Felice
Capella e gli affreschi ad Aquisgrana
Recentemente ho trovato un bel trattato del
1934, La letteratura per l’infanzia,
di Giuseppe Fanciulli e Enrichetta Monaci Guidotti, che in quell’anno era già
scomparsa.
Il testo è proprio del
mio argomento preferito, solo che non potevo immaginare cosa avrei trovato nel
capitolo dedicato a…
Nel Medio-Evo.
«Le tenebre del Medio-Evo» sono un luogo
comune, ormai ripudiato dalle moderne conoscenze storiche. Tuttavia non bisogna
andare troppo oltre nemmeno con una concezione opposta, come recentemente si è
fatto, e vedere quelli che, con altro
luogo comune, furono chiamati «i secoli di ferro», solo a traverso gli
smaglianti colori della vetrata di una cattedrale. Il Medio-Evo non si definisce
con una frase; e se ciò è vero per ogni età, ciò vale specialmente per questa,
che fu complessa e varia oltre ogni dire, crogiuolo ove le civiltà antiche e il
Cristianesimo si fusero, per dare una nuova concezione e una nuova pratica
della vita. E limitandoci al nostro particolare punto di vista, diremo che
durante il Medio-Evo il libro dei ragazzi continua ad essere il libro
scolastico, e la sua storia, quindi, è intimamente connessa alla storia della
scuola. Ora, l’istruzione medioevale mantenne il carattere prevalentemente
educativo che aveva quella antica, pur essendo cambiati i fini, con una severità
forse anche maggiore di quella un tempo praticata a Sparta e a Roma. Un autore
specialista ha scritto molto giustamente a questo proposito «Tale rude età fu particolarmente
dura coi piccoli e coi deboli. I piccoli conobbero un insegnamento arido e
senza attrattive; vissero nel timore e nelle lacrime; per loro il maestro fu un
tiranno, e la scuola una prigione [nota: Tarsot: Les école et les écoliers à travers les âges; Paris, H. Laurent,
ed. 1893]»
Inoltre l’istruzione -- per l’astensionismo dei
primi cristiani, la decadenza della cultura classica, lo scompiglio delle
invasioni barbariche – andò sempre più restringendosi nei primi secoli del
Medio-Evo, fino al punto da divenire prerogativa quasi esclusiva dei chierici.
Si capisce anche troppo bene come in queste condizioni
storiche - e aggiungiamo anche le disastrose condizioni economiche del mercato
librario - non si potesse nemmeno pensare all’esistenza di una letteratura per
i ragazzi.
Tuttavia, proprio nella prima metà del V secolo,
troviamo un libro che si potrebbe ritenere scritto per i ragazzi, almeno
secondo le parole poste in principio di esso come introduzione; libro che ebbe
grandissima popolarità in tutto il medio-evo, e servì come «testo» per tutti i
giovani in tutte le scuole: è il famoso De
nuptiis philologiae et Mercurii di M. Felice Capella di Mataura
nell’Africa.
Sappiamo che in quel tempo l’educazione dei
giovani si sarebbe ritenuta incompleta, se lo spirito non fosse passato a
traverso la conoscenza di sette
discipline diverse: erano queste la Grammatica, la Dialettica e la Retorica, raggruppate
sotto il nome comune di trivium; l’Aritmetica,
l’Astronomia, la Geografia,
la Musica,
indicate col nome di quadrivium.
Orbene, l’opera del Capella, in nove libri misti di prosa e di versi, è in
sostanza un’enciclopedia dello scibile del suo tempo, una specie di esposizione
didattica, concepita però in vista di un pubblico speciale; che l’Autore sembra
voler designare da principio, quando, dopo alcuni versetti d’Imeneo, fa intervenire
a interromperlo il suo bambino, che lo prega di raccontare per lui. Così,
dunque, l’insegnamento delle scuole medioevali è raccolto e presentato come in
una novella, raccontata da un padre al suo bambino, e immaginata alla languida
luce della lucerna nelle lunghe veglie invernali. La favola ha molti particolari
graziosi, e assai piacevole doveva riuscire ai giovani lettori il veder
personificate tutte le varie discipline della scuola. Tali personificazioni
rimasero poi famose per tutto il Medio-Evo, lino al Rinascimento, e diventarono
come i tipi canonici nei motivi dell’arte decorativa, sì da ridurre il libro un
manuale indispensabile agli studiosi. e agli artisti.
Il
buon Capella, che colori tali figure per rendere più attraente la favola al suo
bambino – personificazione di un pubblico di ragazzi – non pensò davvero che le
sue descrizioni fantastiche avrebbero costituito il modello delle arti
figurative per quasi dieci secoli, quanti ne corrono dall’umile scrittore di
Madaura al divino pittore d’Urbino; il quale, nella decorazione della Stanza
della Segnatura, dette l’ultima espressione e pose come il suggello a tale
serie di immagini.
Quest’opera eminentemente «istruttiva» non
tardò a diventare, come già si è accennato, «libro scolastico», e a unirsi agli
altri testi.
Quei testi, anche
quando, alla fine del VI secolo, furono quasi ovunque istituite le «scuole parrocchiali»,
non erano molto numerosi. Si incominciava con l’abbici. Si insegnava l’alfabeto
mostrando ai bambini certe tavolette scritte da imitare, e si facevano imparare
a memoria le lettere, per mezzo di certe storielle proverbiali, ove il ritmo
aiutava ad apprendere contemporaneamente gli elementi della scrittura e della
saggezza umana [Cfr. Novati: «Le serie alfabetiche proverbiali» Giorn. Stor. della Letteratura Italiana, vol. III, 1870, p. 337.] Veniva subito dopo il Salterio, prezioso
libriccino contenente alcuni salmi, prima base della cultura religiosa.
Seguivano le letture del Donato e dei famosi Distica Catonis; qualche autore classico, brani dell’Antico Testamento,
vite di Martiri e di Santi. Gli studi della grammatica si terminavano col Dottrinale di ALESSANDRO DE VILLEDEI, con le
favole esopiane in verseggiatura latina, coi versi di PRQSPERO D’AQUITANIA, il Ritmo leonino attribuito a PRUDENZIO, il Liber Eve Columbe, Boezio... tutta una serie di
operette divulgatissime, che a poco a poco furono respinte dalla nuova cultura
del Rinascimento, con grave rammarico dei «laudatores temporis acti».
Ahò, però che tipo. Gagliardo forte ! Ma chi
era? Per saperne di più ho fatto un giro in rete e a questo punto la prima menzione viene
dalla Treccani in linea…
https://www.treccani.it/enciclopedia/marziano-capella-minneo-felice_(Enciclopedia-dell%27-Arte-Medievale)/
MARZIANO CAPELLA,
Minneo Felice
Scrittore
africano vissuto a cavallo tra i secc. 4° e 5°, autore del romanzo allegorico
De nuptiis Mercurii et Philologiae, una sorta di enciclopedia delle arti
liberali che costituì un testo base per la cultura medievale e la principale
fonte iconografica per la rappresentazione delle stesse arti fino al 15°
secolo. […] Dal De nuptiis si evince sia che M. visse a Cartagine, nell’od.
Tunisia, dove esercitò l'avvocatura e forse ebbe il proconsolato per l’Africa,
sia che scrisse la sua opera, dove si descrive canuto e cinquantenne, fra il
410 e il 439, forse prima del 429. Il romanzo, frutto del decadentismo
tardoromano, con forti accenti neoplatonici, permette di cogliere l'estremo
tentativo di difesa della cultura pagana e romana e l’intento di salvare la
tradizione culturale del mondo antico all’aprirsi della nuova era cristiana.
Per l'opera - che si compone di nove libri, di cui solo i primi due dedicati al
racconto delle nozze e i rimanenti sette alle arti liberali (Grammatica,
Dialettica, Retorica, Geometria, Aritmetica, Astronomia, Musica o Armonia) - si
è tramandato il titolo De nuptiis Mercurii et Philologiae poiché anche le arti
partecipano alle nozze, indicate quindi come soggetto principale. Il romanzo
narra infatti nei primi due libri le nozze tra Mercurio e Filologia, volute da
Apollo e approvate alla fine da tutti gli dei. Dono nuziale per la sposa sono
appunto le sette arti liberali, che Apollo davanti alla corte celeste introduce
una a una, esaltandone le virtù e mostrandone gli attributi; la descrizione di
ognuna delle arti costituisce l'argomento dei sette libri successivi.
[…]
il testo ha subìto numerose revisioni e
correzioni, a partire da quella operata nel 534
[…]
Il De nuptiis ebbe una fortuna vastissima in
tutto il Medioevo, attestata dal gran numero di manoscritti pervenuti
[…]
Divenne infatti il testo fondamentale per
l'educazione scolastica fra il sec. 5° e il 9°, adottato come manuale di
istruzione di base sia nelle scuole monastiche sia in quelle laiche di tutta
Europa, nonostante l'artificiosità del linguaggio e la difficoltà
dell'interpretazione. Il notevole vantaggio offerto dal romanzo di M., di cui
Gregorio di Tours raccomandava la lettura (Hist. Fr., X, 31; MGH. SS rer. Mer.,
I, 1, 1937, p. 536), era quello di compendiare le scienze classiche in un'unica
opera, fornendo così un comodo strumento di lavoro per gli insegnanti e un’enciclopedia
di media consultazione. Il periodo di massima fortuna si registrò fra i secc.
9° e 10°: su poco più di cinquanta codici contenenti tutto il De nuptiis quasi
la metà sono infatti databili a quest’epoca. […]
Ciò avvenne durante il periodo della c.d.
seconda rinascenza carolingia, tra il quinto decennio del sec. 9° e l'870-875,
ma il carattere tradizionalista di queste scuole mantenne vivo fin entro il
sec. 13° l’interesse verso la formazione culturale esemplificata dal De
nuptiis. Nelle cattedrali di Laon, Chartres e Auxerre si trovavano infatti nel
Duecento le più complete e fedeli raffigurazioni delle arti liberali ispirate
all’opera di M. Capella. A partire dal sec. 14° il romanzo conobbe un nuovo
periodo di fioritura. La grande fortuna goduta dal De nuptiis è confermata
anche dall'elevato numero di opere letterarie che ispirò. Al De consolatione
philosophiae di Boezio, al De artibus ac disciplinis liberalium litterarum di
Cassiodoro e alle Etymologiae di Isidoro di Siviglia si aggiunsero: il Carmen
de septem artibus liberalibus, scritto al tempo di Carlo Magno da Teodulfo di
Orléans; nel sec. 11° la
Rhetorimachia di Anselmo da Besate; nel sec. 12° l’Elegia de
diversitate fortunae et philosophiae consolatione di Arrigo da Settimello e il
famoso Anticlaudianus di Alano di Lilla; nel sec. 13° la Bataille des sept arts di
Henri d’Andeli e il Mariage des sept arts di Jean le Teinturier, nonché il
poema cavalleresco Erec et Enide di Chrétien de Troyes. Alcuni di questi testi
descrivono opere d’arte ispirate al De nuptiis, nelle quali si può forse
cogliere l’eco della conoscenza, diretta o indiretta, di reali rappresentazioni
di questo tipo. La prima testimonianza si trova in Teodulfo di Orléans, che
afferma di aver scritto il suo poema ispirandosi a un dipinto su tavola - forse
realmente esistito (D’Ancona, 1902, p. 212; Van Marle, 1932, p. 211) -
raffigurante il globo terrestre su cui si eleva un albero con alla base e sui
rami le arti liberali, la cui rappresentazione mostra la conoscenza del romanzo
di M. Capella. Nel sec. 12° l'Historia Karoli Magni et Rotholandi dello
pseudo-Turpino (MGH. Pöetae, I, 1881, pp. 544-547) affermava che il modello di
tale raffigurazione sarebbe stato un affresco nel palazzo di Carlo Magno ad
Aquisgrana, benché Teodulfo si riferisse a un dipinto su tavola, come quello di
Costantinopoli descritto dal poeta Manuele File (sec. 14°) come appartenuto ad
Alessandro Magno. Le sette arti, in epoca carolingia incluse nel repertorio
profano, in età romanica divennero appannaggio quasi esclusivo dell'arte sacra;
fa eccezione la descrizione di un letto scolpito con la rappresentazione delle
Arti e della Filosofia in un poema composto dall'abate Baldrico di Bourgueil
prima del 1107 (Delisle, 1871). Il matrimonio tra Mercurio e Filologia era
rappresentato su di un'alba della metà del sec. 10° appartenuta a Eccheardo II
di San Gallo (Stammler, 1962), su di un paramento liturgico appartenuto a
Enrico, figlio dell'imperatore Federico I Barbarossa, donato nel 1193 da un
cardinale al S. Antonino di Piacenza, e infine, all’inizio del sec. 13°, sul
tappeto annodato delle monache dell'abbazia di Quedlinburg, di cui rimangono
frammenti con le figure di Mercurio e Filologia (Quedlinburg, Domschatz der St.
Servatius-Stiftskirche). […] Il più
antico manoscritto miniato superstite del De nuptiis risale agli inizi del sec.
10° (Parigi, BN, lat. 7900A), ma ricalca un modello dei secc. 5°-7° (Heydenreich,
1956, figg. 1-3), e l’unico interamente miniato è quello illustrato nel sec.
15° da Attavante degli Attavanti per il re d’Ungheria Mattia I Corvino
(Venezia, Bibl. Naz. Marciana, lat. XIV,35).
La Professoressa
Patricia Licini, [professoressa di cartografia medievale] che
ringrazio sempre per la sua memoria, la gentilezza e la profonda conoscenza mi
scrive…
«Io ricordo (però a memoria e dovrei
andare a ritrovarlo) che nel testamento di Carlo Magno nell’inventario degli
oggetti preziosi nella cappella di Aquisgrana erano elencati due dischi
raffiguranti in piano il primo in oro la volta celeste e il secondo in argento il
globo delle terre.
[…]
Ecco, ho ritrovato la citazione. Lo
testimoniò Edgardo. Mensae si deve tradurre in "tavole"
(geografiche ovviamente in questo caso) e non in "carte" come ho
letto in molti studi.»
Non centra niente, ma c'è la metto lo stesso
dai miei libri di Argan
Degli autori proposti sulla Treccani, ho
scovato D’Ancona…
P.
D’Ancona, Le rappresentazioni allegoriche delle arti liberali nel Medioevo e
nel Rinascimento, L'Arte 5, 1902, pp. 137-155, 211-228, 269-289, 370-385
La fortuna ch’ebbe l’opera di Marciano Capella
durante l’età di mezzo sino ai primordj del Rinascimento, oltre che nella
letteratura, la possiamo seguire nell’arte.
[…]
Seguire
la evoluzione di un dato tipo artistico limitandosi a studiarne nei monumenti rimasti
le forme più tarde, è compito di gran lunga più agevole, che volgersi ad indagarne
il nascimento e a scrutarne le origini nel buio de’ tempi remotissimi. Nel
primo caso una guida sicura ci accompagna: a una testimonianza preziosa
possiamo affidarci, il monumento; nel secondo caso, bisogna ricostruire ciò che
il tempo e gli uomini hanno spesso, fatto a gara a distruggere aiutandoci soltanto
di tradizioni scritte od orali su quello che è perduto, e talora di semplici ricordanze
ed accenni fugaci.
Salto un po’ dello scritto per arrivare a
ciò che mi interessa…
Bisogna
venire all’età carolingia per trovare una figurazione delle Arti evidentemente
ispirata agli scritti del retore cartaginese. Il monumento è andato perduto, ma
ce ne possiamo fare un’ idea ricorrendo ad un carme, in che viene minutamente
descritto. Nella Historia Karoli Magni et
Rotholandi, che va sotto il nome di Turpino, [Nota: Turpini,
Historia Karoli Magni et Rotholandi, par. xxxi, ediz. Castets, Montpellier,
1880.] ma
compilata in realtà solo agli inizj del sec. XII, si
legge che il monarca francese fece dipingere le sette Arti nel suo palazzo di Aquisgrana, [Nota: Nella Crònica
generai de España si parla delle Arti come esistenti nella tomba di Carlo
Magno; vedi Histoire poetique de
Charlemagne par Gaston Paris, pag. 370, Paris, 1865.] assieme alle
battaglie del vecchio e nuovo Testamento e a quelle da cui era uscito vittorioso in Ispagna. Quanto vi sia di vero in ciò, non si può precisare; ma che le Arti Liberali figurassero in questi
Pisa. piedistallo del pulpito di Giovanni Pisano dipinti
appare più che probabile, quando si rifletta che fra i componimenti poetici di
Teodulfo, [Nota; M. G. P. Lat. I, 544, carni. 46.] vescovo di Orléans,
vi ha un lungo «Carmen de septem artibus
liberalibus», il quale sembra appunto ispirato da un’opera d’arte realmente
esistente. Date infatti le relazioni di
amicizia
che legavano il Re franco e Teodulfo, qual meraviglia che costui abbia proprio
descritto dei dipinti, che doveva avere
quotidianamente
sotto gli occhi? Il poeta descrive un grande
albero ricolmo di vegetazione, sui rami del quale trovansi le Arti.
In basso, proprio alle radici, siede la Grammatica: ha la testa
adorna di diadema, tiene in mano la ferula ed il coltello, ed è circondata da Bonus Sensus e da Opinatio. Su due
rami più elevati sono la
Retorica e la
Dialettica: la prima, dalla testa leonina, è in atto di
tenere una concione [secondo
la Treccani:
1. ant. Pubblica adunanza,
assemblea per trattare di cose dello stato (con questo sign. il
termine è usato solo in riferimenti storici)], ha in mano l’immagine di una città turrita,
ed è provvista di ali; l’altra è intenta a leggere, mentre intanto un serpente
cerca occultarsi tra le sue vesti (corpus
tamen occulit anguis). Vicino
ad essa stanno Logica, Etica e le quattro Virtù Cardinali. L’Aritmetica tiene
un registro tra le mani, ed ha presso a sé la Fisica. La Musica è
provvista della lira e della vecchia siringa a sette toni. La Geometria ha un compasso
nella destra e una sfera nella sinistra (dextra
manus radium laeva vehit rotulam). L’Astronomia dall’alto domina sulle altre, ed è rappresentata
con le mani sollevate sul capo, in atto di sorreggere il planisferio celeste (huic caput alta petens onerabat circulus
ingens — quem manibus geminis brachia tensa tenent). Tale è la rappresentazione
descritta da Teodulfo, che il Von Schlosser
[Nota: Julius von
Schlosser, Beiträge zur Kunstgeschichte,
etc., pag. 134, Wien, 1891] esaurientemente ha dimostrato esser tutta ispirata alla tradizione primitiva.
Tuttavia,
che, anche innanzi all’anonimo pittore di Aquisgrana, altri artefici abbian svolto
il medesimo tema, lo fanno supporre alcune iscrizioni versificate di epoca anteriore
a Teodulfo, rinvenute dal Sirmond [Nota:
M. G. P. Lat. I, 629, Append. ad Teodulphum.] in un codice
vaticano (n. 341), già forse in alcuno di quei rotuli spiegati, che le figure allegoriche
soglion tener fra le mani. Le allegorie delle Arti trovansi un’altra volta nell’età
carolingia, assieme alla Medicina e circondate dai principali lor protettori, nelle
pitture del Palatinato di Saint-Denis e in quelle del Palatinato di Saint-Gall,
eseguite tra gli anni 841 e 872 sotto l’abate Grimold, in compagnia di Sancta
Sophia loro madre. [Nota:
Von Schlosser, Beiträge cit., pag.
131 e 132.]
Così,
pur cercando di sfuggire alla questione di Aquisgrana – dovunque essa sia, ma de certo non in
Germania – alla fine si cade sempre lì.
L’altra sera rivedevo uno spettacolo televisivo sulla Roma Nascosta,
sotterranea, e alla basilica di San Giovanni e Paolo al Celio ho rivisto
strutture romane che mi hanno ricordato (almeno tre volte più piccole e
comunque solo ricordato) le volte a San Claudio, secondo il professor Carnevale
l’originale Cappella Palatina.
Volte del tempio de Claudio
Non sono una mia immaginazione. Anche in rete
ho trovato un’altra foto, da: https://www.romasegreta.it/celio/tempio-di-claudio.html
eccola:
Sempre volte chiamate a crociera, del convento
stabilito all’interno del Tempio di Claudio, su strutture già esistenti
dell’antichità.
Ma che
importa.
Però da: https://www.caseromanedelcelio.it/le-case-del-celio/ ho visto la bellezza degli antichi affreschi
romani – e senza sapere cosa avrei letto il giorno dopo sulla letteratura per
l’infanzia e la piccola ricerca seguita poi – posso immaginare, fantasticare
come molto probabilmente potevano essere le pitture nel palazzo di Carlomagno.
Il Ninfeo e la Sala dei Geni
E
se non si trovano, è solo per un motivo: un certo Barbarossa ha portato via
l’impero, lo ha traslato. E qualcun altro, il papato oppure (se l’impero era
nel Piceno) il vescovado di Fermo hanno distrutto i vecchi palazzi e con essi
gli affreschi.
Una volta a Roma Pasquino scrisse:
Ciò che
non fecero li barbari, fecero li barberini
E peggio de loro fece
Barbarossa e li papalini.
E io dico, parafrasando Enzo Cannavale sulla
pellicola di Monnezza…
Sant’angelo in
Pontano,
toglici da tutto ‘sto ginepraio
fa chiudere le balorde
università,
fa morire l’europa e
ridaci la lira
che creò Carlomagno.
Ma poi in fondo, ormai, che importanza ha? Si
scrive solo per riempir il tempo e rompere i cosiddetti ai saccenti
universitari che sanno sempre tutto e gli altri son solo ignoranti.
Evvabbé
Ciao
Marco
Pugacioff
[Disegnatore
di fumetti dilettante
e
Ricercatore storico dilettante,
Macerata
Granne
(da Apollo
Granno)
S.P.Q.M.
(Sempre
Preti Qua Magneranno)
10/04/’25
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