminile di pelle bianca, allontana un attimo lo sguardo da lei e guarda
impaurita fuori della piccola finestra, verso le sinistre colline. Presto
sarebbe tornato Cheney a tormentala, ad abusare di lei, di fronte alla sua
bambina, come già avevano fatto altri. Sapeva anche che era l’ultima notte.
Domani tutte e due avrebbero subito la caccia.
Mentre calde lacrime
le scendono silenziose dagli occhi, una botta improvvisa scuote la porta, poi
una spallata energica ha ragione della sua serratura e l’uscio si spalanca. È
il guerriero Navajo che entra veloce verso la bambina. La madre si lancia verso
di lei.
-
No!
La lasci stare…!
Ma si ferma subito,
anche al buio riesce a vedere che l’uomo non ha più il collare al collo. L’apache
prende in braccio la bambina e mette un braccio dietro la donna portandole
fuori della stanza.
Arrivati vicino al
cortile, il Navajo si dirige verso due fuoristrada, uno nuovo di zecca e
l’altro una vecchia Lada Niva. L’uomo apre la portiera del fuoristrada nuovo e
fa salire la madre per poi mettergli la figlia in braccio, poi corre verso il
posto di guida, monta e mette in moto l’auto e parte in direzione opposta alle
colline.
Improvviso si ferma. Sia lei che la donna
hanno visto la Lada Niva mettersi in moto. In lui nasce la curiosità di chi
possa essere l’uomo alla guida, mentre la donna ripiomba nel terrore.
Ma il vecchio
fuoristrada, uscito dal viale d’ingresso del rancho, imbocca deciso la
direzione delle colline.
-
È
lui! È il russo che mi liberato.
-
Ma
dove va? Laggiù c’è la morte che lo aspetta!
-
Forse
lo sa, e se ci va, ne deve esservi costretto. Per questo mi aveva detto di
salvarvi. Una cosa che comunque sapeva avrei fatto. Ma è un uomo eccezionale, e
anche se ciò che lo aspetta è terribile, in cuor mio gli auguro buona fortuna!
Popesco non crede alle sue orecchie, a ciò
che gli sta dicendo Borzoff. La sinistra Ship-trap
non esiste più.
-
Ma
come lo hai saputo?
-
Tu
sai che oltre la squadra di recupero per Leonid abbiamo da tempo installato
altri sbarramenti che impediscono a chiunque di inoltrarsi alla zona fatale
delle basse colline.
-
Certo!
È una prassi regolare per le zone pericolose, ma che è successo?
-
Una
di queste squadre ha fermato un fuoristrada e all’interno vi era un uomo, un
pellerossa nordamericano e una donna con la figlia!
-
Non
mi dirai che…
-
Sì!
Sono liberi grazie a Leonid. Ora li stanno portando qui in elicottero.
-
Peste!
Leonid è vivo, lo sapevo. Non si sa chi sono quelle persone? Che cosa hanno
riferito ai tuoi uomini?
-
L’uomo
è il figlio di uno degli uomini più brillanti del F.B.I. americano che da un
anno sta cercando disperatamente il figlio. Abbiamo già fatto informare la sua
famiglia. Mentre la donna con la figlia non era ufficialmente scomparsa che da
una settimana. Erano degli schiavi, così hanno detto, del proprietario del
rancho. Con loro vi erano anche due spetnaz russi e che il loro padrone li ha uccisi in una
caccia spietata. Ma poi comparve Leonid e il loro padrone deve essere ormai morto!
-
Come
è morto, è stato Leonid?
-
L’apache
ritiene che sia stato lui, anche se non sa assolutamente cosa sia successo. Mi
hanno riferito che dietro di loro, mentre lasciavano il rancho, una Lada Niva è
partita dirigendosi verso le colline e tu sai che solo lui può aver preso quella
strada sinistra.
-
Grigori,
ormai è chiaro. Leonid sta per giocare la sua partita più pericolosa, ma è
strano. Questa volta avverto un funesto presagio…
Nella zona rossa
La Lada Niva ha già superato le colline e si
inoltra nella strada rettilinea e ormai maltenuta alla periferia della città.
Il colonnello intravede sullo sfondo una figura conica al centro della
cittadina. La strada è sinistramente illuminata mentre ai bordi a volte scorge
qualche auto ferma da anni.
Poi al disopra del
fuoristrada compaiono delle piccoli luci, piccole forme simili a dei soli
bianchi, di pura energia che prendono a seguirlo. La sua auto dovrebbe
fermarsi, con l’energia prosciugata, ma ciò non avviene. E allora un piccolo
lamento inizia a farsi sentire, Leonid lo conosce bene; è un allarme!
Immediatamente le luci
scompaiono e al loro posto compaiono altri oggetti volanti di circa tre metri
di diametro. Lampi di energia partono micidiali verso l’auto, ma il fuoristrada
con una sinistra, diabolica abilità riesce a evitarli con manovre ardite,
mantenendo miracolosamente l’assetto e il lamento si fa più forte.
Gli oggetti allora si
allontanano. Ora il colonnello può vedere bene la sinistra forma conica davanti
a sé. È uno ziggurat a quattro gradoni, assomiglia a uno ziggurat, ma non a
pianta quadrata, la sua base è circolare; sembra una cosa innaturale sorta in
mezzo ad altri edifici e davanti ad esso è rimasto grottescamente un monumento
dedicato a Lenin che sembra fronteggiarlo. Delle enormi figure umanoidi sono a guardia
dello ziggurat, creature alte sui quattro metri con gambe leggermente incurvate
in avanti che sembrano attenderlo in maniera minacciosa.
Qui ora avviene la parte più impressionante.
Il colonnello ferma il fuoristrada di fronte a loro all’imbocco della piazza e
con calma glaciale scende dalla vecchia Lada e va incontro alle creature, in un
silenzio che sarebbe assoluto se non per quel lamento allucinante mentre i
lampioni illuminano la scena. L’unica cosa che tradisce il suo stato d’animo è
la sua fronte sudata mentre i cappelli ondeggiano al vento.
Mikoyan alza i suoi
bracci in direzione degli ostili umanoidi, allarga le dita di ogni mano e nello
stesso istante delle onde di energia partono dai suoi arti di metallo.
Gli umanoidi, tentennano, si sbilanciano,
come se non potessero tenersi in piedi e poi lanciano grida sinistre per infine
fuggire terrorizzati in un batter d’occhio, lasciando la piazza vuota.
Leonid si piega su stesso, il corpo
squassato dalla paura, paura di quegli esseri, paura di se stesso. Respira
forte, boccheggia affannosamente, eppure lentamente alza la testa, davanti a
lui, la statua di Lenin sembra sorridergli. Si rialza in piedi, è troppo,
troppo vecchio per quelle missioni, ma sempre respirando forte inizia a salire
sullo ziggurat.
Una porta gigantesca è dissimulata nella
parete del primo gradone; eppure il colonnello la vede, anzi la sente. Rialza i
suoi arti e di nuovo delle onde partono da essi… con lo straziante lamento che
incessante continua alle sue orecchie. Con la sensazione di essere un topolino
di fronte alle porte di un cattedrale, Mikoyan vede la porta aprirsi di fronte
a sé. Ai suoi occhi si delinea una specie di grotta dalla quale escono dei
vapori solforosi, tanto da fargli credere che si tratta della bocca dell’Inferno.
E
l’inferno è davvero quello che si ritrova davanti, appena percorso un oscuro
corridoio. Da delle gradinate può intravedere nell’oscurità, rischiarata da una
debole luce, sotto di sé i vari gironi, o meglio i vari ambienti dove il
bestiame deve essere sospinto per fare la sua tragica fine, essere disossato e
trasformato in carne per nutrimento.
Tutto
intorno delle celle, dei recinti, dove il bestiame aspetta il suo turno e da dove
vede la sua prossima orribile fine; coloro che li tengono rinchiusi si
alimentando anche con le loro paure.
Il
colonnello, sempre con un respiro affannato, teme di essere arrivato troppo
tardi, tutte le celle sono vuote, un momento. Una ha la porta attiva, segno che
è popolata. Cercando di resistere alla paura, al fetore di quel luogo, al suo
stomaco che non c’è la fa più, Leonid discende da una serie di scaffalature
nella parete che con i suoi vuoti e i suoi pieni gli consente una veloce e
facile discesa, e arriva alla cella della morte ancora popolata.
Una
porta, in cui fa argine una rete elettrica, si schiude su uno stretto recinto
in cui sono ammassati tre donne e sette bambini, tutti orribilmente sporchi e
sudati che alla vista del colonnello si agitano non sapendo come interpretare il
nuovo venuto. La faccia stranita dell’uomo in divisa però sembra
momentaneamente calmarli. Leonid rialza i suoi bracci e riesce a spegnere
l’argine elettrico e subito penetra nel recinto suscitando nuove grida di
paura.
-
Calmatevi,
sono qui per liberarvi! – Le donne non credono alle loro orecchie, eppure
Leonid, nonostante i suoi occhiali scuri, ha un viso franco e aperto.
-
Chi
di voi è la giornalista Barbara Hill? – continua Leonid, ora solo in inglese.
-
Sono
io, ma chi siete? Cosa fate qui?
-
Sono
il colonnello Mikoyan e vengo da Mosca per liberarvi, e ora anche loro con voi.
Abbiamo poco tempo, ma voglio sapere come siete stata catturata.
-
Questa
mattina, prima dell’alba, stavo cercando di passare, di eludere gli sbarramenti
che impediscono l’accesso alla zona rossa. – la ragazza parla con una voce
prossima al pianto – Quando all’improvviso ho visto sopra di me un oggetto
sferico che emanava delle luci gialle e rosse a intermittenza e poi… poi non
ricordo altro. Ricordo solo di essermi ritrovata qui e ognuno di loro aveva subito
la stessa cosa.
-
E
abbiamo visto il massacro! – fa la giornalista con occhi sbarrati dal terrore –
poi quelli esseri, che sembravano dei… dei coccodrilli in piedi, hanno preso
tutta la carne e sono scomparsi! Io… io…
-
Va
bene, ho capito! Allora c’è una cosa da fare, anche se il tempo stringe!
Il
colonnello con il braccio sinistro abbraccia la giornalista e poi posa la sua
mano destra sulla fronte della ragazza scansando i suoi capelli. È in quel
momento che avviene un contatto fra i due, una fusione mentale. Barbara in
quell’istante ricorda ciò che ricorda Leonid. E uno di quei ricordi è sempre
stampato nella sua mente.
Ricorda
una vasta distesa ghiacciata in cui si intravede una base. Un’allucinante
esplosione, una risata sinistra di un anziano in camice bianco, un medico o uno
scienziato in mezzo a delle fiamme, un giovane viso che cerca di fermarlo e
che l’americana non sa che essere quello
di Popesco e poi dolore, dolore immenso; una vista offuscata che vede lo
scienziato vivo e pronto per una operazione chirurgica che gli parla ridendo «he,
he, he! Mi hai salvato la vita, giovane bolscevico, una vita che ormai non mi
appartiene più! E per questo hai rischiato la tua esistenza perdendo i tuoi
bracci. Ma non preoccuparti, so come rimediare!» e indica dietro di sé un robot
dissezionato non terrestre e continua con i suoi occhi arrossati da pazzo «sai,
sembra metallo vivo; sarà interessante vedere i risultati dell’impianto su di
te!» e Barbara sente un terrore incredibile tanto da svenirne. Ma Mikoyan riesce
a chiudere la mente ai suoi ricordi.
Leonid
cerca l’apparecchio localizzatore impiantato nel cranio della ragazza. Lo trova
dove in genere è, sulla fronte, un piccolo oggetto rotondo di tre millimetri di
plastica e silicio usato da militari e da alieni per monitore gli spostamenti
delle persone.
E
con solo la sua volontà lo fonde. Ora non sarà più ritrovata.
Fa la stessa cosa in fretta per le altre donne
e i bambini.
Poi con enorme difficoltà ripercorre a ritroso
lo stesso percorso, deve rifare la stessa scalata di prima, ma ripetendola ogni
volta quasi per tutti gli altri. Non ha timore di chi possa essere al di fuori
dello ziggurat ma di ciò che potrebbe arrivare.
Il gruppo guidato dal colonnello percorre
l’oscuro corridoio e finalmente rivede il cielo nero della notte. Ognuno degli
adulti ha in braccio o tiene per mano dei bambini. Discendono in fretta gli
scaloni trovandosi di fronte la statua di Lenin e poi una fuga pazzesca verso
la Lada.
Ma è inevitabile, qualcosa li aspetta prima
del fuoristrada. Una massa oscura davanti ad esso, che si alza lentamente in
tutta la sua statura superiore ai cinque metri con gambe leggermente incurvate
in avanti.
Le donne urlano e stanno per fuggire via, ma
Leonid le ferma esclamando risolutamente
-
State
tutti fermi!
Mentre parla si butta veloce in ginocchio,
accuccia le bambine vicino al collo e alza le braccia. Subito delle onde
partono dirette verso la creatura che sta quasi per afferrarlo.
Essa barcolla, stenta a stare in piedi, e poi
butta le sue braccia verso la testa. Un urlo spaventoso esce dalla sua piccola
bocca e nell’arco di un secondo fugge via nella notte. Leonid inizia respirare
affannosamente, usare le proprietà del metallo vivo innestato in lui non è solo
spaventoso ma sfibrante e non c’è la fa più. È mortalmente stanco e sente a
malapena le parole dell’americana
-
Lei
non è umano, è… è un mostro come… come…
-
Non
è vero, lui è buono! – fa una delle due bambine strette alla sua divisa, la più
piccola, e sottolinea le sue parole mettendogli le mani intorno al collo – ci ha salvato a tutti noi!
Leonid si riprende lentamente e a rilento pronuncia
-
Andiamo!
Il colonnello fa salire nello spazio angusto
del fuoristrada tutti. Poi entra anche lui al posto di guida e accende il
motore. La Lada costruita anni prima a Togliatti, fa inversione a u e decisa
prende la strada per le basse colline.
Nella lenta corsa verso la salvezza,
l’americana non riesce a trattenersi, e accarezzando la bambina che tiene in
braccio si rivolge al colonnello
-
Io…
io le chiedo scusa, mi perdoni. Se non c’era lei… Non posso crederci, da anni
girava una leggenda… ne ho sentito a Hong Kong, a Parigi, a Londra… di un
russo, un militare che penetrava in zone pericolose e ne usciva salvando vite
umane. Ma non poteva essere… non uno dell’”impero del male”…
-
Questa
zona rossa, è nata con l’esplosione della centrale atomica, ma l’esplosione è
stata fatta avvenire volutamente, come quella più recente verificata in Giappone!
-
Signore
Onnipotente!
-
È
stata voluta dalla stessa genia che governa il mondo e che sono riuniti
principalmente in Europa e negli Stati Uniti. Il suo presidente, che ha
battezzato in maniera così elegante il mio paese, era un servo di questa genia.
-
Non…
non ci credo!
-
Fa
male! Questa stessa genia è ha sua volta serva di un popolo delle stelle che da
millenni controlla il mondo e che lotta contro altri popoli delle stelle. Alcuni
di questi popoli chiedono anche di poter vivere sulla Terra, come avrebbero
fatto la popolazione dei Darkos all’Italia. Avrebbero creato una base nelle
profondità del mare tra Sardegna e Liguria, facendo intese anche con la Francia.
Con altri si arriva anche ad accordi scellerati. Materiale tecnologico
superiore in cambio di oro ed anche… cibo.
-
No!
no!
-
Per
questo come il conte di Cagliostro ormai mi cibo di pasta, frutta e vegetali.
Per non far distruggere la loro fattoria umana la tecnologia aliena fermò
un’enorme meteorite che nel 2012 doveva colpire il sole che avrebbe scatenato una
gigantesca tempesta magnetica che avrebbe colpito la Terra, procurando una
catastrofe planetaria.
-
Non
ci credo, non… non… – poi con triste rassegnazione – non potete mentirci!
Finalmente le basse
colline sono superate, in lontananza Leonid intravede i minuscoli profili dei
mezzi militari ucraini e le loro luci.
-
La
sinistra genia che ci comanda ha ormai terminato di tessere la sua intricata
ragnatela sul mondo. Poche persone che comandano delle sterminate moltitudini
di cui vogliono una mescolanza forzata delle razze. Ormai ci aspetta un futuro
di pura dittatura tecnologica di stampo squisitamente nazista velato da un
illusoria democrazia, con un dio buono che ama il suo gregge e che dietro la
sua maschera c’è solo un alieno.
-
Ma
ci siete voi, se… se potete affrontare simili creature potete...
-
Sono
stanco, debole. È ormai inutile continuare a lottare. È venuto il tempo della
sconfitta!
-
Cosa…
cosa volete dire ?
-
Semplicemente
non occupatevi più di queste faccende misteriose! – il colonnello guarda in
alto fuori dal finestrino, poi si rivolge a tutte le donne – Ormai non vi
prenderanno più. Già un'altra donna con sua figlia è in salvo, insieme a un
uomo Navajo, unitevi a loro. Se non ritroverete i genitori di questi bambini,
allora saranno vostri; vostri figli.
La vecchia Lada Niva
percorre gli ultimi metri con il suo carico umano ammassato all’inverosimile,
mentre i soldati ucraini comunicano a Kiev l’arrivo del colonnello.
-
Deve
essere il colonnello di Mosca. Ma perdio… – l’ufficiale non crede a ciò che vede con il suo binocolo a raggi
infrarossi – Avvertite i nostri superiori. Doveva tornare con una persona e
invece ne ha altre con sé. Accendete i motori e pronti a partire !
La
frenata è brusca, poi, aperte le portiere Mikoyan e la giornalista iniziano a
far scendere donne e bambini.
L’ufficiale si presenta a Leonid mentre i suoi
uomini si avvicinano alle donne per aiutare a prendere in braccio i bambini; il
tutto avviene con molta fretta. Il terreno scotta sotto i loro piedi.
- Signore, vi aspettavano solo con l’americana
!
-
Ed
ora qui avete un bel campionario umano, tenente. – poi con gran sorpresa
dell’ufficiale, Mikoyan gli volta le spalle e si dirige verso il centro della
strada – Sbrigatevi a portale via!
-
Signore,
ma cosa fa? Venga via prima che sia troppo tardi!
-
È già troppo tardi ! – dice
Leonid voltandosi verso di lui e indicando in alto.
Tutti
hanno sentito le parole del russo e si fermano gelati. Nessuno, tranne Mikoyan
che ormai ha accettato il suo destino, è esente dalla paura.
Poi
tutti i motori si spengono insieme ai fari delle auto e la scena piomba nel
buio più assoluto; e gli urli delle donne, i pianti dei bambini iniziano. Al di
sopra del colonnello una luce è comparsa all’improvviso; un enorme, smisurato
disco è sospeso in volo e una voce si diffonde nell’aria.
-
Colonnello
Mikoyan! La aspettavamo da tempo. Venga!
Leonid si rivolse un ultima volta
all’ufficiale ucraino
-
Badate
a che nessuno entri più nella zona rossa!
Dopo, l’ultima immagine del colonnello per il
tenente è che alza il braccio sinistro in segno di saluto mentre scompare
risucchiato dall’ordigno in aria.
Epilogo
Borzoff fregandosene degli ordini ricevuti (ma
nessuno lo aveva fermato) era volato a Mosca nella notte e ora ha appena finito
di riferire tutta la storia così come l’aveva sentita dalla giornalista. È con
loro la zia di Mikoyan, venuta come sempre quella mattina per pulire l’ufficio
del nipote. Ma quando qualcuno era venuto a chiamarla per accompagnarla
nell’ufficio di Popesco, avevano visto i suoi occhi arrossiti dalle lacrime.
I riscaldamenti sono
accesi ma l’ufficio, dopo la narrazione, è freddo.
-
Questa
mattina mi sono svegliata con la forte sensazione che Leonid era morto, ma che finalmente
era in pace e sono certa che anche per mia sorella è stato così!
La
donna prende dal tavolino una delle foto che vi sono sopra. In una, vi è
raffigurata la famiglia di Popesco e nell’altra ci sono Popesco, Borzoff e
Mikoyan insieme in tuta mimetica che mangiano una frugale cena.
Con la sua mano accarezza la parte della foto
dove è raffigurato il nipote.
-
I
militari rispondono a due mortali facoltà: ubbidire e uccidere. Leonid non fu
mai così; anche prima della tragedia in Antartide, disubbidiva a queste facoltà
e voi due, che eravate suoi amici, avete appreso la stessa virtù! – si ferma un
attimo colpita da un pensiero – Il peggio è che sua madre e io non avremo una
tomba su cui potremo piangerlo.
Poi fissa in volto i due amici del nipote.
-
Io…
io non me la sento di andare da sola da mia sorella, vorreste venire con me?
I due
si alzano e con calma, aspettano che la donna riappoggi la foto sulla scrivania,
e poi la seguono verso la porta.
Fine.
Genesi iniziale del romanzo breve.
Da quanti anni
avevo in mente questo personaggio ? Da molti. Probabilmente forse da sempre. Tutto
era nato da un suggestivo manifesto di una pellicola anni ‘70 di Hong Kong,
scaturita dalle imprese cinematografiche dell’ormai mitico e popolare Bruce
Lee. Questo manifesto – enorme – portato in casa da mio fratello, lo possiedo
ancora. Diceva nel sottotitolo “mani d’acciaio, occhi di tigre”. Mani d’acciaio
come quelle dello scienziato di Go Nagai… Però, essendo vissuto in una famiglia comunista
dove mio padre, ma soprattutto mio zio mi parlavano con passione dell’Unione
Sovietica, nelle mie fantasie infantili vedevo un ufficiale dell’aviazione
sovietica che lottava – come gli eroi yankee
– contro pericoli di tutti i tipi e con un coraggio da leone.
Da lì nacque
Mikoyan. Da allora c’è stato il crollo dell’Urss, il predominio pressoché
selvaggio degli usa nel mondo e in Italia, che come nazione non esiste più,
sottoposta alle leggi della finanza europea e soprattutto angloamericana.
Oggi non ho più
fiducia nei politici italiani, pagati da questa sinistra genia e dal potere
pontificio. Non ho fiducia in niente. Salvo
nei miei personaggi immaginari…
Su richiesta di
Erik Anzi, ho scritto questo romanzetto, e il suo seguito ispirandomi alle
suggestive – e terrificanti – ricerche del dottor Corrado Malanga, e del
professor Antonio Chiumiento, due ricercatori autentici e per
questo oggetti di un disprezzo a dir poco vergognoso.
Marco Pugacioff
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