Pierre Vidal
Le scienze occulte a Perpignano
nel XIV secolo
§§§
Prefazione di Marco Pugacioff
Secondo lo studio di Solène Baron, [Doctorante en histoire médiévale - Université Paris Cité] Un procès de magie en Gévaudan et ses enjeux politiques (1347), l’autrice scrive che «prima di prendere principalmente i tratti della strega [sorcière], l’occulto aveva il viso del nigromantus, l’evocatore di spiriti [l’invocateur d’esprits].
Si intende per occulto ciò che sfugge alla ragione, ciò che non può esser conosciuto in alcun caso. Secondo Ruggero Bacone, è prima di tutto questione di segreto: ciò che gli uomini non conoscono ancora, ma che possono svelare. Nondimeno, le opere di magia non fanno distinzione tra segreto e occulto. Quest’ultima nozione non viene teorizzata dai trattati di magia, che soprattutto valorizza costantemente il segreto, che tutti i negromanti devono detenere per soggiogare gli spiriti. [Vedi Jean-Pratice Boudet, « Des savoirs occultes et illicites ? Les textes et manuscrits de magie en Italie (xiv-début du XVI siècle) », Frontières des savoirs en Italie à l’époque des premières universités (XIII - XV siècle), J. Chandelier et A. Robert (dir.), Rome, EFR, 2015, p. 509-539, ici p. 528-530.]
Al XIV secolo, le donne non rappresentavano ancora la stragrande maggioranza degli accusati per crimini di stregoneria. I processi inerenti la magia contavano 107 donne accusate e 127 uomini, senza contare i Templari. [vedi J.-P. Boudet, Entre science et nigromance. Astrologie, divination et magie dans l’Occident médiéval (XIII – XV siècle), Paris, Publications de la Sorbonne, 2006, p. 485.]»
Costantino Di Maria, alle pagine 177-179 del suo “Enciclopedia della Magia e della stregoneria” (De Vecchi editore – ristampa Edizione CDE 1985) scrive «Lo stregone prende un pezzo di cera vergine, cioè non ancora lavorata […] e ne fa un pupazzetto, battezzandolo con il nome di colui o di colei su cui agire […].
Questo fenomeno che stabilisce una corrispondenza reale tra un’immagine e la persona che l’immagine rappresenta, è stato studiato con molta oculatezza: la parola envoûtement ne vuol fare comprendere tutta l’importanza, perché suol riferisci al volto del maleficato. Quindi “involtalmento” [Dal latino: in e vultus] (francese envoûtement), cioè corrispondenza per rassomiglianza del pupazzetto alla persona su cui si vuole agire, cosa che rende più o meno probabile l’effetto. Nella lingua italiana non vi è una parola precisa che risponda e interpreti con esattezza quella francese; vi è “maleficio” e “malìa”: quella che più si avvicina è “fattura”, nel significato di stregoneria compiuta contro una persona per le “fattezze” o sembianze di quella, ed è parola dell’ottima lingua italiana del Sacchetti e del Boccaccio: così come il verbo “affattuare”.
All’epoca di Caterina de’ Medici e in Francia sotto i regni di Enrico II, Carlo IX ed Enrico IV, questa maniera di stregare a morte era diffussima. Pare nel Medioevo in Italia dovesse conosciuto molto il metodo, perché un recente studio ha posto in vista un maleficio che Galeazzo Visconti voleva commettere contro papa Giovanni XXII, tanto che Dante Alighieri, che pare avesse fama di mago molto esperto, fu interrogato se volesse battezzare (o meglio, come allora si diceva, “incantare”) la statuetta d’argento del papa.»
Prefazione di Pierre Vidal
Nel 1892, il signor Falgairolle aveva fatto delle interessanti ricerche a Mende (dove ricoprì le funzioni di sostituto del procuratore della Repubblica), e pubblicò gli estratti di un processo (intentato nel 1347) contro un certo Stefano [Etienne] Pépin, accusato di aver tentato di stregare il vescovo di Mende [nota 1: Un envoûtement au Gevaudan en 1347, Nîmes, Catelan, 1892.].
Il vescovo era Albert Lordet che aveva per nipote Guillame Lordet, il quale gli succede come vescovo di Mende nel 1362 [Nota 2: Vedi nota 4 dello studio di Solène Baron.].
Gli interrogatori che Pépin subì, redatti in un latino passabilmente barbaro, secondo la pratica dell’epoca, ci hanno fatto sapere che egli venne a Perpignano per potervi studiare le scienze occulte. Questa pubblicazione del signor Falgairolle mi fu segnalato nel 1911 grazie al mio amico il signor Conte di Dienne che l’aveva già utilizzato per uno studio dello stesso genere [Nota 3: Le Maitre Guillaume de Carlat dans su tentative d’envoûtement de Bernard VII d’Armagnac. Aurillac, E. Blanchabel, 1911.]. Vanamente tentai di acquistare la brochure del signor Falgairolle divenuta rarissima, ma grazie alla cortesia del signor di Dienne mi fu possibile prenderne visione e di estrarre ciò che concerneva il soggiorno di Pépin a Perpignano. Vi è di certo materia di un capitolo assolutamente nuovo della Storia del Rossiglione.
I
Stefano Pépin era originario di Menat, nella diocesi di Clermont [Nota 4: Capoluogo del cantone di Puy-de-Dôme, distretto di Riom.]; riceve canonicamente gli ordini sacri e entra nel convento dei Frati Minori di Souvigny [Nota 5: Capoluogo del cantone de l’Allier, distretto di Moulins.].
In questa cittadina abita “il Maestro” [«le Maître»] Théodore Barbancie, esperto nella scienza della Pietra filosofale; Pépin arriva a conoscerlo e diventa suo allievo. Al convento è mal piazzato per potersi dedicare ai suoi nuovi studi, che contrastavano con le sue pratiche religiose e l’obbligavano a delle precauzioni enormemente fastidiose. Per cui getta i suoi abiti alle ortiche e va ad abitare con il Maestro Barbancie; passa all’incirca quattro mesi con lui, approfondendo lo studio della Pietra filosofale, «che – afferma – non è una pietra, come si crede comunemente, ma una polvere».
Sentendosi capace di volare con le proprie ali, Pépin lascia il Maestro Barbancie e va a stabilirsi a Langeac [Nota 6: Capoluogo del cantone della Alta Loira [Halte-Loire], distretto di Briounde.], dove associa alle sue ricerche un damoiseau [giovane gentiluomo non ancora cavaliere.] dal nome di Guillaume Rocell; i due si guadagnano ben presto la reputazione di alchimisti e di maghi, sebbene un giorno Pépin riceve la vita di un altolocato del luogo o vicino di marca [voisin de marque], Guérin de Châteauneuf Randon, signore di Apcher, che gli viene a proporre di stregare il vescovo di Mende, di cui aveva giurato la sua perdita, ovvero di fargli perdere la vita.
All’inizio, Pépin si scusa, assicurando che le sue preoccupazioni erano solo verso la pietra filosofale, non avendo ancora studiato questa parte delle scienze occulte; sapeva, in verità, che si doveva formare una figura di cera rassomigliante a qualcuno, con il pensiero di farlo soffrire, in seguito di certe pratiche magiche, e tutto ciò doveva farlo soffrire alla figura [Nota 7: È nel nostro Respon de sant Antoni.]; ma erano precisamente queste pratiche che egli ignorava; queste si trovano, affermava, in un libro intitolato Liber juratus, composto dal filosofo Honorius con l’aiuto di Attohël, uno degli angeli della Spera lunare [Sphère lunaire]! «Il Libro giurato» [le Livre juré], aggiunge Pépin è detto «sacro» [sacré] a causa della collaborazione di quest’angelo, e «giurato» perché non deve esser dato a leggere se non che a un uomo di cui non si sia constata l’esclusione dal peccato durante un intero anno, e mai a una donna, perché la donna è sempre disposta al male, e tali segreti non possono essergli rivelati.
Allora il signore di Apcher fa capire a Pépin che egli poteva forse procurarsi una copia dell’indispensabile Liber juratus con l’intermediazione di un amico che non era altro che il Re di Maiorca; perciò i due decidono di andare a Perpignano dove risiede questo monarca. Bisogna ricordare che il Gévaudan, dove era situata la signoria di Apcher, era dipesa per lungo tempo ai re di Aragona da cui discendeva l’attuale re di Maiorca; questi non si era piegato alla corona di France che all’atto del trattato di Corbeil nel 1258, ovverosia all’incirca ottantacinque anni prima della degli avvenimenti di cui stiamo narrando.
«Non bisogna quindi stupirsi – scrive il signor conte di Dienne – che i potenti signori di questo paese avessero conservato delle relazioni con i principi della dinastia di Aragona» [Nota 8: La nota originale cita: Ouvr. Cité, p. 55.]. Questa notazione è più che giusta, e l’autore avrebbe potuto aggiungere che Guérin de Châteauneuf, signore di Apcher, era probabilmente lo stesso che fu ciambellano del re di Majorca Giacomo secondo [Jacques II] e che questo principe appellò un giorno «suo caro cugino e fedele consigliere [Nota 9: Histoire générale de Languedoc, èd. Privat, t. IX, p. 552.]».
Il tentativo di stregare il vescovo di Mende è – ci hanno detto – del 1346 e il processo fatto a Pépin, dell’anno seguente [Nota 10: Falgairolle, ouvr. Cité.]; ora, a quest’epoca, il regno di Maiorca non esisteva più; Pietro quarto [Pierre IV], re d’Aragona, l’aveva brutalmente soppresso dalla fine del mese di luglio 1344 con l’occupazione di Perpignano, seguita subito dopo da quella di tutto il Rossiglione e delle isole Baleari. Giacomo secondo, il re detronizzato e fuggiasco si sarebbe ben guardato di venire nella sua antica capitale nel 1346; d’altra parte, non sarebbe stata essere un’intenzione di suo figlio Giacomo III, il quale non fu altro che un semplice pretendente alla corona di Maiorca che dopo la morte del padre, avvenuta davanti Palma il 25 ottobre 1349, e che non rimise mai più piede in Perpignano dopo il mese di luglio del 1344. Fu dunque necessario che il signore di Apcher e Pépin fossero venuti a Perpignano prima di questa data per preparare la stregoneria del vescovo di Mende; da ciò che ne segue è che non con il re Giacomo secondo con cui essi volevano conferire e non con suo figlio Giacomo terzo, come scrive [Nota 11: Falgairolle, ouvr. Cité.].
II
Deciso il viaggio per Perpignano, il signore di Apcher prende l’iniziativa. Qualche giorno dopo il suo arrivo, scrive al suo complice per invitarlo a raggiungerlo immediatamente nella capitale del regno di Maiorca. Giacomo secondo riceve Pépin a braccia aperte, e si stabiliscono delle relazioni amichevoli tra di loro. Pépin assicura che il re gli offriva un grosso volume, redatto da lui medesimo, intitolato De Naturalibus. Non sappiamo se, in cambio, Pépin lo fornisca di oro tramite la sua arte, di cui il re aveva urgente bisogno in quest’epoca; ma non dovrebbe essere probabile poiché, nel corso del processo, confessò di non aver potuto scoprire la Pietra filosofale, e in ciò conviene credergli. Tuttavia, Giacomo II aveva una seca dove sfornava del danaro con il titolo di Rex Majoricarum. Questo atelier era situato in uno dei fossati del Castello reale, in quodam valle quod est intra dictum castrum [Nota 12: Citato da Lecoy de la Marche, Les relations politiques de la France avec le royaume de Majorque, t. II, p. 90.]. Il re fu accusato di aver fatto del danaro falso, cosa che tra l’imbarazzo generale si sapeva; potrebbe ben essere che la presenza di Pépin a Perpignano e il suo affiatamento con il re abbia contribuito ad espandere questa calunnia odiosamente alimentata dal re d’Aragona Pietro Quarto.
Con l’intermediazione di Giacomo Secondo, Pépin entra in contatto con numerosi uomini di scienza di Perpignano. Conosce in specialmodo «il Maestro di arti
[Nota 13: Locuzione-Frase nominale
maître ès arts maschile (ortografia tradizionale)
- Persona che ha conseguito, in una università o istituto specializzato, i titoli che danno l’abilitazione all'insegnamento delle discipline umanistiche e filosofiche.
Diderot, dopo aver studiato al collegio di Harcourt, divenne maestro di arti nel 1732. [Diderot, après avoir étudié au collège d’Harcourt, devint maître ès arts en 1732]
- Maître ès arts significa maestro delle
arti e non maestro e arti [maître en arts et non maître et
arts].
v. = https://fr.wiktionary.org/wiki/ma%C3%AEtre_%C3%A8s_arts]»
[le Maître es-arts] Berengario [Béringuer] Guanell, grande esperto in magia, che si glorificava di evocare i demoni e di poterli placare. Era proprio lui che sapeva dove si trovava il famoso Liber juratis, questo manuale di ermetismo contenente le formule necessarie per praticare l’esorcismo, la stregoneria. Il maestro Guanell non conosceva nulla riguardo la scienza della Pietra filosofale; Pépin si offre di istruirlo in ciò, a condizione che il maestro Perpignanese gli comunicasse le sue conoscenze in magia e di fargli trovare il Liber juratus che non si trovava a Perpignano: era infatti nel Castello di Trassore, in quodam castro vocato Trassore prope Perpinhanum. Si può credere che si tratti di Tresserre, perché non è mai esistito un Castello di Trassore nel Rossiglione.
Sia quel che sia, Béringuer Guanell e Pépin andarono a cercare il Liber juratus nel Castello di Trassore e lo portarono a Perpignano. Non era nemmeno da pensare per Guanell di vendere questo prezioso documento; non ci si libera facilmente di un libro che può produrre delle meraviglie; Pépin lo sapeva; così, domanda al Maestro di poterne fare una copia, dietro un pagamento finanziario e delle buone lezioni di Pietra filosofale. Guanell accetta, e il prezzo fu fissato a venti fiorini che, notiamo bene, furono forniti dal signore di Apcher e dal re di Maiorca. Costui era molto probabilmente un adepto dell’ermetismo, ma c’è da credere che ignorasse l’uso che Pépin e il suo complice progettavano di fare con il Liber juratus.
III
Il Maestro Guanell si mise all’opera; ma andava troppo lentamente. Pépin ne approfitta per passare in Spagna con delle lettere di raccomandazione del re di Maiorca. Pensava di trovare aldilà dei monti dei nuovi elementi per poter perfezionarsi in magia. Non si ingannava. A Cordova trova – dice egli stesso – un libro composto dal re Alfonso [le roi Alphonse], che insegnava la maniera di fare le immagini, reperit libros Alphonsi regis qui docent ymaginis faciendis. Si tratta di Alfonso decimo [Alphonse X], re di Castiglia, che visse in filosofia sul trono (1252-1284).
A Cordova, Pépin apprende che «la lesione dell’immagine conduceva alla lesione dello stregato», e che «la fede cieca dell’operatore era assolutamente necessaria per produrre il risultato desiderato». Riconosce che «fra i libri degli antichi filosofi consultati a Cordova, in molti non vi erano che delle sciocchezze, che l’avevano fatto ridere.»
Quando Pépin ritorna a Perpignano, il Maestro Béinguer non aveva ancora terminato la copia de Liber juratus. Era, in verità, un gran lungo lavoro, se lo si giudica dalla sola esposizione dei capitoli così come li ha dati Pépin.
Il libro ne comprendeva non meno di novantatre, di cui sei nella prima parte, ventiquattro nella seconda, cinquantotto nella terza e quattro o cinque nella quarta. Il libro comincia con un’invocazione alla Santa Trinità: - I filosofi dovevano astenersi di fare ciò che era contrario alla volontà di Dio, di cui i Cento nomi sono iscritti nel libro; il primo è Allah, compreso la deità nella sua forza e sua potenza; la chiama così Foton, che significa «la divinità creatrice del Cielo e della Terra e di tutte le cose»; ciascuno dei cento nomi è in questa maniera annotato con il suo significato specifico.
Nella prima parte il primo capitolo tratta «della visione di Dio»; il secondo «della assoluzione dei peccati»; il terzo «di ciò di cui bisogna credere perché l’uomo non cada in peccato mortale»; nel quarto, «della conoscenza divina». Pépin assicurava di non ricordare di ciò che contiene il quinto; ma enuncia il contenuto del sesto, ma ammettiamo di non comprendere quel che vuol dire.
La seconda parte tratta dell’associazione dei Buoni Angeli [Bons Anges]; la terza dell’invocazione degli Spiriti dell’aria [in francese esprits de l’air] (spirituum aeris); la quarta de la Legatio degli Spiriti Infernali [Esprits Infernaux] e così della scoperta dei tesori nascosti sotto terra, e delle pietre preziose; la quinta parte è – affermava Pépin – una esposizione delle quattro precedenti. Non da alcun svelamento a questo soggetto, ma permette di pensare che in questa parte si trovassero le pratiche magiche di cui Pépin aveva parlato al signore di Apcher, durante la loro prima conversazione a Langeac.
Dopo essere venuto a Perpignano, tre o quattro volte, Pépin si vede forzato di completare da lui medesimo la copia di sua propia mano, manu propria. Col risultato di una seria insofferenza tra lui e il Maestro Béringuer Guanell. Quest’ultimo, aveva appreso che Pépin voleva separarsi da lui definitivamente e lasciare Perpignano, e ciò gli fa nascere una violenta colera. Geloso del suo discepolo e pentitosi di avergli insegnato tante belle cose, gli annunciò che avrebbe liberato tutti i malvagi spiriti in maniera tale se si fosse rifiutato la sua totale obbedienza, anche se, era evidente, rendeva nulla tutta la scienza da lui acquisita da Pépin. La minaccia arriva alle orecchie di Pépin, il quale si mette subito in atto per parare il brutto colpo. Armato del Liber juratus, si reca bordo della Tet (ad quandam ripariam prope Perpinhanum), invoca i Malvagi Spiriti recitando i Cento Nomi, pregandoli di non ubbidire a chiunque, altro che lui, li evocassero per un malefizio. Il Maestro Béringuer Guanell non era più da temere e Pépin poteva lasciare Perpignano in tutta tranquillità; la benevolenza e la sottomissione degli Spiriti era da lui acquisita
[Nota 14: Interrogatus quibus vicibus ipse invocavit dictos malos spiritus, et ad quod et qualiter, dixit quod cum ipse vellet discedere a dicto magistro Berengario, idem magister Berengarius fuit iratus, et fuit ipsi loquenti dictum quod ille magister Berengarius volebat ligare omnes Spiritus Malos ne sibi loquenti aliquo tempore hobedirent. Et tunc ipse loquens, volens prevenire dictum magistrum Berengarium et providere ne sibi hobedientia dictorum Spirituum i tolleretur, ivit ad quandam ripariam prope Perpinhanum et prope quandam aquam, et ibi generaliter dixit Spiritibus seu supra Spiritus, nullo tamen specialiter invocato, et dixit Centum Nomina prediota scripta in dicto libro (le Liber juratus), virtute quorum precepit eis ut si aliquod maleficium factum seu faciendum per quemcumque erat contractum seu preceptum ne dicti Mali Spiritus dicto loquenti hobedirent, vel lignamen esset aliquod impositum, quod propter hoc non essent ipsi loquenti inhobedientes, et quod propter hoc sibi non nocerent solvendo liguamen, si factum erat, vel perseverando ne fieret.].
IV
Era ormai venuto il tempo di utilizzare il Liber juratus la cui acquisizione era stata così laboriosa. Pépin, al suo ritorno da Perpignano, era di nuovo a Langeac. Non tarda a stabilirsi sulle terre di Apcher, dove sarebbe stato sotto la protezione del signore del luogo, suo complice, fintanto che formava l’immagine che, a suo dire, doveva essere così funesta al vescovo di Mende.
Inizia la sua opera alla veglia di San Giovanni Battista [Saint-Jean-Baptiste] dell’anno 1346, il 23 giugno. Utilizza due pani di cera bianca [deux livres de cire blanche] che aveva portato con sé da Langeac, e procede alla modellazione per mezzo di acqua calda, «di sua propria mano e senza alcun altro ingrediente», manu propria absque intermissione alterius rei. L’immagine era piena, densa, e intanto che la modellava, aveva davanti il Liber e pronunciava le parole consacrate, dum ipsam ymaginem faciebat coram se librum suum et dicebat verba ad hoc ordinata prout in libro suo scripta. Egli non volle mai – nel corso degli interrogatori – dare il titolo del Liber juratus di cui si era servito, visto – affermava – non ne aveva, qui liber non est intitulatus. Durante l’operazione egli teneva l’immagine riversata, capovolta. Non legò nessun spirito all’immagine, nullum ad hoc ligavit spiritum specialiter, e non la battezza; «era – diceva – una falsa credenza popolare che le immagini dovevano essere battezzate, perché esse esistevano ben prima dell’istituzione del battesimo»!
Sembra che Pépin abbia voluto, dalle sue confessioni mitigare il suo caso; allo stesso modo allorché assicura che l’immagine era modellata in forma d’uomo, essa non era certo nella rappresentazione del vescovo, non ad formam ymaginis episcopi. Ammise comunque che aveva messo il nome del vescovo sulla fronte dell’immagine e particolari nomi di angeli sul petto; erano quelli degli angeli che dominavano in quel giorno e al momento medesimo in cui operava. Questo giorno era un venerdì, e l’angelo del giorno era Anoëlh, che metteva in movimento il pianeta Venere! Scrisse i nomi degli angeli in latino, non in ebraico, né in greco.
Una volta fatta l’immagine, Pépin la racchiude, avvolgendola in quattro piccole tavole per proteggerla da eventuali incidenti; la lascia tre o quattro giorni in un armadio della sua camera, poi andò a collocarla in un buco nel muro del Castello di Arzenc di proprietà del signore di Apcher, Pépin, dopo di ciò, si ritira a Vabres, villaggio situato non lontano da Apcher, nella stessa casa del suo complice. Si era portato dietro anche la copia del Liber juratus racchiusa in una scatola di cui solo lui aveva la chiave.
Un bel giorno, all’improvviso, venne arrestato a seguito di un ordine del vescovo di Mende, che era venuto a conoscenza delle sue colpevoli manovre. Sembra che il tutto non avvenne senza violenza, – per vim et violenciam – ; venne istruito presto il suo processo. L’accusa era «di essersi messo in relazione con i Malvagi Spiriti [les Mauvais Esprits] e di aver fabbricato un’immagine in cera rappresentante il vescovo di Mende; di aver fatto diversi sortilegi su questa immagine, sul fronte della quale era inciso il nome del vescovo e di Sette Demoni o Malvagi Angeli [Sept Démons ou Mauvais Anges]»
Condotto, sotto queste accuse, davanti alla corte ecclesiastica di Mende, Pépin subì numerosi interrogatori nel Castello di Balzièges, dipendente dai vescovi, e poi, nella città episcopale. La Corte decise che, «al fine di avere la verità», che Pépin sarebbe stato sottoposto alla tortura «ma senza pericolo di morte, senza frattura delle ossa e delle vene, e senza spargimento di sangue.» Pépin non voleva difendersi. La sentenza fu pronunciata a Mende il 22 dicembre 1347. Fu relativamente moderata per un crimine che concedeva generalmente al rogo. Il nostro uomo se la cavò con un una esposizione di due ore, a Mende, su un’alta scala. Era stato rivestito con un indumento sul quale erano inscritti i suoi malefizi.
«Pépin visse per quindici anni, nella torre de Chanac o in qualche altra prigione del signor vescovo di Mende, del pane del dolore e dell’acqua della tristezza», per quindici annos pane dolori set aqua tristitie substentandum in turri de Chanaco vel aliquo alio loco carcere dicti domini episcopi Mimatensis.
V
Da tutto quanto sopra risulta ben chiaramente che le scienze occulte erano praticate a Perpignano durante il XIV secolo; due documenti ci dicono che era lo stesso nel XV secolo. Nei primi anni di questo secolo vediamo un drappiere di Perpignano, Georges Rabasser, accusato di aver praticato «l’arte dei pitoni e maghi» [Nota 15: Archives départementales, B 236.]; 17 aprile 1440, il Maestro Tommaso N., inquisitore, fece bruciare al centro della chiesa del convento di Saint-Dominique, e davanti a tutto il popolo riunito, un manoscritto di negromanzia «in cui, tra le altre cose, erano iscritti dei nomi e dei segni riprovevoli [per la Chiesa], in quo inter alia erant depicta multa nomina et charactera reprobata.» Questo libro iniziava così: «Assi comença lo libre appellat lo Sant Rexel...» [Nota 16: Archives départementales, G 159] e finiva: «Nunc est consecratus.» Se non era il famoso Liber juratus del Maestro Béringuer Guanell doveva essere qualcosa di simile.
Pierre VIDAL.
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Marco Pugacioff
[Disegnatore di fumetti dilettante
e Ricercatore storico dilettante, ma non blogger
(Questo è un sito!)]
Macerata Granne
(da Apollo Granno)
S.P.Q.M.
(Sempre Preti Qua Magneranno)
07/09/’24
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