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sabato 14 settembre 2024

I Vidoni una stirpe bretone nella Francia delle origini

 

I Vidoni

una stirpe bretone nella Francia delle origini

 


Stampato da Youcanprint e richiedibile in rete

 

Leggete e cercate di capire

Dall’alto della loro scienza tecnologia le università non arriveranno mai comprender tutto!

 

Questo è il riassunto del libro

 ...

Introduzione

   Nel mio recente libro sulla famiglia dei Vidoni, in copertina ho voluto raffigurare Guido (che chiamo Guido del Piceno) consacrato Imperatore, in un immagine di fantasia.

Non è completa fantastoria, come si potrebbe credere: certo, la sua armatura, il suo elmo nascono dalle immagini delle pellicole con Giuliano Gemma in veste da centurione romano, con in più delle corna alla Conan il barbaro per indicare una discendenza transalpina.

Per l’edificio in sottofondo in copertina dove Guido è stato consacrato Imperatore Romano mi sono ispirato all’abbazia sita sotto la collina dell’attuale Macerata Grane, le cui dotte istituzioni tentano inutilmente di cancellare come favola, o bufala, la tesi di Aquisgrana in Val di Chienti.

Parliamoci chiaro: Aquisgrana può non essere qui, ma comunque non è in Germania, se non a partire dal Barbarossa... Comunque sarà dimostrato con l’espropriazione dei terreni dietro la chiesa a due torri e spazzando Via tutto ciò che archeologicamente non sia più recente dei Longobardi.

 

ωωω

 

Leo e Marina, a bordo della loro Fragola.

   Nel mio libro ho avuto un‘amichevole revisione del navigatore Galileo Ferraresi e nella sua prefazione mi ha sinceramente stupito.

   Circa una quarantina d’anni fa, Leo riportava a nuovo una barca a vela nel cantiere Merani di Civitanova Marche; un giorno il proprietario del cantiere viene a sapere che l’indomani sarebbe andato “alla capitale”!

Ma non si riferiva a Roma, casomai a Macerata, perché gli riferì “i vecchi l’hanno sempre chiamata così; una volta era la capitale non della provincia, di tutto”!

 

   Mica male! Un paesino che non ha nemmeno dieci secoli di storia, capitale di tutto, fa come minimo ridere (in effetti, qualcuno nella piazza centrale a Macerata, non molto lontano dall’Accademia di Belle Arti, lo fa…). Visto che qui in zona c’erano prima Romani (principalmente Piceni e Camerti Umbri) e poi i Longobardi, una capitale ci poteva essere se non nella oggi morta Camerino.

Già, perché all’epoca di Guido del Piceno Macerata granne sempre se esisteva, erano quattro schifose capanne di legno e fango.

E comunque i Franchi (i frank) merovingi e carolingi dell’attuale France, no!

Però qualche Aquitano esule dalla loro terra, ebbene sì!

 


Questi sono i Franchi del territorio italico, gente affrancata da fame e paura, derivate dalla espansione islamica. Gente che chiamò la loro nuova terra Francia! Non molto tempo fa ho parlato per telefono con la Signora Anna S. [la Signora mi ha chiesto di non citate il suo nome] di Macerata. La signora aveva una nonna a Mogliano nata nell’anno 1900, la quale si trasferì negli anni ’60 a Macerata.

La signora Anna sentiva da bambina la nonna parlare di loro conoscenti che abitavano in Francia, ma non — ripeto — la France oltralpe, ma la nostra Francia!

Rimasta stupita, chiese spiegazioni alla nonna di dove fosse la Francia di cui si parlava. La risposta fu alle piane di Chienti, sullo stesso percorso, la stessa strada che portava da Mogliano a Macerata, l’attuale San Claudio - Pieridipa.


Accesso storico all’auditorium di Carlo Magno, all’interno de Der Granusturn ad Aaken cioè la Torre Granus, non aperta al pubblico. La torre non è menzionata nelle fonti scritte carolingie sopravvissute; solo dal Rinascimento, quando si credeva che la torre fosse una reliquia di epoca romana e la dimora del leggendario fondatore della città, Granus Serenus, fratello dell’imperatore romano Nerone.

   E Granno da cui Macerata Granne? Forse ci si riferiva al leggendario fratello di Nerone, Granus Serenus [chissà se vendeva pur lui, fiammiferi a Roma?], la cui torre svetta ancora ad Aaken (la dicono carolingia, però a vederla dalle foto non la direi più antica dell’anno mille e solo dal rinascimento è stata a lui attribuita come sua dimora)… o forse si riferiva al grano, ma il professor Carnevale scrisse «grano si diceva in latino frumentum. La parola granum esisteva, ma significava chicco, granello; ancor oggi, riferendoci alla corona del Rosario, diciamo grani del Rosario.»

Comunque ci doveva essere un’aia, un area (da cui Ara, bo…?) del grano. Peccato che nel luogo del documento dell’abbazia di Chiaravalle di Fiastra situato in mezzo a un bosco, dove era un pianoro chiamato «plana de Ara Grani», ci hanno costruito una chiesa. Su un luogo dove si batte il grano non ci si costruisce una chiesa. Le chiese venivano erette dove vi erano i luoghi di culto delle antiche religioni, perciò venne costruita Santa Maria in Selva. E l’altare allora che fine avrebbe fatto?

Vabbé, non esisteva e buonanotte sia all’ara, sia alla “capitale”.

Questo popolino così fantasioso…

 ...

   Grazie alle ricerche della signora Elisabeth De Moreau, venni a sapere della chiesa dei  Santi Dionisio, Rustico ed Eleuterio a Riprantasone.

All’inizio non me lo ricordavo, ma poi la cosa mi ritornò alla mente: la foto della teca che ho riprodotto sui miei albi di Cucciolo era sua! Non me lo ricordavo, ma è lei che ha visitato la chiesa, ed ora capisco perché, attraverso una lettera elettronica, mi chiedeva in quale libro il professor Carnevale avesse parlato di questi santi… ma il professore non mi pare che ne abbia mai parlato, perlomeno son certo di no, nei libri che gli scrissi sotto dettatura.

   In un libro bilingue (inglese-francese) scovato in rete Paris and Its Environs p. 38, Londra 1820 leggo «IL serait difficile d’assigner la véritable étymologie du nom de Montmartre, près de Paris. Plusieurs écrivains lui ont donné celui de Mons martyrum, parce que c'est là disent-ils, que St. Denis et ses compagnons reçurent la couronne du martyr. Le plus probable est que Montmartre doit son nom à un temple de Mars, élevé autrefois sur cette montagne, et le nom de Mons Martis lui est donné par un moine qui écrivit, en 896, un poème sur le siège de Paris. […] Vers la fin du septième, ou au commencement du huitième siècle, il existait sur cette montagne une église dédiée à St. Denis, et une petite chapelle, ædicula, parva ecclesia, où l’on conservait les reliques de plusieurs autres martyrs dont les noms ne sont pas parvenus jusqu à nous.»

Ovvero « Sarebbe difficile attribuire la vera etimologia del nome di Montmartre, vicino a Parigi. Diversi scrittori gli hanno dato quello di Mons martyrum, perché è lì, dicono, che San Dionigi e i suoi compagni ricevettero la corona del martirio. La più probabile è che Montmartre debba il suo nome a un tempio dedicato al Dio Marte, anticamente costruito su questa montagna, e il nome Mons Martis gli fu dato da un monaco che nell’896 scrisse un poema sull’assedio di Parigi. […] Verso la fine del VII, o l’inizio dell’VIII secolo, esisteva su questo monte una chiesa dedicata a San Dionigi, e una piccola cappella, ædicula, parva ecclesia, dove erano conservate le reliquie di diversi altri martiri. i cui nomi non ci sono pervenuti.»

 


   A questo punto mi era venuto il forte sospetto che ha portare quelle ossa nel Piceno siano stati gli antenati dell’imperatore Guido.

Sulla chiesa o pieve di San Rustico le fonti confermano la presenza della pieve nella contrada rurale di San Rustico, lungo la valtesino. Solo nel XII secolo, fu trasferita sul colle San Nicolò, dove si trova ancor oggi la chiesa, dal 1899 privata e non visitabile.

Ai giorni nostri, la frazione San Rustico si trova a Monte San Pietrangeli (Ap).

 

La cosa da fare era una ricerchina sull’origine oltralpe famiglia franca di origine bretone; mi sono avvalso come guida della famigerata wiki, ovviamente quella francese abbastanza più affidabile di quella italiana. Ma solo come guida, perché poi le ricerche sono mie, al di fuori de ‘sta wiki.

 

In grigio, per non crear problemi, ho messo le mie ipotesi.

 

Veloce cronologia riassuntiva dei Widonides,

dalla wiki francese con integrazioni personali

 

Tullia Leporace – prima studiosa dell’imperatrice Ageltrude – a pag. 17 del suo libro, dà una genealogia del ramo principale dei Guidoni, basandosi sui scritti di Wüstenfeld del 1863, e mette per primo...



S. Leodoino (Liutwin) Liévin de Treves

 

Liutwin fu arcivescovo di Treviri (dal 697 al 718), e di Reims dal 715 al 722.

Era figlio di Gerwin o Saint Warin, conte di Poitiers e di Paris, sposato con Gunza, sorella dell’arcivescovo Basin di Treviri. La moglie di Liutwin era Willigard di Baviera. Ebbero come figli Milon, Conte di Trèves, Wido, conte di Hornbach e si pensa Rotrude, moglie di Carlo Martello e quindi nonnina di Carletto poi Magno.

 

Secondo la leggenda l’abbazia di Mettlach fu fondata dopo che Leudwinus partì per una città presso il fiume Sarra. Durante il Viaggio si addormentò all’ombra di un albero. Mentre dormiva, il sole cambiò posizione, esponendolo ai suoi caldi raggi, ma un’aquila passò volando sopra di lui e sì posò su di lui con le ali spiegate. Quando Leudwinus si svegliò il suo servitore raccontò come l’aquila lo aveva protetto dalle scottature. Per coincidenza, Leudwinus fece il suo pisolino sul luogo del Miracolo dell’Aquila, Vicino alla Cappella di Saint-Denis de Paris. Leudwinus vide questo prodigio come un segno inviato da Dio per fargli fondare un monastero benedetto in quel sito. La chiesa parrocchiale di Saint-Gangolf a Mettlach si trova oggi sul sito dell’antica cappella di Dionisio (Denys).

Visto che le ossa dei Sanctorum Dyonisii, Rustici et Eleuterii riposano nel Piceno anche questo è un dato che avvalla che Aquisgrana era nel Piceno, come esposto nel secondo libro che scrissi sotto dettatura per il Professore [Il libro è Il rinvenimento delle sepolture di Pipino il Breve e di sua moglie Berta nell’attuale collegiata di San Ginesio, Simboli, 2010.], e che c’è le abbiano portate a Ripatransone  i Vidoni.

   A proposito dei Vidoni, il libro Mitteilungen des Instituts für Österreichische Geschichtsforschung del 1907 dice a pag. 349 «Il duca Wido (I) di Spoleto viene menzionato per la prima volta il 29 agosto 842, quando l’imperatore Lotario I restaurò alla chiesa di Treviri il monastero di Mettlach, assegnato a Wido durante le lotte interne degli anni precedenti. E alla nota relativa: M2. 1092 (1058): cuidam ex procerihus nostris Witoni Spolitanorum duci cuius origo ad prefutam ecclesiam propter Dei amorem memorutum contulit monusterium.

Il traduttore in rete mi dà: «uno dei nostri capi, i Witoni degli Spoletini, la cui origine portò alla suddetta chiesa, per amor di Dio, il menzionato monastero.»

Liutwin, fedele sostenitore di Carlo Martello, gestì oltre alla sua diocesi anche la chiesa di Reims e forse anche la chiesa di Laon e trasmise questa carica, inammissibile secondo il diritto canonico, a suo figlio Milo, ucciso da un cinghiale nel 753.

Leodoino fu sepolto nel Monastero di Mettlach.

 

ωωω

 

Guy de Nantes

 

   detto Wido (nato intorno al 750, morto prima dell’818), conte di Nantes e marchese della marca di Bretagna da prima del 799 a prima dell’818.

Ebbe come fratelli Frodoald e Werner; come figli sono accertati Lambert I di Nantes e Gui II di Vannes, conte di Vannes da prima dell’814 al 831 poi divenne conte del Maine dal 831 al giugno 834 quando fu ucciso.

   Figlio di Lambert e Teutberge, discende dalla famiglia ”Widonides", detta anche famiglia ”Guy, Garnier, Lambert”, originaria dell’Austrasia [L’Austrasie è un regno franc del periodo merovingio. Questo regno copre, oltre al nord-est dell’attuale Francia, il resto dei bacini della Mosa e della Mosella, fino al bacino del medio e basso Reno e sembra sia considerato la culla della dinastia carolingia.].

Il conte Guy prima del 796 fece importanti donazioni a Fulrad di Saint-Denis prima del 768. Ricevette il comando delle marche di Bretagna e prima del 799 della contea di Nantes, mentre suo fratello Frodoald gli era subordinato come conte di Vannes.

Guy morì prima dell’818, lasciando come successore il figlio, il conte Lamberto I di Nantes, marchese della Marca.

 

Lambert I di Nantes

 

Lambert I (morto il 30 dicembre 836) conte di Nantes prima dell’818—831 e marchese di Bretagna dall’818 all’831, poi duca di Spoleto 834-836.

Fratello di Gui II di Vannes, sposò Adelais che forse era un’anonima figlia illegittima di Pipino d’Italia, oppure una certa Rotrude. Se la consorte non è certa, certi sono i figli; Guido I di Spoleto, Lambert II di Nantes, Garnier (che fu conte ucciso nel 852) Dova, che fu abbadessa di Craon e di Nantes, deceduta dopo l’846 e infine Itta.

Lambert I succedette a suo padre Guido prima dell’818 divenendo Conte di Nantes e prefetto della marca di Bretagna.

Durante la ribellione del primogenito dell’imperatore Ludovico il Pio, si schierò dalla parte di Lotario I, fu “disonorato” poi esiliato all’inizio dell’831 con quest’ultimo in Italia dove divenne duca di Spoleto. Bernhard Simson nei suoi annali del 1876 scrive «Tra i grandi che seguirono Lotario, il conte Lamberto fu considerato il più potente [Prudent. Trec. Ann. 837 p. 431: Lantbertus, fautorum Lotharii maximus].»

 

Sempre il libro Mitteilungen des Instituts für Österreichische Geschichtsforschung riferisce «Suo padre, il conte Lambert, come suo padre Wido prima di lui, governò le Marche bretoni sotto Ludovico il Pio. Nell’834 seguì il giovane imperatore Lotario attraverso le Alpi e qui terminò prematuramente la sua vita nell’837.»

Scomparse durante l’epidemia dell’836/837 che devastò la nobiltà franca.

Ma Lambert pur essendo duca di Spoleto morì... nel Caton Ticino.

 

Lambert II di Nantes

Lambert II morì nel 852, fratello di Guido I di Spoleto, ebbe come consorte Rothrude (circa 835/840 - †?) figlia di Lotario I. Ebbe come figlio accertato Wicberto che fu assassinato nell’883 dal cugino duca Ugo d’Alsazia, figlio illegittimo di Lotario II di Lotaringia.

Lamberto II di Nantes è senza dubbio il secondo figlio dell’ex conte Lamberto I di Nantes e di sua moglie, di cui non si conosce il nome. Secondo la Cronaca di Nantes [una raccolta di racconti storici in latino (Chronicon Namnetense) riguardanti la storia della città e della contea di Nantes tra il 570 e il 1050] «sarebbe stato allevato ed educato secondo i costumi dei Bretoni [il aurait été nourri et instruit selon les mœurs des Bretons

Lambert, la cui sorella Dova era badessa di Saint-Clément a Craon, cercò di trovarsi un nuovo dominio, ma fu ucciso il 1° maggio 852 in un’imboscata tesa da un Rorgonide [una famiglia della nobiltà frank in cui molti membri si chiamarono Rorgon (ou Roricon)], Gausbert “il Giovane” (juvenculus), che era preoccupato per il patrimonio della sua famiglia.

Lambert è sepolto a Savennières.

 

Witbert

  Una nota storica sui Vidoni arriva dal testo del 1969 di Eduard Hlawitschka “Gli imperatori Guido e Lamberto, discendenti di Carlo Magno? [WAREN DIE KAISER WIDO UND LAMBERT NACHKOMMEN KARLS DES GROSSEN ?] scovato in rete; qui a pag. 386 è scritto in italiano «In base ad un documento finora poco studiato, proveniente dal mo­nastero die Tournus in Borgogna, si dimostra che Rotrude, figlia dell’imperatore Lotario I, aveva sposato Lamberto II, conte di Nantes, ucciso nell’852 [Il documento dice: pro libercitione Lanberti genitoris mei necnon et Rutrudis genetricis meae et mea am 28. Januar 870, vedi alla pag. 368.]. Poiché questi era figlio del marchese Lamberto I di Nantes, esiliatosi in Italia nell’834, è escluso, in base alle norme sul diritto matrimoniale, che il primo Lamberto abbia avuto per moglie una figlia di Pippino re d’Italia, come è stato spesso sostenuto sulla scorta di fonti evidentemente insuffi­cienti. Poiché anche un altro figlio di Lamberto I, Guidone marchese di Spo­leto - morto nell’858 circa e padre a sua volta dell’imperatore Guidone - per analoghi motivi d’ordine giuridico-matrimoniale, non può aver sposato una figlia di Lotario I (come analogamente da altre parti è stato ritenuto), se ne deduce che gli imperatori Guidone e Lamberto, che regnarono in Italia nell’ul­timo scorcio del IX secolo, non sono stati in alcun caso discendenti di Carlo magno. Questo contrasta con un principio spesso sostenuto per cui sarebbero stati eleggibili a re soltanto i consanguinei di Carlo Magno.»

 

Foulques le Vénérable o Folco il Venerabile

 

Rappresentazione di Foulques le Vénérable

vetrata della basilica Saint-Remi di Reims.

 

   Dall’anno 883, fu il 33° arcivescovo di Reims (carica poi ricoperta dal 991 al 995 come quarantunesimo arcivescovo, dall’aquitano Gerbert d’Aurillac, più famoso come papa Silvestro II morto nel 1003).

Nell’887, dopo la deposizione dell’imperatore Carlo III il Grosso, cercò di portare sul trono di Francia il suo parente Guido di Spoleto, e lo fece addirittura incoronare a Langres nell’888. Sono sconosciuti i loro rapporti di parentela; forse Guido era un suo nipote...

In effetti, ipoteticamente, l’alta carica vescovile potrebbe averla raggiunta se fosse stato un figlio di quel Witbert, figlio di Rotrude di sangue imperiale e sposa di Lambert II; data la discendenza carolingia il metropolitano di Reims avrebbe avuta l’idea di far salire al trono imperiale il nipote italico.

In seguito Folco appoggiò il re Carlo il Semplice contro Eudas, tanto da incoronarlo a Reims nell’893, riuscendo poi a riconciliare i due rivali. Per gratitudine Carlo lo nominò suo cancelliere [Da Dictionnaire universel d’histoire et de géographie, Bouillet et Chassang, Parigi 1878, p. 684].

Foulques fu assassinato il 17 giugno 900 nei pressi di Compiègne per ordine di Baldovino II di Fiandra, conte delle Fiandre, che bramava l’abbazia di Saint-Bertin, di cui Foulques era abate dall’878.


   A questo punto nel libro prendo a parlare delle vicende dei Vidoni, ormai Marchesi di Camerino e Duchi di Spoleto.

  Dal padre dell’Imperatore franco di origine bretone, alle vicende dello stesso Guido, che per amore di una fanciulla longobarda (forse da bambina data in ostaggio ai Saraceni) chiamata Ageltrude, divenne un grande difensore della terra dove era nato, le cui vicende narro nel libro.

    Come della audace tecnica di battaglia dei cavalieri bretoni dell’Imperatore, che seppur stanchi potevano incutere timore agli spietati austriaci del re barbaro Arnolfo…

La mancanza fisica di documenti, fa soffrire enormemente la ricerca.


I luoghi dove l’Imperatore andò… naturalmente non a Paris, né ad Aaken,

allora sì che si inventano gli eventi storici!

 

Ma arriviamo al momento in cui l’Imperatrice vedova [Guido morì nell'894] deve difendere Roma dalla minaccia di un avventuriero tedesco, un certo Arnolfo di Carinzia che aveva fatto deporre suo zio, l’imperatore Carlo il Grosso.

Vuole il trono imperiale e una carogna (da vivo, come da morto) che ebbe il nome di Formoso (il professor Carnevale ipotizzava essere di origine sassone) chiama Arnolfo per incoronarlo (anti)imperatore al posto del legittimo imperatore Lamberto, di appena quindici anni d’età.  

Ageltrude, da madre avveduta, spedisce il figlio in Borgogna a chieder rinforzi e tenta di convincere i “Romani” ad ostacolare l’entrata nella città all’usurpatore.

   È scaturito dalle ricerche di Massimo Orlandini, un testo particolare, che scoprii poi esser piuttosto tardo, del 1656. Si tratta de Theatrum historicum di Christianus Matthiae, in cui si legge chiaro e tondo che la Roma in questione, non è quella di Giulio Cesare, ma un’altra città! E il documento è inequivocabile!   

«Leoninam urbem (quae et civitas nova Roma vocabatur»

E il ricercatore seicentesco lo ribadisce due volte, sia per i tempi di Carletto Magno, sia per Ageltrude. Aveva accesso a dei documenti non più disponibili.

 

Ageltrude e Lamberto

Dove sia questa città non possiamo saperlo, ma di sicuro non è nel Lazio. È in piena zona picena! Che sia la cosiddetta città longobarda dietro l’edificio di San Claudio, sia la “Roma” della tradizione orale storica [che fa parte della mia tradizione di famiglia] non lo sappiamo e non lo sapremo mai.

La mancanza di documenti o l’occultamento degli stessi, va avanti da molti anni.

Se si sa, per esempio, il nome dell’autore degli affreschi del castello di Beldiletto che era vergato in una particolare pergamena. Scrissi «tale maestro Antonio di Giovanni Allegri da Santa Anatolia, il cui nome e qualifica appaiono nei rogiti notarili stilati dal notaio ser Matteo di Mastro Marano negli anni che vanno dal 1452 al 1474 [V. il capitolo Beldiletto, nel mio Ageltrude tra i Carolingi e Napoleone].»… ma il documento non si trova più.

Se sono stati studiati e trascritti i diplomi dell’imperatore Lamberto per l’abbazia di Santa Croce al Chienti, custoditi nell’archivio di Sant’Elpidio a Mare… guarda caso neanche questi si trovano più.

Che dire, se che ben più di un legittimo sospetto mi nasce spontaneo: i due archivi erano stati riordinati da un certo… ricercatore tedesco. E più in là non vado. Chi HA orecchie per intendere, capisce cosa voglio dire. 

 

    Per tornare all’Imperatrice,  parlo di un fatto che non ho narrato nel libro; l’assalto alla “capitale”, vorrei paragonarlo alla calata dei Lanzichenetti nel 1527 che in pratica distrusse la popolazione di Roma e vennero poi tanti toscani e lombardi a ripopolarla; ma vorrei anche collegarla al processo di Formoso che non si sa dove è stato fatto, a “Roma” o nella fantomatica Ornat, per colpa di un terremoto.

Un terremoto che però deve  esser avvenuto poco prima dell’assalto e non durante il processo. Tanto che i “barbari” penetrarono superando con scale oppure a forza di selle da cavallo ammonticchiate le une sull’altre o abbattendo le porte a colpi di ascia o coll’ariete. Una città credo proprio già colpita appunto da un… terremoto e difficilmente difendibile, questa ovvio è solo una mia congettura, una mia fantasia scaturita da tutti i terremoti che funestano il Piceno da secoli.

   Gli uomini dell’avventuriero barbaro commettono molte violenze: i sacerdoti vengono trascinati in catene, le vergini violentate, le spose stuprate e le chiese, da sempre considerate asilo inviolabile, diventano luoghi per banchetti, canti osceni, baccanali e bordello per le donne che si prostituiscono. Questa visione da incubo ci è data da Liutprando di Cremona, nel suo Storia di Roma nel Medioevo, libro I, ai capitoli 28 e 33.

Al che mi domando chi ha voluto realmente il processo alla carogna di Formoso. Davvero Ageltrude? Stefano VI? Oppure...

una inestinguibile sete di vendetta del popolo romano.

 

   Con l’assalto della soldataglia di Arnolfo, Ageltrude deve fuggire. Non può tornare alla città in cui fece crescere suo figlio, ovvero Camerino, perciò è giocoforza dirigersi verso il mare e cioè a Fermo. Con tutto ciò che ne consegue, ovvero la porzione avvelenata per il barbarico anti-imperatore che lo fa tornare «stupido e infermo» in Germania (o meglio in Austria) dove morirà divorato dai vermi nel suo letto.

Doveva essere l’anima demoniaca di Formoso – che per anni, mangiò a sbafo nella casa dei Vidoni a Spoleto – che voleva vendicarsi di Arnolfo e di Lamberto, ucciso nei boschi di Mastrengo. A Mastrengo nel nord Italia? Ecco perché l’imperatrice madre e il giovane imperatore non erano presenti al processo. Se il territorio italico al sud e al centro, riuscivano bene o male a tenerlo sotto il loro controllo, non così era al nord (la lunga mano di Berengario?); ed ecco perché al processo era invece presente Guido IV.

Infatti anche il processo di riabilitazione a Formoso promosso dal giovante Imperatore avvenne a Ravenna e guarda ancora il caso… i documenti non si troverebbero più.

   Alla morte del figliolo imperatore, (per una banale caduta da cavallo (come fosse vero…) nelle selva di Mastrengo, l’Italia ridiventò teatro di guerre sanguinose.

Berengario del Friuli antico nemico di Guido del Piceno, tornò dal suo esilio e conquistò le province settentrionali.

Ageltrude, madre dello sfortunato Lamberto, tentò invano di resistergli.

L’imperatrice deve piegarsi alla legge del conquistatore, riprende il suo abito monacale che per l’amore verso Guido aveva in gioventù lasciato e se lo rimette per rinchiudersi nella sua casa, a Camerino, come religiosa, dove ancora viveva nel 907.

   Ma a Camerino, Ageltrude non può rimanere. L’ambizione di Alberico detto di Spoleto, ma in realtà di spe camerina come recita una glossa (una nota) sui Gesta Berengarii, da ipotetico conte di Fermo [e grazie alla Professoressa Licini ora sappiamo che «i conti di Fermo esistevano, eccome (lib. p. 113)! Il titolo viene da Firmanus Comitatus costituito da Carlo Magno, come leggiamo nelle  capitolazioni di Carlo Magno e di Ludovico, Re dei Franchi (cfr. Étienne Baluze / Spephanus Balutius, Capitularia regum Francorum. Additae sunt Marculfi Monachi & aliorum Formulae veteres, et Notas doctissimorum Virorum; Tomus Secundus, Parisiis, Ex Typis Benedicti Morin, 1780, Firmanus Comitatus, col. 1548; Lupus Comes Firmanus, col. 1538; Tomas Primus, 1677, coll. 755 e 1188)».] divenne duca di Spoleto uccidendo Guido IV; la vendetta del malefico Formoso inizia da qui.

Alberico dà inizio a una stirpe di… papi. Suo nipote Ottaviano, diventa papa Giovanni XII, e sembra che Ottaviano-Giovanni venisse scaraventato da una finestra da un marito tradito, che lo aveva trovato a letto con la propria moglie; e dopo di lui, il successore del pontefice dell’anno mille, Gerberto da Aurillac, papa (gatto)Silvestro II… che venne da Rapagnano di Fermo (il caso arriva davvero per caso?). Regnò pochi mesi con il nome Giovanni XVII e se andò il 31 ottobre 1003.

 

  E l’ex imperatrice dove va? Il ricercatore Roberto Mancuso ha realizzato un libro intitolato La pieve di San Nicomede e L’imperatrice Ageltrude — Da Benevento a Rambona e Salsomaggiore Terme.

L’autore si chiede il perché del trasferimento dell’ex imperatrice e ipotizza su presunti propositi politici di alto livello; può essere benissimo, dai tempi in cui l’imperatore era ancora vivo, ma è vicina la realtà di voler essere vicina alle tombe del marito e del figlio e di essere anche che sui suoi possedimenti come appunto la stessa pieve di San Nicomede.

E la leggenda vuole che sia sta sepolta, non a Varsi, ma a San Nicomede, per di più in un sarcofago d’oro massiccio.

Vabbé, fantasie del popolino…

 

  Ma la maledizione del malefico Formoso ha colpito a fondo: la tomba dell’Imperatore era nella cattedrale di Parma che venne distrutta da un incendio nel XI secolo (un secolo prima della Translatio imperii), la tomba di Lamberto forse è a Varsi, e la tomba dell’Imperatrice deve esser già stata violata da molto tempo…

 

    Comunque vorrei fermarmi qui, con queste ricerchine. Il potere di tipo massonico di chi ride (coi loro denti da caimano), in piazza a Macerata, ostacola troppo, ti fa passare per un povero imbecille, insomma non ti fa vivere.

Anzi mi sembra di essere negli anni venti, non del 21° secolo, ma in quelli del nostro, anzi mio 900, dove chi comandava era a Roma e soprattutto a Berlino.

Oggi, nel ’24, da come ne parlavano in famiglia, si respira proprio quello stesso fetore.

 

I contenuti dello scritto “I Vidoni”, con le immagini ivi contenute, di Marco Graziosi in arte Marco Pugacioff pubblicato su questo blog non possono essere copiati, riprodotti, pubblicati o redistribuiti perché appartenenti all'autore, che ne detiene tutti i diritti.

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Qui sopra la bella illustrazione dell'artista

Roberto "Gaspar" Gonzales di Buenos Aires.

Vi saluto.

 

Marco Pugacioff

[Disegnatore di fumetti dilettante

e Ricercatore storico dilettante,

Macerata Granne

(da Apollo Granno)

S.P.Q.M.

(Sempre Preti Qua Magneranno)

14/09/’24

 articoli

 

sabato 7 settembre 2024

Pierre Vidal Le scienze occulte a Perpignano nel XIV secolo

 

Pierre Vidal

Le scienze occulte a Perpignano

nel XIV secolo

 

§§§

 

Prefazione di Marco Pugacioff

 


    Secondo lo studio di Solène Baron, [Doctorante en histoire médiévale - Université Paris Cité] Un procès de magie en Gévaudan et ses enjeux politiques (1347), l’autrice scrive che «prima di prendere principalmente i tratti della strega [sorcière], l’occulto aveva il viso del nigromantus, l’evocatore di spiriti [l’invocateur d’esprits].

Si intende per occulto ciò che sfugge alla ragione, ciò che non può esser conosciuto in alcun caso. Secondo Ruggero Bacone, è prima di tutto questione di segreto: ciò che gli uomini non conoscono ancora, ma che possono svelare. Nondimeno, le opere di magia non fanno distinzione tra segreto e occulto. Quest’ultima nozione non viene teorizzata dai trattati di magia, che soprattutto valorizza costantemente il segreto, che tutti i negromanti devono detenere per soggiogare gli spiriti. [Vedi Jean-Pratice Boudet, « Des savoirs occultes et illicites ? Les textes et manuscrits de magie en Italie (xiv-début du XVI siècle) », Frontières des savoirs en Italie à l’époque des premières universités (XIII - XV siècle), J. Chandelier et A. Robert (dir.), Rome, EFR, 2015, p. 509-539, ici p. 528-530.]

   Al XIV secolo, le donne non rappresentavano ancora la stragrande maggioranza degli accusati per crimini di stregoneria.  I processi inerenti la magia contavano 107 donne accusate e 127 uomini, senza contare i Templari. [vedi J.-P. Boudet, Entre science et nigromance. Astrologie, divination et magie dans l’Occident médiéval (XIII – XV siècle), Paris, Publications de la Sorbonne, 2006, p. 485.

   Costantino Di Maria, alle pagine 177-179 del suo “Enciclopedia della Magia e della stregoneria” (De Vecchi editore – ristampa Edizione CDE 1985) scrive «Lo stregone prende un pezzo di cera vergine, cioè non ancora lavorata […] e ne fa un pupazzetto, battezzandolo con il nome di colui o di colei su cui agire […].

Questo fenomeno che stabilisce una corrispondenza reale tra un’immagine e la persona che l’immagine rappresenta, è stato studiato con molta oculatezza:  la parola envoûtement ne vuol fare comprendere tutta l’importanza, perché suol riferisci al volto del maleficato. Quindi “involtalmento” [Dal latino: in e vultus] (francese envoûtement), cioè corrispondenza per rassomiglianza del pupazzetto alla persona su cui si vuole agire, cosa che rende più o meno probabile l’effetto. Nella lingua italiana non vi è una parola precisa che risponda e interpreti con esattezza quella francese; vi è “maleficio” e “malìa”: quella che più si avvicina è “fattura”, nel significato di stregoneria compiuta contro una persona per le “fattezze” o sembianze di quella, ed è parola dell’ottima lingua italiana del Sacchetti e del Boccaccio: così come il verbo “affattuare”.

   All’epoca di Caterina de’ Medici e in Francia sotto i regni di Enrico II, Carlo IX ed Enrico IV, questa maniera di stregare a morte era diffussima. Pare nel Medioevo in Italia dovesse conosciuto molto il metodo, perché un recente studio ha posto in vista un maleficio che Galeazzo Visconti voleva commettere contro papa Giovanni XXII, tanto che Dante Alighieri, che pare avesse fama di mago molto esperto, fu interrogato se volesse battezzare (o meglio, come allora si diceva, “incantare”) la statuetta d’argento del papa.»

 

 

 


Etienne Pipon… Cucciolo interpreta Stefano Pépin

 

 

Prefazione di Pierre Vidal

 

   Nel 1892, il signor Falgairolle  aveva fatto delle interessanti ricerche a Mende (dove ricoprì le funzioni di sostituto del procuratore della Repubblica), e pubblicò gli estratti di un processo (intentato nel 1347) contro un certo Stefano [Etienne] Pépin, accusato di aver tentato di stregare il vescovo di Mende [nota 1: Un envoûtement au Gevaudan en 1347, Nîmes, Catelan, 1892.].

Il vescovo era Albert Lordet che aveva per nipote Guillame Lordet, il quale gli succede come vescovo di Mende nel 1362 [Nota 2: Vedi nota 4 dello studio di Solène Baron.].

   Gli interrogatori che Pépin subì, redatti in un latino passabilmente barbaro, secondo la pratica dell’epoca, ci hanno fatto sapere che egli venne a Perpignano per potervi studiare le scienze occulte. Questa pubblicazione del signor Falgairolle mi fu segnalato nel 1911 grazie al mio amico il signor Conte di Dienne che l’aveva già utilizzato per uno studio dello stesso genere [Nota 3: Le Maitre Guillaume de Carlat dans su tentative d’envoûtement de Bernard VII d’Armagnac. Aurillac, E. Blanchabel, 1911.]. Vanamente tentai di acquistare la brochure del signor Falgairolle divenuta rarissima, ma grazie alla cortesia del signor di Dienne mi fu possibile prenderne visione e di estrarre ciò che concerneva il soggiorno di Pépin a Perpignano. Vi è di certo materia di un capitolo assolutamente nuovo della Storia del Rossiglione.

 

I

 

     Stefano Pépin era originario di Menat, nella diocesi di Clermont [Nota 4: Capoluogo del cantone di Puy-de-Dôme, distretto di Riom.]; riceve canonicamente gli ordini sacri e entra nel convento dei Frati Minori di Souvigny [Nota 5: Capoluogo del cantone de l’Allier, distretto di Moulins.].

In questa cittadina abita “il Maestro” [«le Maître»] Théodore Barbancie, esperto nella scienza della Pietra filosofale; Pépin arriva a conoscerlo e diventa suo allievo. Al convento è mal piazzato per potersi dedicare ai suoi nuovi studi, che contrastavano con le sue pratiche religiose e l’obbligavano a delle precauzioni enormemente fastidiose. Per cui getta i suoi abiti alle ortiche e va ad abitare con il Maestro Barbancie; passa all’incirca quattro mesi con lui, approfondendo lo studio della Pietra filosofale, «che – afferma – non è una pietra, come si crede comunemente, ma una polvere».

    Sentendosi capace di volare con le proprie ali, Pépin lascia il Maestro Barbancie e va a stabilirsi a Langeac [Nota 6: Capoluogo del cantone della Alta Loira [Halte-Loire], distretto di Briounde.], dove associa alle sue ricerche un damoiseau [giovane gentiluomo non ancora cavaliere.] dal nome di Guillaume Rocell; i due si guadagnano ben presto la reputazione di alchimisti e di maghi, sebbene un giorno Pépin riceve la vita di un altolocato del luogo o vicino di marca [voisin de marque], Guérin de Châteauneuf Randon, signore di Apcher, che gli viene a proporre di stregare il vescovo di Mende, di cui aveva giurato la sua perdita, ovvero di fargli perdere la vita. 

    All’inizio, Pépin si scusa, assicurando che le sue preoccupazioni erano solo verso la pietra filosofale, non avendo ancora studiato questa parte delle scienze occulte; sapeva, in verità, che si doveva formare una figura di cera rassomigliante a qualcuno, con il pensiero di farlo soffrire, in seguito di certe pratiche magiche, e tutto ciò doveva farlo soffrire alla figura [Nota 7: È nel nostro Respon de sant Antoni.]; ma erano precisamente queste pratiche che egli ignorava; queste si trovano, affermava, in un libro intitolato Liber juratus, composto dal filosofo Honorius con l’aiuto di Attohël, uno degli angeli della Spera lunare [Sphère lunaire]! «Il Libro giurato» [le Livre juré], aggiunge Pépin è detto «sacro» [sacré] a causa della collaborazione di quest’angelo, e «giurato» perché non deve esser dato a leggere se non che a un uomo di cui non si sia constata l’esclusione dal peccato durante un intero anno, e mai a una donna, perché la donna è sempre disposta al male, e tali segreti non possono essergli rivelati.

   Allora il signore di Apcher fa capire a Pépin che egli poteva forse procurarsi una copia dell’indispensabile Liber juratus con l’intermediazione di un amico che non era altro che il Re di Maiorca; perciò i due decidono di andare a Perpignano dove risiede questo monarca. Bisogna ricordare che il Gévaudan, dove era situata la signoria di Apcher, era dipesa per lungo tempo ai re di Aragona da cui discendeva l’attuale re di Maiorca; questi non si era piegato alla corona di France che all’atto del trattato di Corbeil nel 1258, ovverosia all’incirca ottantacinque anni prima della degli avvenimenti di cui stiamo narrando.

«Non bisogna quindi stupirsi – scrive il signor conte di Dienne – che i potenti signori di questo paese avessero conservato delle relazioni con i principi della dinastia di Aragona» [Nota 8: La nota originale cita: Ouvr. Cité, p. 55.]. Questa notazione è più che giusta, e l’autore avrebbe potuto aggiungere che Guérin de Châteauneuf, signore di Apcher, era probabilmente lo stesso che fu ciambellano del re di Majorca Giacomo secondo [Jacques II] e che questo principe appellò un giorno «suo caro cugino e fedele consigliere [Nota 9: Histoire générale de Languedoc, èd. Privat, t. IX, p. 552.]». 

    Il tentativo di stregare il vescovo di Mende è – ci hanno detto – del 1346 e il processo fatto a Pépin, dell’anno seguente [Nota 10: Falgairolle, ouvr. Cité.]; ora, a quest’epoca, il regno di Maiorca non esisteva più; Pietro quarto [Pierre IV], re d’Aragona, l’aveva brutalmente soppresso dalla fine del mese di luglio 1344 con l’occupazione di Perpignano, seguita subito dopo da quella di tutto il Rossiglione e delle isole Baleari. Giacomo secondo, il re detronizzato e fuggiasco si sarebbe ben guardato di venire nella sua antica capitale nel 1346; d’altra parte, non sarebbe stata essere un’intenzione di suo figlio Giacomo III, il quale non fu altro che un semplice pretendente alla corona di Maiorca che dopo la morte del padre, avvenuta davanti Palma il 25 ottobre 1349, e che non rimise mai più piede in Perpignano dopo il mese di luglio del 1344. Fu dunque necessario che il signore di Apcher e Pépin fossero venuti a Perpignano prima di questa data per preparare la stregoneria del vescovo di Mende; da ciò che ne segue è che non con il re Giacomo secondo con cui essi volevano conferire e non con suo figlio Giacomo terzo, come scrive [Nota 11: Falgairolle, ouvr. Cité.].  

 

II

 

    Deciso il viaggio per Perpignano, il signore di Apcher prende l’iniziativa. Qualche giorno dopo il suo arrivo, scrive al suo complice per invitarlo a raggiungerlo immediatamente nella capitale del regno di Maiorca. Giacomo secondo riceve Pépin a braccia aperte, e si stabiliscono delle relazioni amichevoli tra di loro. Pépin assicura che il re gli offriva un grosso volume, redatto da lui medesimo, intitolato De Naturalibus. Non sappiamo se, in cambio, Pépin lo fornisca di oro tramite la sua arte, di cui il re aveva urgente bisogno in quest’epoca; ma non dovrebbe essere probabile poiché, nel corso del processo, confessò di non aver potuto scoprire la Pietra filosofale, e in ciò conviene credergli. Tuttavia, Giacomo II aveva una seca dove sfornava del danaro con il titolo di Rex Majoricarum. Questo atelier era situato in uno dei fossati del Castello reale, in quodam valle quod est intra dictum castrum [Nota 12: Citato da Lecoy de la Marche, Les relations politiques de la France avec le royaume de Majorque, t. II, p. 90.]. Il  re fu accusato di aver fatto del danaro falso, cosa che tra l’imbarazzo generale si sapeva; potrebbe ben essere che la presenza di Pépin a Perpignano e il suo affiatamento con il re abbia contribuito ad espandere questa calunnia odiosamente alimentata dal re d’Aragona Pietro Quarto.

    Con l’intermediazione di Giacomo Secondo, Pépin entra in contatto con numerosi uomini di scienza di Perpignano. Conosce in specialmodo «il Maestro di arti

[Nota 13: Locuzione-Frase nominale

maître ès arts maschile (ortografia tradizionale)

 - Persona che ha conseguito, in una università o istituto specializzato, i titoli che danno l’abilitazione all'insegnamento delle discipline umanistiche e filosofiche.

   Diderot, dopo aver studiato al collegio di Harcourt, divenne maestro di arti nel 1732. [Diderot, après avoir étudié au collège d’Harcourt, devint maître ès arts en 1732]

 - Maître ès arts significa maestro delle arti e non maestro e arti [maître en arts et non maître et arts].

v. = https://fr.wiktionary.org/wiki/ma%C3%AEtre_%C3%A8s_arts

[le Maître es-arts] Berengario [Béringuer] Guanell, grande esperto in magia, che si glorificava di evocare i demoni e di poterli placare. Era proprio lui che sapeva dove si trovava il famoso Liber juratis, questo manuale di ermetismo contenente le formule necessarie per praticare l’esorcismo, la stregoneria. Il maestro Guanell non conosceva nulla riguardo la scienza della Pietra filosofale; Pépin si offre di istruirlo in ciò, a condizione che il maestro Perpignanese gli comunicasse le sue conoscenze in magia e di fargli trovare il Liber juratus che non si trovava a Perpignano: era infatti nel Castello di Trassore, in quodam castro vocato Trassore prope Perpinhanum. Si può credere che si tratti di Tresserre, perché non è mai esistito un Castello di Trassore nel Rossiglione.

   Sia quel che sia, Béringuer Guanell e Pépin andarono a cercare il Liber juratus nel Castello di Trassore e lo portarono a Perpignano. Non era nemmeno da pensare per Guanell di vendere questo prezioso documento; non ci si libera facilmente di un libro che può produrre delle meraviglie; Pépin lo sapeva; così, domanda al Maestro di poterne fare una copia, dietro un pagamento finanziario e delle buone lezioni di Pietra filosofale. Guanell accetta, e il prezzo fu fissato a venti fiorini che, notiamo bene, furono forniti dal signore di Apcher e dal re di Maiorca. Costui era molto probabilmente un adepto dell’ermetismo, ma c’è da credere che ignorasse l’uso che Pépin e il suo complice progettavano di fare con il Liber juratus.

 

III

 

   Il Maestro Guanell si mise all’opera; ma andava troppo lentamente. Pépin ne approfitta per passare in Spagna con delle lettere di raccomandazione del re di Maiorca. Pensava di trovare aldilà dei monti dei nuovi elementi per poter perfezionarsi in magia. Non si ingannava. A Cordova trova – dice egli stesso – un libro composto dal re Alfonso [le roi Alphonse], che insegnava la maniera di fare le immagini, reperit libros Alphonsi regis qui docent ymaginis faciendis. Si tratta di Alfonso decimo [Alphonse X], re di Castiglia, che visse in filosofia sul trono (1252-1284).

    A Cordova, Pépin apprende che «la lesione dell’immagine conduceva alla lesione dello stregato», e che «la fede cieca dell’operatore era assolutamente necessaria per produrre il risultato desiderato». Riconosce che «fra i libri degli antichi filosofi consultati a Cordova, in molti non vi erano che delle sciocchezze, che l’avevano fatto ridere.»

    Quando Pépin ritorna a Perpignano, il Maestro Béinguer non aveva ancora terminato la copia de Liber juratus. Era, in verità, un gran lungo lavoro, se lo si giudica dalla sola esposizione dei capitoli così come li ha dati Pépin.

   Il libro ne comprendeva non meno di novantatre, di cui sei nella prima parte, ventiquattro nella seconda, cinquantotto nella terza e quattro o cinque nella quarta. Il libro comincia con un’invocazione alla Santa Trinità: - I filosofi dovevano astenersi di fare ciò che era contrario alla volontà di Dio, di cui i Cento nomi sono iscritti nel libro; il primo è Allah, compreso la deità nella sua forza e sua potenza; la chiama così Foton, che significa «la divinità creatrice del Cielo e della Terra e di tutte le cose»; ciascuno dei cento nomi è in questa maniera annotato con il suo significato specifico.

   Nella prima parte il primo capitolo tratta «della visione di Dio»; il secondo «della assoluzione dei peccati»; il terzo «di ciò di cui bisogna credere perché l’uomo non cada in peccato mortale»; nel quarto, «della conoscenza divina». Pépin assicurava di non ricordare di ciò che contiene il quinto; ma enuncia il contenuto del sesto, ma ammettiamo di non comprendere quel che vuol dire.

    La seconda parte tratta dell’associazione dei Buoni Angeli [Bons Anges]; la terza dell’invocazione degli Spiriti dell’aria [in francese esprits de l’air] (spirituum aeris); la quarta de la Legatio degli Spiriti Infernali [Esprits Infernaux] e così della scoperta dei tesori nascosti sotto terra, e delle pietre preziose; la quinta parte è – affermava Pépin – una esposizione delle quattro precedenti. Non da alcun svelamento a questo soggetto, ma permette di pensare  che in questa parte si trovassero le pratiche magiche di cui Pépin aveva parlato al signore di Apcher, durante la loro prima conversazione a Langeac.

    Dopo essere venuto a Perpignano, tre o quattro volte, Pépin si vede forzato di completare da lui medesimo la copia di sua propia mano, manu propria. Col risultato di una seria insofferenza tra lui e il Maestro Béringuer Guanell. Quest’ultimo, aveva appreso che Pépin voleva separarsi da lui definitivamente e lasciare Perpignano, e ciò gli fa nascere una violenta colera. Geloso del suo discepolo e pentitosi di avergli insegnato tante belle cose, gli annunciò che avrebbe liberato tutti i malvagi spiriti in maniera tale se si fosse rifiutato la sua totale obbedienza, anche se, era evidente, rendeva nulla tutta la scienza da lui acquisita da Pépin. La minaccia arriva alle orecchie di Pépin, il quale si mette subito in atto per parare il brutto colpo. Armato del Liber juratus,  si reca bordo della Tet (ad quandam ripariam prope Perpinhanum), invoca i Malvagi Spiriti recitando i Cento Nomi, pregandoli di non ubbidire a chiunque, altro che lui, li evocassero per un malefizio. Il Maestro Béringuer Guanell non era più da temere e Pépin poteva lasciare Perpignano in tutta tranquillità; la benevolenza e la sottomissione degli Spiriti era da lui acquisita

[Nota 14: Interrogatus quibus vicibus ipse invocavit dictos malos spiritus, et ad quod et qualiter, dixit quod cum ipse vellet discedere a dicto magistro Berengario, idem magister Berengarius fuit iratus, et fuit ipsi loquenti dictum quod ille magister Berengarius volebat ligare omnes Spiritus Malos ne sibi loquenti aliquo tempore hobedirent. Et tunc ipse loquens, volens prevenire dictum magistrum Berengarium et providere ne sibi hobedientia dictorum Spirituum i tolleretur, ivit ad quandam ripariam prope Perpinhanum et prope quandam aquam, et ibi generaliter dixit Spiritibus seu supra Spiritus, nullo tamen specialiter invocato, et dixit Centum Nomina prediota scripta in dicto libro (le Liber juratus), virtute quorum precepit eis ut si aliquod maleficium factum seu faciendum per quemcumque erat contractum seu preceptum ne dicti Mali Spiritus dicto loquenti hobedirent, vel lignamen esset aliquod impositum, quod propter hoc non essent ipsi loquenti inhobedientes, et quod propter hoc sibi non nocerent solvendo liguamen, si factum erat, vel perseverando ne fieret.].  

 

IV

 

   Era ormai venuto il tempo di utilizzare il Liber juratus la cui acquisizione era stata così laboriosa. Pépin, al suo ritorno da Perpignano, era di nuovo a Langeac. Non tarda a stabilirsi sulle terre di Apcher, dove sarebbe stato sotto la protezione del signore del luogo, suo complice, fintanto che formava l’immagine che, a suo dire, doveva essere così funesta al vescovo di Mende.

   Inizia la sua opera alla veglia di San Giovanni Battista [Saint-Jean-Baptiste] dell’anno 1346, il 23 giugno. Utilizza due pani di cera bianca [deux livres de cire blanche] che aveva portato con sé da Langeac, e procede alla modellazione per mezzo di acqua calda, «di sua propria mano e senza alcun altro ingrediente», manu propria absque intermissione alterius rei. L’immagine era piena, densa, e intanto che la modellava, aveva davanti il Liber e pronunciava le parole consacrate, dum ipsam ymaginem faciebat coram se librum suum et dicebat verba ad hoc ordinata prout in libro suo scripta. Egli non volle mai – nel corso degli interrogatori – dare il titolo del Liber juratus di cui si era servito, visto – affermava – non ne aveva, qui liber non est intitulatus. Durante l’operazione egli teneva l’immagine riversata, capovolta. Non legò nessun spirito all’immagine, nullum ad hoc ligavit spiritum specialiter, e non la battezza; «era – diceva – una falsa credenza popolare che le immagini dovevano essere battezzate, perché esse esistevano ben prima dell’istituzione del battesimo»!

Sembra che Pépin abbia voluto, dalle sue confessioni mitigare il suo caso; allo stesso modo allorché assicura che l’immagine era modellata in forma d’uomo, essa non era certo nella rappresentazione del vescovo, non ad formam ymaginis episcopi. Ammise comunque che aveva messo il nome del vescovo sulla fronte dell’immagine e particolari nomi di angeli sul petto; erano quelli degli angeli che dominavano in quel giorno e al momento medesimo in cui operava. Questo giorno era un venerdì, e l’angelo del giorno era Anoëlh, che metteva in movimento il pianeta Venere! Scrisse i nomi degli angeli in latino, non in ebraico, né in greco.

   Una volta fatta l’immagine, Pépin la racchiude, avvolgendola in quattro piccole tavole per proteggerla da eventuali incidenti; la lascia tre o quattro giorni in un armadio della sua camera, poi andò a collocarla in un buco nel muro del Castello di Arzenc di proprietà del signore di Apcher, Pépin, dopo di ciò, si ritira a Vabres, villaggio situato non lontano da Apcher, nella stessa casa del suo complice. Si era portato dietro anche la copia del Liber juratus racchiusa in una scatola di cui solo lui aveva la chiave.

    Un bel giorno, all’improvviso, venne arrestato a seguito di un ordine del vescovo di Mende, che era venuto a conoscenza delle sue colpevoli manovre.  Sembra che il tutto non avvenne senza violenza, – per vim et violenciam – ; venne istruito presto il suo processo. L’accusa era «di essersi messo in relazione con i Malvagi Spiriti [les Mauvais Esprits] e di aver fabbricato un’immagine in cera rappresentante il vescovo di Mende; di aver fatto diversi sortilegi su questa immagine, sul fronte della quale era inciso il nome del vescovo e di Sette Demoni o Malvagi Angeli [Sept Démons ou Mauvais Anges

    Condotto, sotto queste accuse, davanti alla corte ecclesiastica di Mende, Pépin subì numerosi interrogatori nel Castello di Balzièges, dipendente dai vescovi, e poi, nella città episcopale. La Corte decise che, «al fine di avere la verità», che Pépin sarebbe stato sottoposto alla tortura «ma senza pericolo di morte, senza frattura delle ossa e delle vene, e senza spargimento di sangue.» Pépin non voleva difendersi. La sentenza fu pronunciata a Mende il 22 dicembre 1347. Fu relativamente moderata per un crimine che concedeva generalmente al rogo. Il nostro uomo se la cavò con un una esposizione di due ore, a Mende, su un’alta scala. Era stato rivestito con un indumento sul quale erano inscritti i suoi malefizi.

«Pépin visse per quindici anni, nella torre de Chanac o in qualche altra prigione del signor vescovo di Mende, del pane del dolore e dell’acqua della tristezza», per quindici annos pane dolori set aqua tristitie substentandum in turri de Chanaco vel aliquo alio loco carcere dicti domini episcopi Mimatensis.  

 

V

 

   Da tutto quanto sopra risulta ben chiaramente che le scienze occulte erano praticate a Perpignano durante il XIV secolo; due documenti ci dicono che era lo stesso nel XV secolo. Nei primi anni di questo secolo vediamo un drappiere di Perpignano, Georges Rabasser, accusato di aver praticato «l’arte dei pitoni e maghi» [Nota 15: Archives départementales, B 236.]; 17 aprile 1440, il Maestro Tommaso N., inquisitore, fece bruciare al centro della chiesa del convento di Saint-Dominique, e davanti a tutto il popolo riunito, un manoscritto di negromanzia «in cui, tra le altre cose, erano iscritti dei nomi e dei segni riprovevoli [per la Chiesa], in quo inter alia erant depicta multa nomina et charactera reprobata.» Questo libro iniziava così: «Assi comença lo libre appellat lo Sant Rexel...» [Nota 16: Archives départementales, G 159] e finiva: «Nunc est consecratus.» Se non era il famoso Liber juratus del Maestro Béringuer Guanell doveva essere qualcosa di simile.

Pierre VIDAL.

 

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Marco Pugacioff

[Disegnatore di fumetti dilettante

e Ricercatore storico dilettante, ma non blogger

 

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