Gli Etruschi venivano dalle Ande
Dagli studi della professoressa Natalia Rosi
Un ringraziamento agli amici
Sandro Mobbili e Giovanni Liverotti
Alla Biblioteca Statale di Macerata
per il loro grande aiuto
e ad
Giuseppe Zocco della
Biblioteca, Centro Documentazione e Archivio Storico IILA
di Roma.
Nel suo video del 1983, “La puerta del misterio: Machu Pichu” il dottor Jimenez Del Oso, si immerge nel caos di un mercato della captale peruviana prima di partire per l’antica cittadella e diceva «L’aria è piena di rumori e tanti odori. Alcuni di questi li ritroveremo sullo stesso treno: el choclo (il mais), los chicharrones (le cotiche di maiale), los tamales (un impasto a base di mais ripieno di carne, verdure, frutta o altro). Nei mercati come questo i conquistador ebbero le loro prime sorprese. Videro stupefatti che quella gente del mercato utilizzavano una bilancia per il peso esattamente uguale a quelle che si utilizzava in Spagna; uguale a quella che si utilizzava a Roma. Un sistema di peso che per supposto era molto più antico in Perù che fra gli stessi Incas.
E suppongo anche che contemplarono con un certo stupore come i peruviani non compravano le loro uova a dozzine come nella vecchia Europa. In Europa prevale ancora il sistema duodecimale dei Sumeri in alcune cose, mescolato al sistema decimale. Lì invece in Perù il sistema decimale era il re assoluto, il re esclusivo su tutte le transazioni commerciali e persino nella propria vita degli indigeni. Un sistema decimale che era il uguale a quello usato in Egitto e lo stesso che era stato usato a Creta, 2000 anni prima di Cristo. Una forma di conteggio e misurazione che si perde nelle più profonde oscurità dei tempi preistorici, ai quali non siamo mai arrivati.
E proprio come a Roma l’esercito dei peruviani era anche soggetto alla schiavitù del sistema decimale come le legioni dell’antico impero romano. Qui i gruppi di soldati erano distribuiti da 10 a 100 o 1000 uomini. La distribuzione della popolazione è stata fatta anche in base all’età conteggiata ogni 10 anni ma non era un’invenzione Inca. Il sistema decimale era molto più il vecchio e regnava già nel grande regno Chim ed era presente alle transazioni della favolosa capitale Chanchan e ancora era più vecchio, sebbene la sua origine ci sia nota. Ma l’insolito, ciò che dovrebbe aver catturato l’attenzione dei Conquistadores era la conoscenza nell’impero Inca del numero zero: il numero zero implica una conoscenza astratta abbastanza complessa. Per quel che sappiamo, questo concetto è nato in India. Da lì passò in Egitto e in Arabia, poi gli arabi lo introdussero in Spagna e dalla Spagna passò al resto dell’Europa ma già nel XV secolo, tuttavia, quando i conquistadores arrivarono in Perù, i peruviani avevano già la conoscenza e il concetto di zero da molto tempo.
[…]
La cultura egizia era una cultura di adobe (di mattoni) come in Perù.
[…]
Il Perù non era una nuovo paese per coloro che erano appena arrivati, ma l’Impero Inca era l’ultimo anello di una lunga catena di popoli imperi e culture che sono perso nella protostoria.
I conquistadores erano arrivati troppo tardi. Non c’era nessuno a cui rivolgersi, non c’era nessuno a cui chiedere ad esempio l’origine dei quipos o kìpos. In Perù non avevano sviluppato un sistema di scrittura o almeno questo è quello che si pensò; si usava mettere corde di cotone appese con altre corde di colori in cui vengono realizzati i nodi. Con questo sistema originale era in grado di perfezionare la contabilità di tutte le transazioni, tra cui la Amministrazione economica dello Stato.
Ma era l’origine dei kìpus? Non c’è risposta, ma senza dubbio fu un un’origine molto antica; e si volle molto tempo perché si arrivasse a quella perfezione che - secondo alcuni cronisti - si raggiunse con i kìpos. Secondo costoro i kìpu non servivano solo a tracciare la contabilità, non serviva solo a scriver numeri, ma anche fatti, eventi. La giusta combinazione di nodi e colori delle corde funzionava come una specie di ideogramma e saper leggerli si potrebbe trovare la storia di una battaglia o di una transazione commerciale o di un accordo. Chissà che i peruviani non hanno sviluppato un sistema di scrittura come la concepiamo, perché i kìpus li usavano perfettamente come una scrittura. Quante domande senza risposta in quel Perù che hanno trovato i conquistadores.
Cosa pensarono i conquistadores vedendo che quella gente erano solite celebrare le loro vittorie, gli stessi strumenti come nella vecchia Europa. Tamburi, trombe, flauti e cascavellas [altro vocabolo indicante strumenti musicali]. Da dove proveniva questo flauto pastorale, la cui figura è ripetuta mille volte nella ceramica e mantenute in vigore fino ad oggi. Un flauto che in tutti i suoi dettagli era esattamente uguale alla antica siringa dei Greci.
Quando gli Europei che arrivarono qui nel X secolo, trovarono mercati come questo e non si posero domande come quelle che ci poniamo noi adesso noi, ma sarebbe stato lo stesso.
Probabilmente neanche gli Inca non sapevano la risposta.»
ωωω
Quante domande affollavano la mente del grande ricercatore spagnolo Del Oso… Anche se nessuno ci crede, una professoressa fiorentina aveva dato una bella risposta ad alcune di queste domande.
Si trattava della professoressa Natalia Rosi de Tariffi, nativa di Barberino di Mugello, non lontano da Volterra, dove era nata nel 1907 e affascinata dal mondo etrusco, frequenta le università di Firenze, Roma e Urbino con studi in filosofia e lettere, per finire domiciliata a Valera in Venezula, dal ’48 dove ottenne una cattedra in una istituzione di questa località. E tutto per la sua vocazione per l’investigazione linguistica concentrata sull’analisi delle lingue indigene delle Ande come il quechua e l’aimara.
Il suo bel libro America quarta dimensione, gli etruschi vennero dalle Ande, fu stampato a Caracas nel ’69. Non si conosce la data della scomparsa della studiosa, ma scommetto che le sue investigazioni sono state considerate scientificamente infondate dalla comunità universitaria. Infatti lasciò inediti altri studi dai titoli dannatamente interessanti come el desafortunaso nombre de las Islas Afortundas (Lo sfortunato nome delle Isole Fortunate), América y Venezuela, nombre autóctonos (America e Venezuela, nomi autoctoni) più un Tratado de Etruscolgia e oggi sicuramente perduti.
NATALIA ROSI DE TARIFFI
AMERICA,
CUARTA DIMENSION
Los Etruscos salieron de los Andes
ωωω
AMERICA,
QUARTA DIMENSIONE
Gli Etruschi venivano dalle Ande
1969, Monte Avila Editores c. A. Caracas I Venezuela
Portada John Lange
Quod videbitis, vidi.
L. Bertonio
En portada del Vocabolario
De la lengua aymara,
Lima, 1610
Come sottolinea la professoressa per gli etruscologi, come per i moderni Pallottino o Raymond Bloch, la etruscologia ha accumulato molti fallimenti nel corso dei secoli che ha riassunto in vari punti di cui ne estraggo nei punti sottostanti:
- L’origine della lingua etrusca è assolutamente sconosciuta.
- L’etrusco può comunque essere letto, poiché questo popolo, con o senza ispirazione fenicia, fu l’inventore dell’alfabeto che ci è stato tramandato in tutto il mondo Romano. Tuttavia, non è possibile decifrare il significato delle sue parole.
- Non è stato possibile giungere alla ricostruzione del paradigma della declinazione del nome.
- Non è stato possibile stabilire la distinzione tra pronomi e preposizioni.
Ed infine
- Il significato dei nomi Etruria, Toscana, Tuscia, è assolutamente e completamente sconosciuto. Il valore semantico di questi nomi è ancora limitato ai contributi millenari delle “glosse” e alle interpretazioni degli scrittori antichi.
Insomma l’origine degli Etruschi resta un mistero e il suo linguaggio ermetico, astruso ed enigmatico resta indecifrato, frainteso, non tradotto.
E prosegue con… L’evidenzia che l’etruscologia ha condotto le sue indagini con metodi sbagliati o inadeguati, risiede nel fatto di avere ha sottolineato il problema dell’ignoto della lingua etrusca come “fenomeno isolato e astratto, naturalizzato all’ambiente e alla Civiltà italica, senza considerare gli Etruschi come un popolo europeo e mediterraneo che conviveva con altri nello stesso ambiente geografico. Gli Etruschi, invece, furono costretti a per rafforzare le relazioni con altri gruppi etnici contemporanei per stabilire con loro quegli scambi economici, politici e sociali di cui la storia, pur con tante lacune e interrogativi, attesta la validità. Altrimenti ne conseguirebbe che questo popolo dominante, arrogante e prepotente avrebbe dovuto vivere e svilupparsi nel mondo eurasiatico, condannato ad un isolamento linguistico in nessun modo coerente con le loro azioni storiche, dovuto al fatto che la loro lingua non è compresa da nessuno dei tanti popoli che, in un ambiente piccolo come il Mediterraneo o la penisola italiana, furono loro contemporanei.
Scrive ancora…
Gli Etruschi provenivano dalle Ande. Arrivarono alle rive vergini dell’Arno dal continente americano [e qui dà una nota interessante di cui parlerò alla fine] dove erano rimasti per millenni formando parte di una civiltà megalitica i cui resti archeologici portano i nomi di Tiahuanaco, Sacsahuaman, Machu Pichu, Ancón [? Ancon...a ???], Pisaj [?Pisa…y ??? Ma che cavolo di allucinanti coincidenze!], ecc., sono troppo noti per meritare paragrafi applicativi. L’età di questi resti non è stata ancora determinata con esattezza e vi sono opinioni divergenti sulla loro cronologia.
Il mistero degli abitanti dell’antica Toscana è il più risaputo; e questo non solo per il clamore suscitato dalla loro presenza nella preistoria e nella storia della Penisola, ma anche per i legami che l’Etruria ebbe con Roma.
Il contenuto fondamentale della nuova teoria sulle origini degli Etruschi e la decifrazione della loro lingua, possono essere riassunti nel seguente seguenti affermazioni…
di cui ne estraggo solo alcune:
- La lingua etrusca non è mai scomparsa né è andata perduta. Si è evoluto normalmente nel latino, nell’italiano e nelle cosiddette lingue romanze.
- Come conseguenza delle affermazioni precedenti, l’affermazione secondo cui le lingue indoeuropee derivino dal sanscrito è falsa; Così come è falsa l’affermazione secondo cui le lingue romanze definite derivino dal latino.
- Il linguaggio è frutto delle necessità, e tra queste, di quella che sotto forma di imperativo categorico, esso preesisteva all’organizzazione del lavoro umano pianificato e collettivo. Al di sopra delle discrepanze che esistono nella valutazione delle età cronologiche dei resti megalitico, si suppone che, qualunque sia questa età, un periodo per millenni è stato essenziale per l’articolazione dei suoni gli umani si congeleranno nell’efficienza concreta delle parole correlate, che esprimeranno desideri, ordini, mandati e che innalzeranno costruzioni ciclopiche sulla faccia della terra.
- Le parole sono cose e fatti indissolubilmente legati alla continuazione della specie, per questo la classificazione tra La distinzione tra lingue “morte” e lingue “vive” è arbitraria e artificiale. Non possono esistere lingue morte di fronte al fenomeno reale della continuazione della specie. Il patrimonio lessicale delle cosiddette civilizzazioni estinte o morte è passato, attraverso gli uomini e delle loro attività, alle forme di vita e di condotta che ne seguirono,le assimilarono e furono una conseguenza della loro apparente scomparsa.
- Il linguaggio è uno strumento necessario per tutti gli uomini senza distinzioni etniche o cronologiche.
Il linguaggio è lo strumento che nel piano del pensiero ha reso possibile la strutturazione della logica stessa, stabilendo la trinomio indissolubile: "cosa-idea-suono", o il suo equivalente: "fatto-immagine-espressione". In questo trinomio l’interrelazione dei termini è motivata e imposta da esigenze. Ecco perché il linguaggio è un fenomeno assolutamente logico, il cui meccanismo è evidente nel riconoscimento e nell’identificazione della parola e nel suo rapporto con la radice che l’ha originata.
[…]
Prendiamo la parola spagnola "máquina". "macchina" in italiano. Si sostiene che questa parola derivi dal latino machina, —ae, e che costituisca ciò che in linguistica viene chiamato un “prestito” dal greco dorico dell’Italia, con un doppio significato di "maquinar" (intrigare) e "costruire”, fare un lavoro con una macchina".
Basandosi sull’etimo latino e tornando al prestito dorico, con l’eccezione che i prestiti devono essere motivati anche nelle loro lingue originali, la radice "mach, maq, macch" (latino, spagnolo, italiano) di macchina, macchinare, non ci dice assolutamente nulla. La definizione attraverso il greco dorico che "prese in prestito" la parola con entrambi i significati, non applica ciò che è nella parola "macchina" la correlazione tra la cosa, il fatto o l’azione che l’ha originata con la sua radice "maq", perché non ne dà la motivazione, cioè il significato della sua radice. Le parole sono cose e fatti che vengono espressi tramite suoni, e i suoni non sono altro che mezzi. espressioni strumentali, ma risultano essere flatus vocis quando non ne conosciamo il significato funzionale.
In Kechwa la parola maqui o maki significa “mano”. Maquina o makiy sono due forme verbali dell’infinito e significano "fare qualcosa con la mano". Risalendo alle origini dell’evoluzione umana, avremo la costante maq kechwa, la radice della parola, in perfetta concordanza sintagmatica con i cambiamenti morfologici e semantici. Inoltre, avremo un’etimologia perfettamente logica della parola, poiché la mano, strumento di manipolazione e di lavoro, è stata la prima macchina che l’uomo ha messo in moto. Accettare che la parola sia sempre originariamente motivata da esigenze, e la zona di oscurità provocata artificialmente è stata superata e a posteriori, mediante l’ipotesi della lingua perduta, troveremo immediatamente la correlazione tra la “cosa”, l’“immagine della cosa”, l’“immagine della forma fonetica” (significato-significante, cioè parola, secondo Saussure), e il “nome” o forma fonetica.
[…]
Ciò che si vuole dimostrare è che il Kechwa e l'Aymara sono le lingue generatrici delle lingue etrusche, latine e post-latine. La dimostrazione verrà effettuata mediante comparazione linguistica. Sarà qualitativo e non quantitativo; Per questo motivo la verifica del primo postulato verrà effettuata scegliendo tre parole che consideriamo suggestive.»
Delle tre parole ne scelgo solo una:
il Picchio.
«Picchio è una parola proveniente dall’italiano, giunta alla stessa lingua attraverso il latino; picchio è il nome di una specie zoologica di volatile.
Il termine italiano picchio, che indica un esemplare di uccello, è una parola molto misteriosa e molto importante non solo nella linguistica, ma anche nella storia e nella mitologia preromana e romana. Picus era il nome della più famosa delle divinità prelatine, identificata con l’uccello picus. Il dio fatale Picus era il dio dagli attributi più strani: era venerato come supremo protettore e padre dell’agricoltura e della fertilità. Era figlio di Stercutus, il letamaio, inventore del fertilizzante organico, che portò fertilità alla terra. Era anche il dio del lavoro, della mano e delle sue funzioni. Era il dio della mano che affila l’arma per difendere e offendere, della mano che preme la mola per soddisfare il primo bisogno dell’uomo: il cibo; la mano che aiuta la partoriente e il neonato; la mano che bussa alla porta per chiedere ospitalità.
L’iconografia di Picus ha costituito e costituisce uno degli enigmi inspiegabili del mondo prelatino e latino. Era rappresentato e adorato come uomo e come uccello. Gli attributi della sua divinità ed i suoi simboli erano: una piccola ascia, la mano de batán [batán che il traduttore in rete mi dà la gualchiera; secondo la treccani in linea: Nell’industria tessile e conciaria, sinon. di follone, soprattutto con riferimento ai folloni più antichi, in cui le mazze erano messe in movimento dalla ruota d’un mulino ad acqua] la mano del lavoratore per macinare il grano e la scopa. In quanto dio delle nascite, agiva nel seguente modo: quando avveniva la nascita, si divideva in tre geni o divinità, che eseguivano il seguente rituale: bussavano alla porta della casa della partoriente con la piccola ascia; poi toccarono con la mano di pietra [después tocaban con la mano de piedra]; e infine spazzarono la soglia della porta con la scopa. Questo rituale era un mistero per gli stessi Romani e ha continuato a esserlo per gli esegeti del loro mondo mitologico, religioso e mistico, nonché per gli studiosi della lingua latina. Non è stato possibile trovare la relazione idea-parola, concetto-azione. L’ascia, la mano, la scopa, non hanno potuto essere collegate né al nome del dio Picus, né alla sua personificazione come volatile, né ai gesti taumaturgici destinati a sollevare la madre e facilitare la nascita del bambino.
Il nome Picus, prelatino, privo di etimo né in latino né nelle antiche lingue italiche, tra cui l’etrusco, può essere chiaramente spiegato attraverso il Kechwa. In Kechwa la parola pichiu significa pájaro [volatile]. Il culto dell’uccello è insito in tutta la mitologia andina, come lo era in quella mediterranea. Nel mondo andino il condor era considerato un uccello simbolo della divinità. Roma attribuisce un ruolo simile alle sacre aquile, emblema dell’esercito e del potere.
Questa etimologia, già di per sé interessante, non avrebbe l’importanza che ha se la parola pichiu, insieme ad altre parole della stessa lingua inca, dalla fonetica simile ma dal significato diverso, non intervenissero a spiegare in modo chiaro il rituale del dio Picus e le sue attribuzioni. I simboli di questa divinità erano, come abbiamo detto, el pájaro [il volatile], la mano, el hecha [l’ascia], la escoba [la scopa]; l’uccello ha la sua spiegazione nella parola Pichiu, che significa volatile; La mano viene spiegata con la parola picbqa, che significa cinco [cinque], le cinque dita della mano.
Questo significato delle dita per mano è confermato dall’espressione spagnola choque esos cinco per dire dammi la mano e nell’analoga espressione toscana dammi il cinguale che significa anch’essa dammi la mano.»
Rimangono la escoba cioè scopa e il suo misterioso rituale. La parola kechwa Pichay significa spazzare, passare la scopa. La escoba, la scopa si chiama pichana.
L’ultimo simbolo del rituale del dio Picus, el hacha cioè l’ascia, nel suo significato di agevolazione del parto aprendo la strada al nascituro, può avere una duplice spiegazione. La parola spagnola hacha ha due forme in latino: ascia, -ae e securis. -es. attenendosi alla forma ascia, in Kechwa abbiamo ach, una parola dal significato molto ampio e una formula di augurio che significa: così sarà, così deve essere, oppure: questo evento si svolgerà felicemente e senza dubbio e sotto i migliori auspici. Etimologia del tutto soddisfacente quando si tratta di un rito di propiziazione prima della nascita del bambino.
Questo termine attesta anche la forza della tradizione e pensiero logico basato sul linguaggio, poiché avendo sacerdoti del dio Picus pronunciano questa parola in tempi immemorabili, accade con essa lo stesso che con le parole del Carmen dei Frati Arvales e del Carmen dei Salii, che seguirono pronunciandolo nonostante la completa ignoranza del suo significato.
Infatti prosegue la professoressa in nota, le parole rituali dei due Carmina, già nei tempi arcaici della regalità, rappresentavano, per il loro contenuto e significato, un enigma indecifrabile. Lo stesso vale per le tavolette denigratorie rinvenute molti secoli dopo tra le rovine della città di Pompei.
La parola ach fu solo un termine privo di significato fin dalla più remota antichità del mondo preromano; Tuttavia, l’attaccamento alla tradizione religiosa e il senso pratico della vita, qualità essenziali della psicologia dei Romani, ponevano nelle mani del Sacerdote officiante una "cosa" il cui nome aveva analogia con l’incomprensibile parola del rito: ach, dal remoto linguaggio generatore, il cui significato si era perso nel corso dei millenni, materializzandosi poi nell’oggetto liturgico ascia.
Nonostante tutto il mondo romano chiamava lo strumento affilato e sacro con un altro termine: securis; Non si può quindi escludere un etimo attraverso questo secondo canale, in cui la radice ach non avrebbe alcun ruolo. Sia ascia che securis sono di certa e indiscutibile discendenza etrusca, per essere entrambi parte del simbolismo e del rituale politico-religioso che i Romani ereditarono dagli Etruschi. La securis sulle fascie era il simbolo della autorità dei Littori.
La parola securis, al medesimo modo che la parola ascia, può esser spiegata per mezzo di una radice kechwa, anche se la grande ricchezza delle parole matrici in questa lingua ci anteponga l'ambiguità della scelta, poiché si presentano due radici di due parole diverse, entrambe capaci di svolgere il loro ruolo di generatrici: seqay o ceqay, e sequey. Il primo significa guardar fuori, uscire, salire (Andare o muoversi verso l'alto.); il secondo, separare, delimitare, dividere i termini o i limiti di una o più cose. Seguema è lo strumento utilizzato per separare.
Questa seconda radice, ceq e seg, dai vocaboli ceqay e sequey, offre anche un etimo soddisfacente rispetto alla loro semantica; Tuttavia, i riferimenti storici, l'archeologia e l’iconografia ci inducono a preferire il termine latino ascia, piuttosto che securis. Ascia è uno strumento più piccolo che Securis. Picus, secondo la mitologia, era armato de un hacha pequeñita, una piccola ascia; ora, la securis, sia quello degli uomini con l’ascia sia quello del simbolo littorio, era grande e pesante.
Questa scelta della parola ascia al posto di securis sarebbe confermata dal significato propiziatorio della parola Kechwa ach, la cui traduzione è così sarà, così deve essere, il che conferisce senza dubbio più valore al criterio elettivo, quando si ha a che fare con un rito religioso.
Le parole Kechwa: pichiu, pájaro ovvero in italiano volatile; pichqa, cinque e, nel suo trasferimento ideologico, mano; pichay, spazzare, spiegano, oltre all’etimo del nome Picus, le misteriose attribuzioni del dio, i suoi simboli e la sua iconografia.
Ancora…
La parola è sempre motivata, ragione questa per la quale l’esistenza, in tutte le lingue, di parole senza motivazione apparente, rivela la presenza primordiale di un linguaggio generativo universale.
La lessicogenetica, oltre a lavorare sulle radici, non considera mai la parola in modo isolato, poiché indaga famiglie di parole raggruppate secondo i “geni” linguistici. La strutturazione della lessicogenetica è stata una conseguenza del riconoscimento o della scoperta della lingua universale generativa, il cosiddetto anello mancante nella genealogia del parlare [del habla della parola], e della sua identificazione con le lingue della preistoria americana: il kechwa e l’aymara.
Come dimostrazione veloce il metodo seguito dalla lessicogenetica, daremo un esempio. Le parole mater, materia, madeja, materassa (colchón in italiano) sono generati dalla radice "mat", di cui l’etimologia disconosce la motivazione. Il riconoscimento di questa radice nel verbo kechwa matuy, che significa apretar stringere, unir unire, compactar compattare, apisonar tamponare, pisar calpestare, abrazar abbracciare, dar el amplexo dare l’amplesso, ci fornisce la motivazione remota delle parole indagate.
Su questa base non è stato difficile decifrare il termine etrusco matuta e identificare nella misteriosa mater matuta della mitologia preromana la madre abbracciata, la madre stretta nell’amplesso.
la decifrazione e la traduzione della lingua etrusca sono importanti, nonché la determinazione del luogo di provenienza di questo popolo, la cui organizzazione politica, religiosa e sociale fu alla base della civiltà romana. L’identificazione della lingua madre generatrice di tutte le lingue con un gruppo linguistico della preistoria americana può anche essere considerata un fatto di trascendenza; tuttavia, il lavoro più decisivo e costruttivo della lessicogenetica è la verifica teorica della monogenesi del linguaggio e il riconoscimento del potere attuante della parola nei suoi aspetti retrospettivi.
Assolutamente fantastico e straordinario!!!
La professoressa dopo le dimostrazioni sulle tre parole di cui ho scelto solo il picchio per ovvie ragioni (sono nativo marchigiano) conclude: La lingua etrusca non scomparve né si perse, ma si evolse nel latino, nelle cosiddette lingue romanze e in altre lingue del mondo di influenza etrusco-romana. Esiste una relazione stretta e diretta tra le lingue della preistoria americana e quelle della preistoria mediterranea.
E il suo studio cercava di dimostrare proprio questo.
Ha parlato anche di connessione linguistiche sugli ebrei, i quali sono come i templari, c’entrano sempre, mettendoci perfino uno studio sugli Zingari, con notiziole comunque interessanti.
Ed ora viene il bello, ma veramente!
La parola lupo, presente in latino nella forma lupus, non è, secondo i canoni della linguistica ufficiale, di origine indoeuropea; ne tantomeno si trova traccia nel sanscrito; per questa ragione è considerata appartenente al lessico preromano.
Spiega ancora in nota che Questo lessico è stato classificato e denominato in base ai diversi popoli che abitarono l’Italia preistorica.
Andiamo avanti…
In Italia, come in tutto il mondo eurasiatico, si ebbe un diffuso culto solare, con ampia rappresentazione zoomorfa, come testimonia la mitologia egizia e greca. Tra gli animali consacrati al dio Sol ovvero il Sole, vi era el lobo, il lupo, in italiano. Questo simbolo passò al mondo romano con lo stesso culto; La loba o lupa ne fu la massima repressione iconografica.
Nota della professoressa: La lupa fu il primo simbolo della città di Roma. i due gemelli nutrendosi del suo latte, sono un'aggiunta degli scultori del Rinascimento. La scultura originale dei tempi arcaici della storia romana, opera di artisti etruschi, non presenta i gemelli dell’omonima leggenda.
La lupetta romana e quella carolingia
Nota mia: in realtà, secondo gli studi della professoressa Maria Carruba nel 2006 la mia lupetta preferita sarebbe di epoca carolingia, perlomeno, per chi vuol crederci. E ammò torniamo al libro.
Los lobos, i lupi, in italiano, erano animali consacrati anche al culto del dio Apollo, divinità della luce.
Nei sacrifici e nei riti, i carboni e le braci ardenti erano considerate i suoi attributi. Particolarità che poi la professoressa Natalia spiega poi con la parola Soracte (come il monte)…
Secondo questa simbologia, lupo e lupi sarebbero vocaboli che indicavano le emanazioni fisiche e naturali delle divinità solari, cioè: i raggi, il calore e la luce.
En kechwa, lupi significa: rayo (raggio), calor (calore) e luz (luce).
La pelle di lupo era l’insegna dei sacerdoti del culto di Apollo ed è stata una delle principali esternalizzazioni e manifestazioni del culto solare, legato alle rappresentazioni iconografiche di maschere con zanne pronunciate.
Le divinità solari del mondo prelatino ed etrusco si rappresentavano in forma zoomorfa come felini, e in forma antropomorfa come esseri umani vestiti con una pelle di lupo, simbolo della loro identificazione con questo animale sacro.
Collatia (Collazia) è il toponimo di una importante città pre-romana, situata nel territorio sabino. I suoi abitanti, i Collatini, son considerati da Tito Livio" come appartenenti alla antichissima stirpe sabina, definita, come pur vivendo nel Lazio era di origine straniera e sconosciuta per i suoi costumi e per lingua.
E in nota: Il toponimo Sabina, nome del habitat dei Sabini, può spiegarsi con la parola kechwa sapi che significa raíz in italiano radice; sapiy, metter radici, essere radice; sapina, altra forma infinitiva dal medesimo significato. I sabini sarebbero, secondo questo etimo, gli antichi abitanti, coloro che furono radice e fondamento di una stirpe che in tempi molto remoti mise radice in quella parte della penisola che i seguito ebbe, in conseguenza de questo fatto, il nome Sabina. La medesima parola kechwa sapi spiega il nome Sabelli; la sua traduzione letterale nella espressione sapi ayllu significa la radice della gente, la gente primitiva, la radice del ceppo genealogico.
[…]
Il toponimo Collatia, proprio come la denominazione de las “siete colinas” in italiano le sette colline, vengono dall’aymara collo, monte, collina.
Nota: da molte testimonianze storiche e geografiche sappiamo che non erano precisamente sette. Forse questo numero fu la corruzione tarda della antica parola kechwa ceqte, che significa divisione, demarcazione.
Esistono molti altri toponimi, fuori del habitat del Lazio, con la medesima radice e lo stesso significato.
E in nota: Collatio (Norica), antica città della Spagna; Collo, dipartimento Constantina in Algeria; la antica Collops-Magnum e Municipium Culli dei Romani, Collobiano, Italia; Collobriere, Francia; Collonges, Francia, Collessie, Scozia. I toponimi italiani della stessa radice e significato sono omessi, perché sarebbe una lista molto estesa, come del resto quelli della zona andina, dei quali citeremo come esempio: Collacachi, collina della sal, Perú; Collona, Perú; Collouse, Perú; Collo, varie località in Bolivia e Cile.
L’etimo della parola collis si presentò come un enigma per i latini.
[…]
Varrone deduce questo etimo da col-ere, coltivare, parola che a sua volta da un supposto cultivus, formato sopra al latino cultus, participio passato del verbo colere, che significa sempre secondo Varrone impugnare, spingere l’aratro. In Aymara, per spingere l’aratro, arare profondamente, si esprime con il verbo collitha; verbo che ci dà l’etimo di un’altra parola latina molto discussa: culter, filo dell’aratro di ferro, per il quale Georges propone come deriva dalla parola coliter, da colere, coltivare.
Colla sono chiamati e sono stati chiamati fin dalla più remota antichità gli abitanti degli altipiani andini, attualmente Alto Perù, Bolivia. I Colla erano divisi in molti gruppi, famiglie o tribù; tra le principali:
- Sillustani, Gruppo appartenente agli Hatun Colla o Colla Mayores, la cui sede erano le rive del lago Titicaca. La parola Hatun (“h” aspirata) potrebbe designare il demonimo (in spagnolo gentilicia. Detto di un aggettivo o di un sostantivo: Che denota una relazione con una posizione geografica) dei Catoni.
- Juli, Originari della comarca (zona, regione) di Chucuito (Cúneo-Vidal,la professoressa dice opera citata alle pagg. 150-155, ma non sono riuscito a trovare la prima menzione). Stirpe dei Paucar Colla o Colla Minori.
- Pacani, Ubicati anticamente sulle rive del lago Titicaca, in posizione estremamente deserte e isolate. Si denominavano Pacani o Pacajes, a causa della loro natura huraña (cupa) e per vivere molto in modo parsimonioso e separati dagli altri, serbando gelosamente le proprie tradizioni, in particolare quelle religiose. Paca e Pacani significa in Kechwa coloro che intendono viver ritirati o nascondersi. Il significato del pagus, paganus del latino, potrebbe avere la sua origine dal pacani kechwa.
- Capi, “Da Ati nacque Capi, da capi, Capeto, da Capeto, Tiberino…” Tito Livio, Op. cit., p. 28 (Genealogia dei re di Roma da Romolo in poi). Questi nomi, come spiega lo stesso Livio, non sono di origine latina.
- Lupaca o Lupac Haqque, Il significato letterale di Lupac Haqqae è: figlio di Lupi, cioè figlio del calore, di luce. Sol il Sole. Anche i Romani si consideravano figli del Sole, e il simbolo di questo culto erano i lupi. La leggendaria nutrice dei due reali Gemelli Romolo e Remo, fu una lupa. Ma il vero nome della donna, moglie del pastore Faustolo, che allattò i due bambini, era Acca. “Romolo stancava la sua nutrice Acca che lo portava.” Stazio, Silv., II, 39; Tito Livio, Hist., l, 3).
Acca, secondo Livio, era soprannominata Lupa per la sua condotta. In latino, lupa, significa prostituta, e la donna era conosciuta con il nome di Lupa Acca, nome che le fu dato, e secondo la leggenda, Romolo e Remo venero chiamati figli di Lupa Acca, o figli della Lupa. ‘espressione latina Lupa Acca è nella traduzione letterale della espressione Kechwa-Aymara Lupac Haqque, figlio del Sole.
- Lucani o Lucana. Vedremo più sotto...
La professoressa Natalia passa poi a…
Soratte, “Soracte, Soratta, è il nome preromano di un monte situato a 37 chilometri a nord-ovest di Roma. Famoso luogo sacro di importanza trascendentale nella mitologia prelatina. Il Soratte era il monte sacro consacrato al dio Apollo o Febo, el Sol (il Sole). Silio Italico, Punica, VIII.
Il dio Sorano-Apollo o Aplu-Sorano veniva adorato sulla sommità del monte Soratte, dove già in epoca arcaica delle civiltà italiche e ben prima della fondazione di Roma, sorgevano i resti di un antico tempio dedicato al Sole, che gli Etruschi chiamavano Dios Aplu.
Aplu-Sorano, dio della luce e del fuoco, veniva rappresentato coperto della sacra pelle di lupo e accompagnato dai lupi, suoi animali totemici.
Dopo aver rievocato i misteriosi riti dei pastori irpini dedicati al dio Aplu-Sorano in cui si danzava sopra braci ardenti parla de…
Soratta, Soracta, Soratha, è il nome di un’altissima cima Andina (6617 metri s.l.m.) a est del lago Titicaca, dove si trovano i resti megalitici di un tempio dedicato al dio Sole, venerato con i nomi di Wilcanota o Apu-Illapa, signore del fuoco e della luce. Sora, in aymara, è il nome dato a una bevanda alcolica molto forte e inebriante, allucinogena, e il verbo soraacta significa preparare, fare questa bevanda. Si crede che la montagna del Soracta fosse in tempi antichi un vulcano, e per questo motivo, viene anche chiamata Ancohuma. Huumi in aymara significa vapore o vapore che esalta. Huumaatba, hunmiraatha, sono verbi aymara che significano fumare, esalar vapore, mandar fuori fumo.
Sono evidenti le analogie con questo, il mito prelatino e quello andino, e il loro parallelismo non potrebbe essere presentato più chiaramente.
Dopo pagine altrettanto (per me) straordinarie, riprendo gli ultimi esempi molto belli…
Ancona,
nome di un’antica città che precede la presenza storica degli Etruschi, capitale della cosiddetta Marca Anconitana, già famosa come porto sul mare Adriatico, prima dell’espansione marittima degli antichi Toscani. All’interno del suo centro urbano, sulla sommità del monte Guasco, sulle rovine di un tempio pagano, è edificata la cattedrale. Oltre che per il suo porto, la città era famosa, anticamente nella penisola iberica, per le sue fonderie e per la fabbricazione di corde e cavi per la marina.
Continua nella nota: Huasca, da cui deriva il nome del Monte Guasco, antico luogo sacro della città etrusca di Ancona, significa in Kechwa: cuerda [corda], beta [spago], cordel [cordone]. L’ayahuasca, letteralmente “la corda dell’uomo morto”, è una pianta a forma di liana o di corda le cui proprietà allucinogene, note fin dall’antichità, venivano utilizzate dagli aborigeni per preparare una pozione narcotica nelle loro pratiche religiose.
E continua… La tradizione e la storia attribuiscono agli Etruschi l’invenzione e l’applicazione dell’ancora. E sempre segnala dove riprende le notizie in nota: Puletti, Orazio. Gli Etruschi, popolo misterioso. Viterbo, 1960, p. 55.
La radice anc è l’origine delle parole italiane áncora, ancla [ancora], e ancoraggio [in spagnolo anclaje]. Ancona, come toponimo portuale, è comune con le relative varianti, in tutte le lingue romanze, in guancio e in altre lingue eurasiatiche e celtiche.
Nota: Qui è impossibile fornire un elenco completo dei porti di tutti i paesi e di tutte le latitudini la cui radice è anc. Ne menzioniamo Alcuni: Anciron, Asia Minore, Golfo da Ismid; Anciola, porto delle Isole Baleari; Ancresse, baia presso Le Havre; Angoy (Cabenda), Africa, il miglior ancoraggio nella regione del fiume Zaire, al confine con il [oggi ex] Congo Belga; Angola, Angora, l’antica Ancira, Angostura, Venezuela, ecc.
Ancón è il toponimo di un’antica città Inca sulle rive del Pacifico… Nota: “I lanciagiavellotti e gli archi [Lanzadores de venablos v arcos], come quello fatto di legno di palma scoperto ad Ancón, erano sicuramente strumenti comuni usati nella caccia.” Bushnell, G. H. Perri. Barcellona, Argos, 1962. (Pagina 20). “Sulla costa centrale i cimiteri più noti si trovano ad Ancón e Pachacamac e contengono numerosi resti mummificati avvolti in tessuti finemente intrecciati, sepolti in camere coniche e cilindriche.” I primi cacciatori nominati a p. 57 del lavoro di Bushnell, risalgono a un periodo compreso tra il 7000 e il 3000 prima dell’era Volgare. Vedi la tavola cronologica delle culture peruviane, p. 24-25 dell’opera citata.
Prosegue poi con Ancoraime, un’altra città sulle rive del Titicaca. Entrambi i luoghi ospitano importanti rovine e resti archeologici della preistoria; entrambi erano fondeaderos [Luoghi con profondità sufficiente per l’ancoraggio delle barche.] e porti: anclajes [ovvero ancoraggi, porti, darsene…].
Funzionalmente el ancla, in italiano l’ancora, dipende da un cabo tenso [una corda tesa]. La parola angla in spagnolo significa cabo [cavo], cuerda [corda] e agra [Sostantivo indicante l’insenatura (parte del mare che entra nella terraferma)] appunto è sinonimo di insenatura, baia, ancoraggio.
In Kechwa la parola ancu significa cuerda [corda], tirante [cinghia], beta [corda o filo.], tendón [tendine], cabo [cavo].
Pisa,
in latino Pisae, è la città la cui fondazione è antecedente agli Etruschi e fu legata alla leggendaria storia dei Pelasgi. Nota: In latino il nome di questa città è tra quelli che non hanno il singolare e si esprimono solo al plurale: Pisae, Pisarum. Non si conosce il motivo di questa forma grammaticale di alcuni toponimi di città antiche. Riteniamo che questo fenomeno grammaticale sia dovuto al fatto che queste città nacquero come un insieme di edifici per vari motivi: strategici, commerciali e religiosi. Come movente strategico, sarebbero rappresentati da un insieme di fortificazioni difensive; Per motivi commerciali, avrebbero potuto sorgere in corrispondenza di incroci e costituire un insieme di punti di scambio o mercati; Per ragioni religiose, una città avrebbe potuto formarsi attorno a un gruppo di edifici destinati al culto, ecc.
Prosegue… Non si conoscono le sue origini; nel periodo di massimo splendore dell’Etruria fu una delle dodici Lucumonie. Situata sulla costa tirrenica, alla foce del fiume Arno, è dotata di fortificazioni per difendersi dai numerosi pericoli che l’hanno insidiata nel corso della sua storia travagliata: le acque, le incursioni dei pirati e gli attacchi a sorpresa dei suoi nemici. Per queste ragioni la città presenta l’aspetto di una fortezza e di una cittadella. Le sue fortificazioni sono davvero imponenti; La sola cinta muraria ha un perimetro lungo dieci chilometri e sulla riva destra dell’Arno vanta una fortezza ciclopica che costituiva un baluardo inespugnabile. Le descrizioni della città fornite dagli scrittori antichi sono contraddittorie e oscure.
Infatti, in nota… Rutilo Namaziano, in un passo piuttosto oscuro, racconta che Pisa deve il suo nome alla stretta faglia di terra su cui è costruita: Si entra attraverso l’apertura frontale su una stretta striscia di terra. Catone, nella sua opera Origenes, secondo la testimonianza di Servio (Comm. Nell’Aen. X, 179), afferma che non si sa chi furono i popoli che fondarono la città di Pisa, né quale sia l’origine del suo nome.
La radice pis è molto comune nella toponomastica della preistoria andina e sono innumerevoli i toponimi derivati da questa radice, distribuiti in tutto il continente. E in nota dice: Pisacolli, Perù, provincia di Parinacocha; Pisacoma, Perù, dipartimento Puno; Pisaguan, Perù, dipartimento Arequipa; Pisana, Perù, porto fluviale nel dipartimento de Loreto, provincia di Huallaga; Pisaqueri, Bolivia, dipartimento Oruro; Pisarata, fiume della Bolivia, dipartimento Oruro; Pisaqueri, Colombia, dipartimento Cauca; Pisagua, Cile, prov. Tarapaca; Pisapanaco, Argentina, prov. Catamarca; Pisay, Messico, stato di Yulcatán, Municipalità Valladolid. ecc.
Tra tutti Tra questi toponimi, il più famoso è quello dell’Inca Pisaj, il cui nome significa città fortificata. Questa cittadella faceva parte di un sistema di fortificazioni progettato per proteggere un gruppo di imponenti edifici il cui utilizzo è sconosciuto. Tra questi, la più famosa è l’Intiwatana, che era allo stesso tempo sia un tempio e sia un osservatorio astronomico. La città, situata su un altopiano a più di 3000 metri sul livello del mare e 22 chilometri da Cuzco, è delimitata da enormi precipizi su attorno al quale si ergono le gigantesche mura destinate a renderla inespugnabile.
Nella regione di Pisatis, Pizatis, Pisides, dove si ritiene che ci fosse situata un’antica città greca chiamata Pisa, ci sono grandi resti megalitici di fortificazioni e rovine. Nota: Nel “Vecchio Mondo” c’erano diverse città con gli stessi nomi. radice pis, tra cui: Pisarum, l’attuale Pesaro (Italia), Pisany (Francia), Pis (Francia), che si ritiene prenda il nome dalla città di Pisa. Le Sacre Scritture menzionano anche Pisga, un monte della Palestina. sulla costa orientale del Mar Morto.
Prosegue con le…
Marche
(Regione dell'Italia centrale situata verso l’Adriatico) o Marca sono due nomi che risalgono al mondo preromano. Sebbene non compaia come toponimo latino, questo nome indica un territorio che i Romani chiamavano Picenum, così chiamata per il culto che i suoi abitanti, i Piceni, dedicavano al dio Picus.
Si trovano tuttavia tracce della sua radice marc in un gran numero di cognomi e nomi antichi del mondo romano delle origini. Nota: Da Anco Marzio a Marco Aurelio, tutti i nomi e cognomi romani come Marcia, Marcial (Marziale), Marcelus (Marcelo), ecc. derivano dalla stessa radice marc. il cui significato coincide con quello di Marx, Martius, relativo a Marte.
Roma chiamò Marcomanni una tribù germanica contro la quale combatté nelle regioni danubiane. Prosegue in nota: Con questo nome i Romani distinguevano un’antica tribù germanica, appartenente alla confederazione degli Svevi, la cui sede era il territorio situato tra i fiumi Elba e Odre. I Romani iniziarono le loro conquiste durante l’Impero. Nell’anno 88 dell’Era Volgare, i Marcomanni si unirono ai Daci e ai Quadi e respinsero gli invasori. La guerra continuò sotto gli imperatori Traiano e Adriano. Dopo il II secolo, i Marcomanni tentarono di invadere l’Impero e di attraversarne le sue frontiere; Marco Aurelio riuscì a sottometterli nel 174, ma solo sotto l’imperatore Commodo Roma stipulò una vera pace con loro, obbligandoli a diventare suoi tributari.
Non abbiamo notizie specifiche sull’antichità del nome Marche o Marca, come toponimo del territorio marquense della regione italiana meglio conosciuto con il demonimo di Picenum. Strabone (Geografia. V, 4, 13.) e Plinio (Natur. Hist. III, 70.) parlano di una colonia etrusca, Mercina, situata sulla litorale salernitana, dove sono apparse testimonianze archeologiche della cultura villanoviana, considerata uno dei centri etruschi più arcaici (Pallottino, Op. cit., pág. 146, 200.).
Le Marche, già nell’anno 268 dell’Era Volgare, facevano parte del territorio che in epoca preromana e romana era denominato Picenum. Sempre in nota: Territorio compreso tra il versante orientale dell’Appennino e il mare Adriatico, dal fiume Marecchia al fiume Tronto. Le Marcas (in spagnolo le Marche) formavano un quadrilatero delimitato a nord dall’Emilia, a est dall’Abruzzo [a me pare al sud, comunque] e a ovest da Umbria e Toscana. Le sue città più importanti sono: Pesaro, Urbino, Ancona, Macerata, Ascoli-Piceno [manca Camerino, evvabbé]. Dei popoli dell’antico Picenum, dice Dionisio (I, 74, 3) che costituivano un mosaico di genti, alcune indigene, altre “arrivate da molto lontano, e da molti luoghi. Queste genti avevano una lingua e costumi diversi”. Secondo l’autore citato M. Pallotino (Etruscologia, p. 58) “sul versante adriatico e specialmente nel Piceno, si sono avute tracce di un dialetto di incerta classificazione”.
Secondo gli etimologi, questo nome è dovuto al fatto che le Marche sono regioni di confine; Tuttavia, questa regione d’Italia non presenta caratteristiche particolari che giustifichino tale qualificazione, essendo tanto Fronteriza (confine) come ogni altra della Penisola.
A sud e a nord delle Marche e nella stessa posizione geografica, a est dell’Adriatico e delimitata a ovest dagli Appennini, si trovano altre regioni italiane, le quali, pur avendo le stesse caratteristiche territoriali, non si chiamano Marche. Tra queste, a nord del Piceno, si trova la Romagna e a sud l’Abruzzo.
Altri toponimi italiani, come altri fuori dalla Penisola, indicano che la radice marc non è determinante dei concetti di: frontera (frontiera), linderos (confine), límites (limite).
Nota: Marcadal, nome francese di molte piazze del mercato nel sud della Francia. Si ritiene che questo nome sia di origine catalana. Marcaide, prov. da Vizcaya, municipio di Mugnaía. Marcalani, Spagna, prov. dalla Navarra. Marcallo-Casone, Italia, provincia di Milano. Marcamps, Francia, dipartimento della Gironda: con celebri resti di costruzioni megalitiche dette Pair-non-pair. Marcaria, Italia, in provincia di Mantova. Las Marcas, una piccola regione della Francia; le sue città principali: Alenzón, Argentan, Seez. Las Marcas, in Scozia, dal Mare d’Irlanda fino alla valle del fiume Tyne, comprendono la cosiddetta Marca Occidentale nella valle del Reed; la cosiddetta Marca del Centro, che raggiunge la foce del fiume Tweed; e la cosiddetta Marca del Este. Marcedusa, Italia, prov. di Catanzaro. Marca hispánica, Penisola iberica. Nell’anno 785 vennero inclusi i limiti della Marca Ispanica tra Barcellona e Gerona. Dopo l’811, e in accordo con gli arabi, i confini di questo territorio furono ben definiti: il confine delle Panadés tra i bacini idrografici dei fiumi Lobregat e Gayá.
Abbiamo anche altre parole dalla stessa radice, il cui significato non è esattamente quello di tierra fronteriza (terra di confine): maqués (il marchese), e marca (confine), che ha il significato semantico di segnale. L’etimo della parola maqués, appunto il marchese, deriva anche da marca ossia Frontera (confine) segnalando questo titolo nobiliare come pertinente ai signori delle terre di confine. Tuttavia, l’origine della parola deve essere stata diversa, poiché non tutti i feudi, nemmeno quelli più importanti, i cui signori erano distinti con questo titolo, erano situati sulle terre di confine.
Secondo la definizione della legge del Marchese delle Siete Partidas (Partida II, titulo 1.), significa signore di qualche terra che si trova nella regione del Regno. Che equivale per definizione a: signore di una regione o di un territorio, indipendentemente dalla sua ubicazione.
In Kechwa, marka significa: pueblo (città), terra che appartiene alla stessa comunità. Nota: “Nome del paese e delle terra che appartengono a un aytin”. Guardia Mayorga, Diccionario kecbwa-castellano y castellano-kecwa, Lima, 1961, pag. 65.
In Aymara, marca significa: ciudad (città), pueblo (paese).
La radice marc genera anche il sostantivo marca e il verbo marcar, cioè distinguere una cosa dall’altra mediante un segno o marca (marchio). In questo caso, si suppone che l’etimo della parola marca si suppone derivi dall’alto tedesco marka, segnale. Nell’italiano arcaico questa parola significava paese, terra, regione (Dante e Giovanni Villani usono il vocabolo nel senso di paese, terra) e segnale (Usano “marca” come segnale, Giovanni Villani, Matteo Villani, Francesco Serdonati e altri), ma non vi figura il valore specifico di marca come confine, limite, confine. (Prati, Angelico. Vocabolario etimologico della lingua italiana. Milano, 1951, pag. 625)
Il vocabolo germanico marka, da cui deriva il significato di confine, demarcazione, è dato dalla linguista Angélica Prati, come supposto; pertanto l’etimo della parola è dubbio.
La parola marca, señal (segnale), deriva dall’aymara, poiché in aymara marca significa señal (segnale) o marca, e marcatha, verbo, significa: marcare, porre segnali, sigillare o ordinare di sigillare qualcosa, distinguere con un señal (segnale). Vedi Bertonio, Ludovico. Op. cit., VI, pág. 226.
Questo mi dà la conferma che la denominazione della regione adriatica conosciuta come Marche è venuto dall’alto–Medioevo, da Carlomagno; questo signorotto frank, che con le sue continue campagne estive per la reclutamento forzato di nuovi “servii della gleba”, [vedi il caso di Verden nell’ottobre dell’782 (dove avrebbe decolavit decollato, tagliato il collo a più di 4000 prigionieri sassoni… invece li trasferì, delocavit o come azz si scrive in latino], avesse diviso in zone ben marcate, ben divise tra coloro che contavano e coloro che lavorarono la terra, ben definito dai dialetti locali, principalmente dall’anconetano e da quello più a sud camerte (dall’antica Camerino) oggi maceratese e fermano e ascolano. In pratica, [chi a orecchie per intendere mi capisca], seppur fantasticandosi poi sopra, comunque il professor Carnevale non si era inventato un bel niente!
Non per nulla messer Carlomagno viene accostato a quella malefica entità detta unione europea, che distrugge lingue e culture dei singoli stati europei.
ωωω
Però a pensarci bene e se Camerino, l’antica città sotto i Sibillini, fondata dai Camerti Umbri, da Kamer, roccia… forse.
Invece no[contenti, eh?]. Pietra in lingua aymara e kechwa si dice Kala.
Peccato! Grrr! Ci sono andato vicino… ho provato a colpire al centro del bersaglio, ma – seppur è un mito – di Robin Hood c’è ne stato solo uno!
Proseguiamo con altra ricerca della professoressa, con…
La Lucania
è un'antica provincia dell’Italia meridionale, situata nell’estrema regione occidentale della Penisola; È bagnata a ovest dal Mar Tirreno e a est dal Mar Ionio ed è attraversata longitudinalmente dalla catena appenninica. Le sue principali città nell’antichità furono: Paestum, Elea, Pyxo, Turio, Eraclea, Metaponto; Volcentum, Eburi. I Lucani, considerati di razza sabellica, occuparono il Sannio intorno all’anno 400 prima dell’Era Volgare.
Nota: La preistoria del Sannio è molto oscura e i dati archeologici stessi non sono sufficienti per ricostruire la sua cultura. Tuttavia, i Sanniti furono il popolo più importante del ramo sabellico del tronco italico, e li troviamo storicamente stabiliti nella regione meridionale della Penisola, oggi chiamata Calabria. Il nome Calabria non è un nome moderno. Era il nome preistorico della regione e ha prevalso su altri nomi successivi con cui veniva chiamata.
Non si sa nulla della lingua dei Sanniti, se non che probabilmente era l’Osco.
Tito Livio menziona l’occupazione, dei Sanniti, dalla città etrusca di Capua nell'anno 429 prima dell’Era Volgare e chiama i Sanniti nuevos colonos cioè nuovi coloni. Non è stato discusso di una parentela tra Etruschi e Sanniti, parentela che doveva essere una realtà a giudicare dagli elementi linguistici, per quanto riguarda la comparsa in Roma i gladiatori, di sicura importazione etrusca, erano chiamati samnitas.
Del nome Samnium, toponimo della regione, e del demonimo Samnitae, nulla si sa. Se i Sanniti parlavano la lingua de los Oscos ovvero gli Osci, tra i nomi Osco, Samnium, Calabria deve esserci una relazione linguistica.
Tra i dati lessicali sui quali abbiamo basato questa affermazione, Citeremo la controversa parola oscillae del latino. Questo termine indicava alcune maschere di “barro cocido” (argilla cotta), che erano oggetto di un culto molto misterioso e diffuso nella Roma arcaica.
Nei cosiddette feste delle Semetivae, le oscillae venivano poste appese ai templi e delle case, come propiziatorie e più di ogni altra cosa come esecratorie, per rifiutare o lanciare incantesimi.
[Personalmente ne ho già parlato nel mio scritto su I risvolti macabri di Arlecchino e Pulcinella]
Gli esecratori erano realizzati in cordoncillos o ritagli di lana. Calabre, parola che non figura nel latino classico, significava cordel ovvero corda, filo ritorto o intrecciato. La parola calabre si fa derivare dal greco kalós, che significa in spagnolo cordel, corda. Caldabrote, in gergo marinaro significa atajio in spagnolo scorciatoia o collegamento, oppure cuerda anudada, una corda annodata; sempre in spagnolo abbiamo la parola calabriada che indica nello spagnolo enredo (groviglio), maraña (aggrovigliamento), lío (disordine, pasticcio, confusione).
Nelle Sementivae si professava culto ad entrambi i tipi di maschere: quelle fatte di argilla cotta e quelle fatte di filo. Entrambe le maschere, secondo quel che il lessico indica, erano di origine sannita. La parola oscilla non è stata spiegata in modo soddisfacente.
Si dubita se derivi dal verbo oscillo, che il latino classico non registra, la parola os, oris, bocca, faccia, viso, lingua e linguaggio. Oscilla in questo caso sarebbe un derivato de oscillum, diminutivo da os, che significa bocca piccola, faccia piccola, visino o piccolo viso.
La relazione linguistica tra le parole: Osco, oscilla, Sementivae, Samnium, Samnitae come fabbricanti di oscilla, può essere determinato attraverso l’espressione lessicale Kechwa sañu, che significa “loza cocida” cioè terracotta, o “barro cocido” ovvero argilla cotta (González Holguín, Op. cit., p. 334… altro libro sfuggito. Il suo bel libro deve essere senza una buon limatura). Questa parola identificherebbe i Sanniti come fabbricanti de las oscilla, maschere di argilla cotta.
Un’altra parola Kechwa spiega il termine ermetico Sementivae, con le quali si designavano le feste delle maschere di terracotta: simi, che nella lingua del Incaro significa bocca, effigie umana, volto e linguaggio. L’osco non era un dialetto insignificante; Era una lingua abbastanza generale e diffusa nella Penisola e, secondo Ennio, non aveva alcuna relazione con il latino.
Uno degli episodi più importanti di questa penetrazione fu l’occupazione e la distruzione della meravigliosa Paestum, Pestum, Paiston, Pesto, quella delle rose, immortalata nei versi di Virgilio, Properzio, Ovidio e Marziale.
I conquistatori lucani non si limitarono a sostituire l’antico nome della città. Lingua, costumi, religione, tutto era cambiato. Aristogene di Taranto (Aristógenes de Taranto. Athenaios. XIV, 652.) racconta: "Gli abitanti di Poseidonia sono diventati veri barbari. La loro lingua e i loro costumi sono cambiati. (Lingua e costumi greci, secondo questo scrittore) Celebrano una sola festa greca: si riuniscono, pregano, ricordando i loro antichi nomi e i costumi di ieri. Poi, quando hanno finito di lamentarsi e asciugato le lacrime, si separano".
Questa e altre simili affermazioni di scrittori antichi sembrano essere d’accordo con i fatti, poiché il nome di Paestum, di apparente origine latina, difficilmente potrebbe essere stato un contributo linguistico dei Lucani, la cui lingua non era il latino, che essi ignoravano, (Pallottino, Op. Cit. [ma quale? Ne vengono indicate 5 in bibliografia] pag. 57) e la cui preistoria ci è sconosciuta (Sempre Pallottino, a pag. 78).
Sembra che la città di Poseidonia sia stata fondata con questo nome intorno all’anno 600 prima dell’Era Volgare, sul sito di un’altra città più antica, chiamata Pesto, le cui origini sono sconosciute. Secondo la nostra interpretazione delle testimonianze storiche, il nome Pesto non scomparirà per tutta la durata della città e non sarà altro che il toponimo primitivo, che i Romani, dopo la conquista, latinizzeranno in Paestum.
L’affermazione sul pianto e il desiderio degli abitanti di Poseidonia per una terra, dei costumi e di una lingua perduta doveva riferirsi a eventi molto più antichi e appartenere a un mondo di vaghe reminiscenze che risalivano a un tempo molto lontano. I dati fornitici dagli antichi scrittori sulle delizie e l’eccezionalità del clima, l’abbondanza e la magnificenza universalmente nota de le rose di Paestum, che fiorivano rigogliose due volte l’anno, ci autorizzano a supporre che questo insieme di fattori climatologici sia il risultato di una posizione geografia privilegiata e riparata dai venti freddi delle vette appenniniche.
Una città che ha un’origine preistorica così remota e che è stata ricostruita più volte nel corso dei secoli sullo stesso sito, deve sicuramente la sua sopravvivenza a potenti fattori geografici da cui deriverebbe il toponimo che la contraddistingue.
Come abbiamo affermato studiando il valore semantico dei toponimi, essi non nascono dal nulla, e tanto meno dal caso e dal capriccio: sono sempre dovuti a motivazioni specifiche. In quelli di origine molto antica la motivazione è costituita prevalentemente da fattori geografici o ambientali; Nel più recente, il motivo le motivazioni geografiche vengono sostituite da quelle storiche. Cambiamento determinato da un fatto o evento importante del gruppo etnico; Tuttavia, la nuova motivazione non cancellerà mai il vecchio nome, che rimane sempre in una o nell’altra espressione lessicale la cui la motivazione, ovvia o nascosta, è di origine ambientale, storica o etnografica.
Se il fattore climatico ha potuto determinare l’origine del nome dell’antica Paestum, è ovvio che tale fattore e le condizioni che possono averlo motivato non possono essere esclusivi o peculiari del paesaggio geografico di questa singola città della preistoria lucana. In nota scrive… Aristogene fa un curioso miscuglio genealogico per spiegare questo nome latino “…Accadde che, essendo gli abitanti di origine ellenica, divennero barbari, si trasformarono in Tirreni (equivale a Etruschi) o in altre parole, in Romani, e cambiarono la lingua e il resto dei costumi.."
E in effetti, Molti altri siti e luoghi del mondo antico si trovano nelle stesse condizioni climatiche e ambientali che determinarono il nome della preistorica Paestum, come conferma il gran numero di città antiche che hanno come generatore dei suoi toponimi la radice pest. Sempre in nota… Pest (Buda-Pest en Ungheria), Pestchancié, Pestchanokopshoié, Pistiari o Pestakovo, Paestrafka, Pesttretzy, etc. (Russia), Pestes (Romania), Pestrini, Pestivien (Francia), Pestchanka (da questo nome altre due città in Russia e una in Ukrayna), e altre ancora.
L’origine di questa radice non è stata identificata dai linguisti, poiché alcuni etimologi ne hanno riconosciuto l’esistenza prelatina. Nota… Non abbiamo trovato questa radice pest: in sanscrito. Vedi: Rodríguez Adrada, Francisco. Védico y sánscrito clásico. Gramática, textos anotado: y vocabolario etimológico. Madrid, 1953, p. 188. Il fatto che non si trovino tracce della radice sanscrita conferma l’ipotesi che la parola Pesto, toponimo ritenuto di origine romana, non derivi dal latino.
Si tratta, al contrario, di un nome preromano, molto più antico. L’antichità di città come Buda-Pest, Pestivien, Pestrini, e Pesto stessa, è testimoniata dai suoi resti megalitici: le imponenti mura e le rovine degli edifici di Pestivien, tra che contiene la famosa “Mesa de las Ofrendas”, la Tavola delle Offerte, un monolite di 4 metri di laghezza; le mura e gli antichi resti archeologici nel dintorni di Buda—Pest, ecc.
Per quanto riguarda Buda-Pest, la prima parte dal suo nome ha la stessa radice Kechwa put, bud, che ha avuto origine il nome dei vecchi Puteolis e di molte altre città, i cui toponimi sono motivati dalle sorgenti di acque sulfuree situate nei loro territori. Le acque sulfuree e termali di Buda erano note agli antichi, così come quelle di Puteolis. In Kechwa il verbo putuy significa emanare cattivi odori, puzzare; putun significa puzzolente. La città di Putina, nell’Alto Perù, era famosa per le sue sorgenti termali sulfuree, conosciute e sfruttate fin dalla preistoria.
Andiamo avanti con le belle righe della professoressa…
Il caso del nome Pesto presenta un’altra particolarità linguistica legata a un curioso cambiamento semantico molto posteriore, dovuto a un’associazione di idee per analogia con la parola peste, dalla stessa radice.
Gli scrittori moderni hanno definito il clima di Paestum come pestilenziale, malsano e dannoso, arrivando addirittura ad affermare: "...nessuno si azzarda a visitarla nella stagione estiva, temendola come focolaio di malattie infettive..."( Enciclopedia Espasa-Calpe. Tomo 43, pag. 1446-47.).
Questa triste affermazione avrebbe potuto provenire da un parere di Strabone, scrittore relativamente moderno (Geografo greco dei tempi de Tiberio che regnò dal 14 al 37), riguardo all’antichità di Pesto, il quale, influenzato dai sostantivi latini pestis, pestilencia, deve avervi fatto riferimento mentalmente quando affermò nella sua Geografia: "Il fiume vicino, che forma paludi, rende la città malsana".
L’aria e il clima di Pesto, dichiarati pestilenziali molto più tardi, non potevano essere così malsani o dannosi come dimostrano le doppie rovine della città, le quali attestano la sua ricostruzione nello stesso sito.
Nel VII secolo d.C., l’antico e preistorico Forum del sito megalitico di Pesto fungeva ancora da affollato mercato agricolo per l’intera zona.
Strabone, contemporaneo dei poeti e degli scrittori latini che celebravano il fascino della città primaverile, che gioiva di ben due raccolti di rose all’anno!
E in nota la professoressa sottolinea che esiste una classe di rose classificate dai botanici con il nome da rosa pestana, per significare il suo profumo intenso e persistente, inoltre dalla sua abbondante produzione.
Strabone ricorre, per la misteriosa etimologia del suo toponimo, alle fonti di cui dispone nel lessico latino, e le accetta letteralmente.
Come possiamo accordare opinioni così contrastanti che ruotano attorno a un nome che sappiamo non appartenere a un insignificante conglomerato umano, bensì a una delle più antiche e suggestive città preistoriche della Penisola?
Le rovine megalitiche, i templi di Poseidone, Vesta, Cerere, il Forum, le terme, ecc., sono testimoni della grande antichità della città, ricostruita dai Greci e dai Romani.
Impossibile che tali opere, e le mura ciclopiche che difesero la arcaica Pesto e che perdurarono nella Poseidonia dei Greci e nella Paestum dei Romani, siano state risollevate, ricostruite e riutilizzate nel corso dei secoli (fino al secolo VII dell’Era Volgare), "in un luogo dall'aria malsana e pestilenziale".
Il toponimo Pesto deriva dal verbo Kechwa pistuy che significa riparare, ricoverare, coprire, riparare, avvolgere.
Nota… L’antica città preromana di Pistoia, nel cuore della Toscana e adagiata sulle pendici dell’Appennino, presenta le stesse caratteristiche della città di pesto nell’aspetto della sua natura; Tuttavia, il suo clima è meno benigno, a causa delle sue coordinate geografiche.
Altra simpatica nota… L’etimologia del La toponimo di Pistoia è da ricercarsi nel fatto che questa antica città era un famoso luogo di produzione di pistolas… cioè di pistole. Un’etimologia inverosimile, poiché le pistole sono armi recenti e Pistoia era considerata antichissima già dagli stessi Romani. Nei suoi dintorni il ribelle Catilina morì accerchiato dai legionari. Si può supporre che il nome pistola, usato per indicare arma in generale, è più antico della ben nota arma da fuoco, e che ogni oggetto destinato "all’offesa a tradimento, o alla difesa prudente e cauta, doveva essere pistola ma nel senso di pistuy, cioè tenuto, nascosto, avvolto.
Torniamo al testo…
Questa motivazione del nome Pesto, indica il clima dolce e primaverile del luogo in cui venne fondata.
Pistu è un sostantivo Kechwa e significa protezione, riparo, involucro; pistuña, forma verbale con l’agglutinazione del suffisso ña, significa: è coperto, avvolto, riparato. Diamo a questa forma verbale agglutinata, in cui è facile riconoscere l’origine e il significato del sostantivo spagnolo pestañas (in italiano ciglia), efficace complemento alle palpebre per riparare e proteggere l’occhio.
Nota… La parola párpado, in italiano la palpebra, ha il suo etimo nel verbo Kechwa parpay, che significa sia volare sbattendo le ali, sia ammiccare, cioè sbattere la parte mobile ed esterna dell’occhio.
I dati lessicali da noi esaminati sono testimonianze della lingua prelatina generale parlata nella Lucania preistorica.
Una regione o distretto dell’antico Perù era chiamato e viene ancora chiamata Lukana o Rukana.
Questo territorio è compreso tra le sorgenti dei fiumi Lomas o Romas, Yauca e Río Grande, dalle punas bravas alle pianure costiere.
Il demonimo dei Lukanas Kechwas deriva dalla parola luka o ruka, che significa dedo de la mano ovvero dito della mano. In russo, ruca significa mano.
Il nome dei Lukanas, secondo il Kechwó-logos, è dovuto alla conoscenza e alla padronanza che questo popolo aveva della numerazione decimale. Numerazione che loro, come altri popoli primitivi, effettuavano utilizzando le dita della mano.
E in nota scrive… La radice della parola lukana, con il senso del contare, è presente nel titolo della famiglia reale sumera: il Lugal, Lukar, era il Re - amministratore, secondo le tavolette di contabilità sumera e ACADIA. Il dito non era non solo uno strumento per il conteggio di base, ma anche una misura di lunghezza nel mondo sumero.
Altri etimologi spiegano l’origine di questo toponimo con il fatto che i Lucani erano abili annodatori di corde ( In questo caso il nome corretto sarebbe llukuna, da lluku, red anudada, rete annodata), o estremamente abili in tutti i tipi di lavori manuali, di artigianato, come testimoniano, tra l’altro, i bellissimi tessuti ritrovati nelle loro antiche tombe.
I Lukanas erano un popolo eletto e distinto, con privilegi speciali e, anche in tempi storici e all’arrivo dei conquistadores, mantennero alcuni di questi privilegi, tra cui quello di essere portatori de las Andas o della portantina dell’Inca di Cuzco.
Il territorio dei Lukanas, chiamato Marcalukana fin dalla preistoria o Lukanamarca, è particolarmente interessante per le sue impressionanti rovine archeologiche. (Gérol E, Harry. Dioses, templos y ruynas. Paris, Hachette, 1961, pag.179)
Quando gli Etruschi compaiono nella storia, si sono già trasformati in “Italici”, sono già un popolo di lontana antichità, secondo le affermazioni degli scrittori greci e latini. Attraverso il prisma dei millenni guardano indietro al proprio antenato e, nostalgici e pieni di desideri, parlano dell’età dell’oro: di un divino paese, dei loro antenati, adorano l’antichissimo Saturno, un numero ritenuto indígeste cioè indigeno.
Nota: Saturno, Giove, Enea, il Re Latino e altri personaggi della mitologia preromani erano chiamati numen indígeste, cioè divinità indígeta, il che oggi possono essere tradotti come divinità indigene. Questo qualificatore indígeste rappresenta un’altra parola latina arcaica senza etimologia chiarita o riconosciuta. Il dio Sole, che non aveva un nome specifico nella mitologia preromano e romana, era semplicemente chiamato Sol Index o Index. Indigete, Index, può essere spiegato mediante la radice kechwa della parola Inti, sole, sommo dio della mitologia dell’Incario.
[…]
Tra gli strani riti degli Etruschi vi era il pellegrinaggio annuale ad un tempio chiamato Fanum Voltumne, la cui ubicazione è sempre stata sconosciuta.
[…]
Secondo molte testimonianze della storia antica, gli Etruschi sono considerati stranieri senza patria, indesiderabili, degli strani nuovi arrivati che, conducendo una vita incomprensibile, dicono cose senza senso tempo. Giovenale, in una delle sue frasi dal contenuto più oscuro, a quanto pare deride i segreti degli Etruschi: “... al figlio appartiene l’oro Etrusco, il nudo (nodo) e dell’umile distintivo di cuoio…”(Giovenale, Satire, V, 163.) La storiografia non è stato in grado di spiegare "a quale tipo di nodo si riferisce Giovenale. Questo riferimento potrebbe essere correlato ad una scrittura di nodi come i quipu?
Nota: Vari storici, tra essi Tacito (Ann. XI, 14) e Tito Livio. (Hist., IX, 36, 3), menziona che gli Etruschi conoscevano una scrittura di forma diversa, anteriore all’alfabeto.
[…]
La lingua greca ci ha trasmesso la parola arpedonaptay, formata dal sostantivo arpedone, corda, cordame, e dal verbo apto, annodare, legare, come espressioni di una capacità perduta di scrivere per mezzo di corde annodate. Il termine arpedonaptay si riferiva a coloro che scrivevano annodando le corde, come i Kipukamayu del Impero Inca.
[…]
ben chiara è la descrizione dei catadenos ovverosia il legame tra i nodi magici nelle pratiche del devotio, le quali, nel mondo romano, risalgono al IV secolo prima dell’Era Volgare. I Sacerdoti della Roma arcaica, secondo queste testimonianze, avrebbe letto le formule magiche dei loro sortilegi su corde annodate.
Insomma a questo punto direi di fermarmi, ho rubato (ma amichevolmente e senza scopo di lucro!) parecchio (fin troppo) dalla ricerca a dir poco straordinaria, profonda ed estremamente seria della Professoressa Natalia.
E purtroppo questo libro non sarà mai editato qua da noi, e se lo sarà, sarebbe ampiamente rimaneggiato.
Ah! La professoressa Natalia inoltre citava…
Mario Gattoni – Celli, scomparso a Roma il 29 luglio del 1968, dopo poco aver pubblicato il interessante lavoro: Gli Etruschi dalla Russia all’America, Roma, Aism, 1967.
E personalmente devo citare il bravo Peter Kolosimo, che sul suo Italia, mistero cosmico, SugarCo, Milano 1977, cosa che non ricordavo più, che menziona la straordinaria ricerca della professoressa fiorentina, nel capitolo Etruschi sulle Ande, da me, completamente dimenticato, finché non me ne parlò Ivano Codina [che riuscì a disegnare e a pubblicare sue storie a fumetti di Tiramolla a livello nazionale, Grrr che invidia!], poche settimane fa.
E dire che sono due anni che non riesco a scrivere il mio racconto
“Cucciolo e la piramide etrusca” dove rivelo la provenienza del popolo di Tiramolla.
Qui sopra una tavola di Marina Baggio e Angelo Scariolo dal n. 1 del ’93.
Sono più che convinto che il mondo accademico dopo aver letto questo libro deve averlo classificato come una pura scelleratezza.
Lo già provato e lo provo tuttora sulla mia pelle, con l’ipotesi storica scaturita dalle scrupolose ricerche del professor Giovanni Carnevale sulla Asquisgrana picena.
Così agisce la scienza/scemenza in perfetto accordo con il Potere politico (stati europei e Papato) e universitario.
Già, eppure è interessante leggere per quanto riguarda i Quipos ciò che si scrisse su…
GIORNALE ENCICLOPEDICO DI NAPOLI - SECONDO ANNO DI ASSOCIAZIONE, Том. IV., NAPOLI 1808, pag.66
«MISCELLANΕΙ.
Congetture sull’origine delle nazioni d’America, estratte dalla Biblioteca brittanica.
Hanno gli antichi conosciuta l’America? È questa una quistione che è stata spesso discussa, e che è rimasta indecisa. Platone dice che i preti di Egitto parlarono a Salone di un’isola Atlantide, situata dicevan essi, a molte giornate dallo stretto di Gibilterra. Quest’isola, secondo il rapporto de' preti, era molto più grande della Libia, ma era stata inghiottita dal mare in un violento tremuoto. Diodoro Siculo parla anche egli di una grande isola, ove i Fenicj furono gettati dalla tempesta. Egli aggiugne che i Cartaginesi si davano molta pena per nascondere al commercio; ad oggetto di conservarsi il privilegio esclusivo del traffico che colà facevano.
[…]
Due sole supposizioni possono farsi su di ciò. O gli Americani sono originarj d’America; o sono venuti da qualche altra parte del globo. I popoli hanno del pendìo a credersi originarj de' luoghi che abitano. Gli Ateniesi aveano questa pretensione. Ed i Messicani assicuravano che i Re di Spagna discendevano da un Re del Messico. Ma anche quando la storia de' più antichi stabilimenti de' popoli, contenuta nelle sacre carte, non ismentisse la prima di queste supposizioni, questa congettura non avrebbe in se stessa veruna verosimiglianza.>>
E prosegue con altri argomenti di cui il più stimolante è da pag. 81 a pag. 84
<<Gli Americani ed i Cinesi paragonati.
I Peruviani avevano quattro grandi feste l’anno. La principale si celebrava a Cusco, capitale di tutto il paese, dopo i solstizj, la seconda e la terza, ne' due equinozj. La quarta in un’epoca variabile. Queste feste hanno molta analogia con quelle de' Cinesi, tanto pel numero che pel momento dell’anno in cui avevano luogo. I Cinesi fanno le loro feste negli equinozje ne' solstizj .
I Sovrani del Perù e quelli della Cina pretendono egualmente di essere discendenti del sole.
A Cusco eravi un campo che niuno poteva coltivare fuori dell’Imperatore e la sua famiglia. L’Imperatore della Cina ha anch’egli un campo ch’è riserbato per lui ed i suoi figli.
Le donne del Perù, se bisogna credere Frezier, hanno la passione di avere il piede piccolo, e per acquistarlo si sottomettono ad una dolorosissima compressione. Tutti conoscono qual prezzo i Cinesi attaccano a questo vantaggio. Egli è vero che questo fatto rapportato da Frezier appartiene alle creole del Perù, e non già alle donne indigene. Ma potrebbe non pertanto esser avvenuto che le Spagnuole Americane avessero improntato da queste alcuni de' loro costumi.
I Peruviani non conoscevano l’arte di scrivere, e si corrispondevano per mezzo de quipos, ossiano nodi simbolici. I Cinesi, prima dell’invenzione de' caratteri, di cui fanno uso al presente, si servivano anch’essi di nodi, per comunicarsi scambievolmente i loro pensieri a grandi distanze.
I quipos de' Peruviani erano formati di fili di differenti colori, ciascuno de' quali aveva il suo proprio significato. I nodi che vi facevano servivano loro a calcolare colla stessa facilità , di quella de' nostri mercanti che calcolano colle cifre. Per mezzo de quipos, tenevano essi il registro degli abitanti del loro vasto Impero, de' loro guerrieri, le tavole d’imposizioni, il registro de' nati e de' morti. E tutto ciò era tenuto con molta esattezza.
L’orditura de' quipos era arbitraria. Spesso gl’Incas hanno cangiato il senso attribuito a certi colori dai loro predecessori.
Se i Peruviani fossero una colonia di qualche parte dell’antico mondo, si potrebbe ragionevolmente supporre ch’essi siano stati originarj della Cina. Ma come mai hanno essi potuto venire di là fino in America? Hanno traversato l’Oceano pacifico? hanno girato il Capo di Horn, o traversato lo stretto Magellanico? Questo sembra molto difficile. In verità non sarebbe impossibile, che toccando molte isole intermedie per rinfrescarsi, alcuni navigatori abbiano traversato l’oceano pacifico. Se si volesse opporre che i vascelli cinesi sono di una costruzione troppo debole per un tal viaggio. Si potrebbe rispondere che anche i Russi che sono stabiliti a Iakutsk, hanno disceso la Lena sopra deboli barche, quindi hanno girato i capi di Eissen e di Tchutski, e sono entrati nel fiume d’Anadir. I vascelli costruiti a grandi spese dalla Imperatrice Anno non poterono fare lo stesso. Le isole Salomone che sono situate tra l’Asia e l’America, come mai sono state popolate? Queste isole scoverte sotto il regno di Filippo II, avevano degli abitanti, quando vi approdarono i primi vascelli europei. Come gli americani non avevano marina, queste isole non hanno potuto essere popolate che dai Cinesi. Ora il passaggio dalla Cina a queste isole era molto più lungo del tragitto da queste isole in America.
De Guignes, ch’era versatissimo nella storia e letteratura delle nazioni orientali, dice espressamente, che nel 458, i Cinesi facevano un gran commercio colla California. Buache chiama la California Quivara; ed adotta, sotto quel nome, l’opinione di De Guignes. Se è vero che i Cinesi hanno scoperto il paese di Quivara, non è impossibile che i loro discendenti abbiano costeggiato il lido, e siano giunti al Perù, dove finalmente avranno formato uno stabilimento. Non è dunque improbabile, che Magno Capac, il primo Inca del Perù, fosse Cinese.
Bisogna qui riunire una osservazione propria ad illustrare questo soggetto. Giammai la navigazione nel tempo stesso , nello stesso periodo istorico, e presso differenti popoli, ha toccato il più alto grado di perfezione. Quest’arte conviene in ciò con tutte le altre, colle scienze e col commercio. Questi vantaggi passano da una nazione all’altra, e cangiano i popoli barbari in nazioni civilizzate, mentre che altre nazioni civilizzate ricadono nella barbarie. Qual nazione ha superato gli Egizj nella marina è nel commercio? Essi hanno fondate delle colonie in Africa ed in Europa. Hanno esteso il loro commercio sul mare atlantico. In fine, partiti dal mar rosso han fatto il giro dell’Africa. I Greci hanno avuto anch’essi una marina mercantile e militare. Tutta la potenza di queste nazioni è oggi annientata. Ed esse continueranno a gemere sotto un dominio straniero finchè la Providenza non mandi loro un liberatore.»
ωωω
La provenienza degli Etruschi e personalmente mi chiedo dei Piceni, qual’è? Con la prima nota del libro la professoressa scrive…
La tesi sostenuta da questo lavoro è puramente linguistica. Non spetta a voi stabilire come ebbe luogo questa emigrazione, né quali furono le rotte di questi spostamenti. I popoli andini avrebbero potuto raggiungere l’Italia attraverso molteplici vie, sia marittime che terrestri […] e via dicendo sostenendo ancora la via dal nord.
Già perché tutto viene dal nord, i miti celtici lo provano. Una volta lessi un libro con una buona tesi, ma personalmente inverosimile, che la civiltà del Chanchan, venisse dall’Ungheria.
In una recente polemica dal facebukolo, vi era uno studioso albanese che in contrapposizione al suolo italico rivendicava un’origine del linguaggio dall’antica terra dell’Epiro.
MAPPA INEDITA DELL'ANTARTIDE DALLE LOGGE VATICANE con MARCO ENRICO DE GRAYA
Marco enrico De Graya sostiene la tesi che la Groenlandia – rivendicata solo per ragioni meschino-strategiche dagli yankee – dovrebbe essere l’antica sede di Atlantide.
Il problema è molto più semplice! Italia o Albania o Sumeria sono di fronte al mare e… i fiumi, i mari, gli oceani sono stati per millenni le vere autostrade dell’uomo!
La tesi che un’enorme strato di ghiaccio collegasse la Siberia all’Alaska e permettesse così il passaggio di uomini e animali, cari signori saccenti, è semplicemente DEMENZIALE!
Il gelo uccide ne più, ne meno che il piombo rovente di Tex Willer! Come sostiene con ragione il “pensatore”, un professore d’università, e collaboratore dell’enciclopedia Treccani, il quale si nasconde sotto questo peusdomino per la sua visione blasfema della storia del passato del nostro pianeta!
Le tre indie di Leo
Leo nel suo libro Navigazione medioevali al capitolo Romani in India e oltre, dove cita il tempio indiano di Augusto a Muziris, scrive di ciò che i cosiddetti nostri antichi padri, parlavano non di una, ma di ben tre indie molto lontane l’una dalle altre!
La prima è l’India vera e propria, dove avevano stazionato una delle loro tante flotte militari, la seconda oltre il Gange, ovvero la Cina e la terza?
La terza era oltre il Sinus Magnus, il grande golfo od oceano Pacifico (un golfo, un oceano? Sappiate che il mar Adriatico era chiamato il… golfo di Venezia) dove si arriva alle grandi miniere di oro e argento, a Cattigara in Perù.
Tesi? No, realtà storica evidenziata anche dalla famosa La ciotola di Fuente Magna con caratteri proto sumerici!
I viaggi per mare! Ecco la risposta! Altro che passar su una larga lastra di ghiaccio o per terre gelate per emigrare.
Dal gelo si scappa, o ti ammazza!
Ricordo che un ammiraglio italiano fu ospite di Roberto Giaccobo su Stargate, linea di confine, nel 2001 al più tardi nel 2002 (però mi pare che erano ancora nel vecchio studio, ma! La memoria, ba!). Flavio Barbiero era e dev’essere ancor convinto che la grande isola di Atlantide doveva essere la grande isola di Antartide, il polo sud e i giganteschi palazzi atlantidei giacciono ancora la sotto.
Senza voler togliere niente alla Sardegna – ciò che racconta Gigi Muscas sui suoi antenati giganti è estremamente affascinante – se però l’Antartide era l’Atlantide, come ha sottolineato (oltre all’ammiraglio) il ricercatore Malanga, la gente all’arrivo repentino del freddo deve essere sfuggita da quell’isola verso le coste più vicine… e quali erano le coste più vicine, quelle americane, quindi Cile e da lì il Perù.
Ebbene, non dobbiamo dimenticarci della popolazione ormai estinta (nel territorio italico siamo in pratica alla stessa situazione e – per un ordine dall’alto, dal Potere economico – con un altro popolo che ci sta sostituendo!) degli Yagan che viaggiavano tra i canali della Terra del Fuoco a bordo di canoe (guidate solo da donne, singolare, no?) e che avevano un vocabolario di 35.000 parole! Se questo non è un indizio di una civiltà precedente e dalla vasta cultura, vedete voi.
Mettendo o no di mezzo Atlantide, se un brusco cambiamento dell’orbita terreste (dovuta, sembrerebbe a un meteorite caduto nel golfo del Messico), con un repentino cambiamento del clima, qualsiasi civilizzazione esistente deve per forza di cose emigrata.
Ho sempre sospettato che le origini di Roma, e quindi degli etruschi venivano dalla Sumeria, e partendo dall’ipotesi storica della professoressa Natalia, si arriva dal Sudamerica, alla Cina, India, Sumeria e Mediterraneo, e da qui, più avanti nei secoli, con fenici e Romani alle americhe dall’Atlantico; con un enorme calcio in c… alla tesi sostenuta finora della provenienza nordica di tutto, compresi i miti e gli dei e ariani vari!
Ma comunque lo sostengo io, perciò, come diceva Totò “buonanotte ai suonatori!”
Ciao
Marco Pugacioff
[Disegnatore di fumetti dilettante
e Ricercatore storico dilettante,
Macerata Granne
(da Apollo Granno)
S.P.Q.M.
(Sempre Preti Qua Magneranno)
28/03/’25