Gli Etruschi venivano dalle Ande
Dagli studi della professoressa Natalia Rosi
Un ringraziamento agli
amici
Sandro Mobbili e Giovanni
Liverotti
della Biblioteca Statale
di Macerata
per il loro grande
aiuto
e ad
Giuseppe Zocco della
Biblioteca, Centro Documentazione
e Archivio Storico IILA
di Roma.
Nel
suo video del 1983, “La puerta del misterio: Machu Pichu” il dottor Jimenez Del
Oso, si immerge nel caos di un mercato della capitale peruviana prima di partire
per l’antica cittadella e diceva «L’aria è piena di rumori e tanti odori.
Alcuni di questi li ritroveremo sullo stesso treno: el choclo (il mais), los
chicharrones (le cotiche di maiale), los
tamales (un impasto a base di mais ripieno di carne, verdure, frutta o
altro). Nei mercati come questo i conquistador ebbero
le loro prime sorprese. Videro stupefatti che quella gente del mercato
utilizzavano una bilancia per il peso
esattamente uguale a quelle che si utilizzava in Spagna; uguale a quella che si
utilizzava a Roma. Un sistema di peso che per supposto era molto più antico in
Perù che fra gli stessi Incas.
E suppongo anche che
contemplarono con un certo stupore come i peruviani non compravano le loro uova
a dozzine come nella vecchia Europa. In Europa prevale ancora il sistema
duodecimale dei Sumeri in alcune cose, mescolato al sistema decimale. Lì invece
in Perù il sistema decimale era il re assoluto, il re esclusivo su tutte le
transazioni commerciali e persino nella propria vita degli indigeni. Un sistema
decimale che era il uguale a quello usato in Egitto e lo stesso che era stato
usato a Creta, 2000 anni prima di Cristo. Una forma di conteggio e misurazione
che si perde nelle più profonde oscurità dei tempi preistorici, ai quali non siamo
mai arrivati.
E proprio come a Roma
l’esercito dei peruviani era anche soggetto alla schiavitù del sistema decimale
come le legioni dell’antico impero romano. Qui i gruppi di soldati erano
distribuiti da 10 a 100 o 1000 uomini. La distribuzione della popolazione è
stata fatta anche in base all’età conteggiata ogni 10 anni ma non era un’invenzione
Inca. Il sistema decimale era molto più il vecchio e regnava già nel grande
regno Chim ed era presente alle transazioni della favolosa capitale Chanchan e
ancora era più vecchio, sebbene la sua origine ci sia nota. Ma l’insolito, ciò
che dovrebbe aver catturato l’attenzione dei Conquistadores era la conoscenza nell’impero Inca del numero zero:
il numero zero implica una conoscenza astratta abbastanza complessa. Per quel
che sappiamo, questo concetto è nato in
India. Da lì passò in Egitto e in Arabia, poi gli arabi lo introdussero in
Spagna e dalla Spagna passò al resto dell’Europa ma già nel XV secolo,
tuttavia, quando i conquistadores
arrivarono in Perù, i peruviani avevano già la conoscenza e il concetto di zero
da molto tempo.
[…]
La cultura egizia era
una cultura di adobe (di mattoni)
come in Perù.
[…]
Il Perù non era una
nuovo paese per coloro che erano appena arrivati, ma l’Impero Inca era l’ultimo
anello di una lunga catena di popoli, imperi e culture che sono persi nella
protostoria.
I conquistadores erano arrivati troppo tardi. Non c’era nessuno a cui
rivolgersi, non c’era nessuno a cui chiedere ad esempio l’origine dei quipos o kìpos.
In Perù non avevano sviluppato un sistema di scrittura o almeno questo è quello
che si pensò; si usava mettere corde di cotone appese con altre corde di colori
in cui vengono realizzati i nodi. Con questo sistema originale era in grado di
perfezionare la contabilità di tutte le transazioni, tra cui la Amministrazione
economica dello Stato.

Ma era l’origine dei
kìpus? Non c’è risposta, ma senza dubbio fu un un’origine molto antica; e si volle
molto tempo perché si arrivasse a quella perfezione che - secondo alcuni
cronisti - si raggiunse con i kìpos. Secondo costoro i kìpu non servivano solo
a tracciare la contabilità, non serviva solo a scriver numeri, ma anche fatti,
eventi. La giusta combinazione di nodi e colori delle corde funzionava come una
specie di ideogramma e saper leggerli si potrebbe trovare la storia di una
battaglia o di una transazione commerciale o di un accordo. Chissà che i
peruviani non hanno sviluppato un sistema di scrittura come la concepiamo,
perché i kìpus li usavano perfettamente come una scrittura. Quante domande
senza risposta in quel Perù che hanno trovato i conquistadores.
Cosa pensarono i conquistadores vedendo che quella gente
erano solite celebrare le loro vittorie, gli stessi strumenti come nella vecchia
Europa. Tamburi, trombe, flauti e cascavellas
[altro vocabolo indicante strumenti musicali]. Da dove proveniva questo flauto
pastorale, la cui figura è ripetuta mille volte nella ceramica e mantenute in
vigore fino ad oggi. Un flauto che in tutti i suoi dettagli era esattamente
uguale alla antica siringa dei Greci.
Quando gli Europei che
arrivarono qui nel X secolo, trovarono mercati come questo e non si posero
domande come quelle che ci poniamo noi adesso noi, ma sarebbe stato lo stesso.
Probabilmente neanche gli Inca non sapevano la
risposta.»
ωωω
Quante
domande affollavano la mente del grande ricercatore spagnolo Del Oso… Anche se
nessuno ci crede, una professoressa fiorentina aveva dato una bella risposta ad
alcune di queste domande.
Si
trattava della professoressa Natalia Rosi de Tariffi, nativa di Barberino di
Mugello, non lontano da Volterra, dove era nata nel 1907 e affascinata dal
mondo etrusco, frequenta le università di Firenze, Roma e Urbino con studi in
filosofia e lettere, per finire domiciliata a Valera in Venezula, dal ’48 dove ottenne
una cattedra in una istituzione di questa località. E tutto per la sua
vocazione per l’investigazione linguistica concentrata sull’analisi delle
lingue indigene delle Ande come il quechua e l’aimara.
Il suo bel libro America quarta dimensione, gli etruschi vennero dalle Ande, fu
stampato a Caracas nel ’69. Non si conosce la data della scomparsa della
studiosa, ma scommetto che le sue investigazioni sono state considerate scientificamente infondate dalla
comunità universitaria. Infatti lasciò inediti altri studi dai titoli dannatamente
interessanti come el
desafortunaso nombre de las Islas Afortundas (Lo sfortunato nome
delle Isole Fortunate), América y
Venezuela, nombre autóctonos (America e Venezuela, nomi autoctoni) più un Tratado de Etruscolgia e oggi
sicuramente perduti.
NATALIA ROSI DE
TARIFFI
AMERICA,
CUARTA DIMENSION
Los Etruscos salieron de los
Andes
ωωω
AMERICA,
QUARTA DIMENSIONE
Gli Etruschi venivano dalle Ande
1969, Monte Avila
Editores c. A. Caracas I Venezuela
Portada John Lange
Quod videbitis, vidi.
L. Bertonio
En portada del
Vocabolario
De la lengua aymara,
Lima, 1610
Come
sottolinea la professoressa per gli etruscologi, come per i moderni Pallottino
o Raymond Bloch, la etruscologia ha accumulato molti fallimenti
nel corso dei secoli che ha riassunto in vari punti di cui ne estraggo nei
punti sottostanti:
-
L’origine della lingua
etrusca è assolutamente
sconosciuta.
-
L’etrusco può comunque
essere letto, poiché questo popolo, con o senza ispirazione fenicia, fu l’inventore
dell’alfabeto che ci è stato tramandato in tutto il mondo Romano. Tuttavia,
non è possibile decifrare il significato delle sue parole.
-
Non è stato possibile
giungere alla ricostruzione del paradigma della declinazione del nome.
-
Non è stato possibile
stabilire la distinzione tra pronomi e preposizioni.
Ed
infine
-
Il significato dei
nomi Etruria, Toscana, Tuscia, è
assolutamente e completamente sconosciuto. Il
valore semantico di questi nomi è ancora limitato ai contributi millenari delle
“glosse” e alle interpretazioni degli scrittori antichi.
Insomma l’origine degli Etruschi resta un
mistero e il suo linguaggio
ermetico, astruso ed enigmatico resta indecifrato, frainteso, non tradotto.
E prosegue con…
L’evidenzia che l’etruscologia ha condotto le sue indagini con metodi sbagliati
o inadeguati, risiede nel fatto di avere ha sottolineato il problema dell’ignoto
della lingua etrusca come “fenomeno isolato e astratto, naturalizzato
all’ambiente e alla Civiltà italica, senza considerare gli Etruschi come un
popolo europeo e mediterraneo che conviveva con altri nello stesso ambiente
geografico. Gli Etruschi,
invece, furono costretti a per rafforzare le relazioni con altri gruppi etnici
contemporanei per stabilire con loro quegli scambi economici, politici e
sociali di cui la storia, pur con tante lacune e interrogativi, attesta la
validità. Altrimenti ne
conseguirebbe che questo popolo dominante, arrogante e prepotente avrebbe
dovuto vivere e svilupparsi nel mondo eurasiatico, condannato ad un isolamento
linguistico in nessun modo coerente con le loro azioni storiche, dovuto al
fatto che la loro lingua non è compresa da nessuno dei tanti popoli che, in un
ambiente piccolo come il Mediterraneo o la penisola italiana, furono loro
contemporanei.
Scrive ancora…
Gli Etruschi provenivano dalle Ande. Arrivarono
alle rive vergini dell’Arno dal continente americano [e qui dà una nota
interessante di cui parlerò alla fine] dove erano rimasti per millenni formando
parte di una civiltà megalitica i cui resti archeologici portano i nomi di
Tiahuanaco, Sacsahuaman, Machu Pichu, Ancón [? Ancon...a ???], Pisaj [?Pisa…y ??? Ma che cavolo di allucinanti
coincidenze!], ecc., sono troppo noti
per meritare paragrafi applicativi. L’età
di questi resti non è stata ancora determinata con esattezza e vi sono opinioni
divergenti sulla loro cronologia.
Il mistero degli abitanti dell’antica
Toscana è il più risaputo; e
questo non solo per il clamore suscitato dalla loro presenza nella preistoria e
nella storia della Penisola, ma anche per i legami che l’Etruria ebbe con Roma.
Il
contenuto fondamentale della nuova teoria sulle origini degli Etruschi e la
decifrazione della loro lingua, possono essere riassunti nel seguente seguenti affermazioni…
di cui ne estraggo solo alcune:
-
La lingua etrusca non
è mai scomparsa né è andata perduta. Si
è evoluto normalmente nel latino, nell’italiano e nelle cosiddette lingue
romanze.
-
Come conseguenza delle
affermazioni precedenti, l’affermazione secondo cui le lingue indoeuropee derivino
dal sanscrito è falsa; Così come è falsa
l’affermazione secondo cui le lingue romanze definite derivino dal latino.
-
Il linguaggio è frutto
delle necessità, e tra queste, di quella che sotto forma di imperativo categorico,
esso preesisteva all’organizzazione del lavoro umano pianificato e collettivo. Al
di sopra delle discrepanze che esistono nella valutazione delle età
cronologiche dei resti megalitico, si suppone che, qualunque sia questa età, un
periodo per millenni è stato essenziale per l’articolazione dei suoni gli umani
si congeleranno nell’efficienza concreta delle parole correlate, che
esprimeranno desideri, ordini, mandati e che innalzeranno costruzioni
ciclopiche sulla faccia della terra.
-
Le parole sono cose e
fatti indissolubilmente legati alla continuazione della specie, per questo la
classificazione tra La distinzione tra lingue “morte” e lingue “vive” è
arbitraria e artificiale. Non
possono esistere lingue morte di fronte al fenomeno reale della continuazione
della specie. Il patrimonio lessicale
delle cosiddette civilizzazioni estinte o morte è passato, attraverso
gli uomini e delle loro attività, alle forme di vita e di condotta che ne
seguirono,le assimilarono e furono una conseguenza della loro apparente
scomparsa.
-
Il linguaggio è uno strumento necessario per
tutti gli uomini senza distinzioni etniche o cronologiche.
Il linguaggio è lo strumento che nel piano
del pensiero ha reso possibile la strutturazione della logica stessa,
stabilendo la trinomio indissolubile: "cosa-idea-suono", o il suo
equivalente: "fatto-immagine-espressione". In
questo trinomio l’interrelazione dei termini è motivata e imposta da esigenze. Ecco
perché il linguaggio è un fenomeno assolutamente logico, il cui meccanismo è
evidente nel riconoscimento e nell’identificazione della parola e nel suo
rapporto con la radice che l’ha originata.
[…]
Prendiamo la parola spagnola
"máquina". "macchina" in italiano. Si sostiene che questa
parola derivi dal latino machina, —ae, e che costituisca ciò che in
linguistica viene chiamato un “prestito” dal greco dorico dell’Italia, con un
doppio significato di "maquinar" (intrigare) e "costruire”, fare
un lavoro con una macchina".
Basandosi sull’etimo
latino e tornando al prestito dorico, con l’eccezione che i prestiti devono essere
motivati anche nelle loro lingue originali, la radice "mach, maq,
macch" (latino, spagnolo, italiano) di macchina, macchinare, non ci dice
assolutamente nulla. La definizione attraverso il greco dorico che "prese
in prestito" la parola con entrambi i significati, non applica ciò che è
nella parola "macchina" la correlazione tra la cosa, il fatto o
l’azione che l’ha originata con la sua radice "maq", perché non ne dà
la motivazione, cioè il significato della sua radice. Le
parole sono cose e fatti che vengono espressi tramite suoni, e i
suoni non sono altro che mezzi. espressioni
strumentali, ma risultano essere flatus
vocis quando non ne conosciamo il significato funzionale.
In Kechwa la parola maqui o maki significa
“mano”. Maquina o makiy sono due forme verbali dell’infinito
e significano "fare qualcosa con la mano". Risalendo
alle origini dell’evoluzione umana, avremo la costante maq kechwa, la radice della parola, in perfetta concordanza
sintagmatica con i cambiamenti morfologici e semantici. Inoltre,
avremo un’etimologia perfettamente logica della parola, poiché la mano,
strumento di manipolazione e di lavoro, è stata la prima macchina che l’uomo ha
messo in moto. Accettare che la parola sia sempre originariamente motivata da
esigenze, e la zona di oscurità provocata artificialmente è stata superata e a
posteriori, mediante l’ipotesi della lingua perduta, troveremo immediatamente la
correlazione tra la “cosa”, l’“immagine della cosa”, l’“immagine della forma
fonetica” (significato-significante, cioè parola, secondo Saussure), e il
“nome” o forma fonetica.
[…]
Ciò che si vuole
dimostrare è che il Kechwa e l'Aymara sono le lingue generatrici delle lingue
etrusche, latine e post-latine. La
dimostrazione verrà effettuata mediante comparazione linguistica. Sarà
qualitativo e non quantitativo; Per
questo motivo la verifica del primo postulato verrà effettuata scegliendo tre
parole che consideriamo suggestive.»
Delle tre parole ne
scelgo solo una:
il Picchio.
«Picchio è una parola proveniente dall’italiano,
giunta alla stessa lingua attraverso il latino; picchio
è il nome di una specie zoologica di volatile.
Il termine italiano
picchio, che indica un esemplare di uccello, è una parola molto misteriosa e
molto importante non solo nella linguistica, ma anche nella storia e nella
mitologia preromana e romana. Picus era il nome della più
famosa delle divinità prelatine, identificata con l’uccello picus. Il
dio fatale Picus era il dio dagli
attributi più strani: era venerato come supremo protettore e padre dell’agricoltura
e della fertilità. Era figlio di
Stercutus, il letamaio, inventore del fertilizzante organico, che portò
fertilità alla terra. Era anche il dio del lavoro, della mano e delle sue
funzioni. Era il dio della mano che affila l’arma per difendere e offendere,
della mano che preme la mola per soddisfare il primo bisogno dell’uomo: il
cibo; la mano che aiuta la partoriente e il neonato; la mano che bussa alla
porta per chiedere ospitalità.
L’iconografia
di Picus ha costituito e costituisce uno degli enigmi inspiegabili del mondo
prelatino e latino. Era rappresentato e
adorato come uomo e come uccello. Gli
attributi della sua divinità ed i suoi simboli erano: una piccola ascia, la mano de batán [batán che il traduttore in
rete mi dà la gualchiera; secondo la treccani in linea: Nell’industria tessile e conciaria,
sinon. di follone,
soprattutto con riferimento ai folloni più antichi, in cui le mazze erano messe
in movimento dalla ruota d’un mulino ad acqua] la mano del lavoratore
per macinare il grano e la scopa. In
quanto dio delle nascite, agiva nel seguente modo: quando avveniva la nascita,
si divideva in tre geni o divinità, che eseguivano il seguente rituale:
bussavano alla porta della casa della partoriente con la piccola ascia; poi
toccarono con la mano di pietra [después
tocaban con la mano de piedra]; e
infine spazzarono la soglia della porta con la scopa. Questo rituale era un
mistero per gli stessi Romani e ha continuato a esserlo per gli esegeti del
loro mondo mitologico, religioso e mistico, nonché per gli studiosi della
lingua latina. Non è stato possibile trovare la relazione idea-parola,
concetto-azione. L’ascia, la mano, la scopa, non hanno potuto essere collegate
né al nome del dio Picus, né alla sua personificazione come volatile, né ai
gesti taumaturgici destinati a sollevare la madre e facilitare la nascita del
bambino.
Il nome Picus,
prelatino, privo di etimo né in latino né nelle antiche lingue italiche, tra
cui l’etrusco, può essere chiaramente spiegato attraverso il Kechwa. In Kechwa la parola pichiu significa pájaro [volatile]. Il culto dell’uccello è insito in tutta la mitologia
andina, come lo era in quella mediterranea. Nel mondo andino il condor era considerato un uccello simbolo
della divinità. Roma attribuisce
un ruolo simile alle sacre aquile, emblema dell’esercito e del potere.
Questa etimologia, già di per sé
interessante, non avrebbe l’importanza che ha se la parola pichiu, insieme ad altre parole della stessa lingua inca, dalla
fonetica simile ma dal significato diverso, non intervenissero a spiegare in
modo chiaro il rituale del dio Picus e le sue attribuzioni. I
simboli di questa divinità erano, come abbiamo detto, el pájaro [il volatile], la mano, el hecha [l’ascia], la escoba
[la scopa]; l’uccello ha la sua spiegazione nella parola Pichiu, che significa volatile; La
mano viene spiegata con la parola picbqa,
che significa cinco [cinque], le
cinque dita della mano.
Questo significato
delle dita per mano è confermato dall’espressione spagnola choque esos cinco per dire dammi
la mano e nell’analoga
espressione toscana dammi il cinguale
che significa anch’essa dammi la mano.»
Rimangono la escoba cioè scopa e il suo misterioso
rituale. La parola kechwa Pichay significa spazzare, passare la
scopa. La escoba,
la scopa si chiama pichana.
L’ultimo simbolo del
rituale del dio Picus, el hacha cioè l’ascia, nel suo significato di agevolazione del parto
aprendo la strada al nascituro, può avere una duplice spiegazione. La parola spagnola hacha ha due forme in latino: ascia,
-ae e securis. -es. attenendosi alla forma ascia,
in Kechwa abbiamo ach, una parola dal
significato molto ampio e una formula di augurio che significa: così sarà, così
deve essere, oppure: questo evento si svolgerà felicemente e senza dubbio e
sotto i migliori auspici. Etimologia
del tutto soddisfacente quando si tratta di un rito di propiziazione prima
della nascita del bambino.
Questo termine attesta anche la forza della
tradizione e pensiero logico basato sul linguaggio, poiché avendo sacerdoti del
dio Picus pronunciano questa parola in tempi immemorabili, accade con essa lo
stesso che con le parole del Carmen dei Frati Arvales e del Carmen dei Salii,
che seguirono pronunciandolo nonostante la completa ignoranza del suo
significato.
Infatti prosegue la professoressa in nota, le parole rituali dei due Carmina, già nei tempi arcaici della
regalità, rappresentavano, per il loro contenuto e significato, un enigma
indecifrabile. Lo stesso
vale per le tavolette denigratorie rinvenute molti secoli dopo tra le rovine
della città di Pompei.
La parola ach fu solo un termine privo di significato fin dalla più remota
antichità del mondo preromano; Tuttavia,
l’attaccamento alla tradizione religiosa e il senso pratico della vita, qualità
essenziali della psicologia dei Romani, ponevano nelle mani del Sacerdote officiante
una "cosa" il cui nome aveva analogia con l’incomprensibile parola del
rito: ach, dal remoto linguaggio
generatore, il cui significato si era perso nel corso dei millenni, materializzandosi
poi nell’oggetto liturgico ascia.
Nonostante tutto il mondo romano chiamava lo
strumento affilato e sacro con un altro termine: securis; Non si può quindi
escludere un etimo attraverso questo secondo canale, in cui la radice ach non avrebbe alcun ruolo. Sia ascia
che securis sono di certa e
indiscutibile discendenza etrusca, per essere entrambi parte del simbolismo e
del rituale politico-religioso che i Romani ereditarono dagli Etruschi. La securis sulle fascie era il simbolo
della autorità dei Littori.
La
parola securis, al medesimo modo che
la parola ascia, può esser spiegata
per mezzo di una radice kechwa, anche se la grande
ricchezza delle parole matrici in questa lingua ci anteponga l'ambiguità della
scelta, poiché si presentano due radici di due parole diverse, entrambe capaci
di svolgere il loro ruolo di generatrici: seqay
o ceqay, e sequey. Il primo significa guardar fuori, uscire, salire (Andare
o muoversi verso l'alto.); il
secondo, separare, delimitare, dividere i termini o i limiti di una o più cose. Seguema
è lo strumento utilizzato per separare.
Questa seconda radice,
ceq e seg, dai vocaboli ceqay e
sequey, offre anche un etimo
soddisfacente rispetto alla loro semantica; Tuttavia,
i riferimenti storici, l'archeologia e l’iconografia ci inducono a preferire il
termine latino ascia, piuttosto che securis. Ascia è uno strumento più piccolo che Securis. Picus, secondo la
mitologia, era armato de un hacha
pequeñita, una piccola ascia; ora,
la securis, sia quello degli uomini
con l’ascia sia quello del simbolo littorio, era grande e pesante.
Questa scelta della
parola ascia al posto di securis sarebbe confermata dal
significato propiziatorio della parola Kechwa ach, la cui traduzione è così
sarà, così deve essere, il che
conferisce senza dubbio più valore al criterio elettivo, quando si ha a che
fare con un rito religioso.
Le parole Kechwa: pichiu, pájaro ovvero in italiano volatile; pichqa, cinque e, nel suo
trasferimento ideologico, mano; pichay, spazzare, spiegano,
oltre all’etimo del nome Picus, le misteriose attribuzioni del dio, i suoi
simboli e la sua iconografia.
Ancora…
La parola è sempre
motivata, ragione questa per la quale l’esistenza, in tutte le lingue, di
parole senza motivazione apparente, rivela la presenza primordiale di un
linguaggio generativo universale.
La lessicogenetica,
oltre a lavorare sulle radici, non considera mai la parola in modo isolato,
poiché indaga famiglie di parole raggruppate secondo i “geni” linguistici. La
strutturazione della lessicogenetica è stata una conseguenza del riconoscimento o della scoperta della lingua
universale generativa, il cosiddetto anello mancante nella genealogia del
parlare [del habla della parola], e della sua identificazione con le lingue della
preistoria americana: il kechwa e l’aymara.
Come dimostrazione veloce il metodo seguito
dalla lessicogenetica, daremo un esempio. Le
parole mater, materia, madeja, materassa (colchón in italiano) sono
generati dalla radice "mat",
di cui l’etimologia disconosce la motivazione.
Il riconoscimento di questa radice nel verbo kechwa matuy, che significa apretar
stringere, unir unire, compactar compattare, apisonar tamponare, pisar calpestare, abrazar
abbracciare, dar el amplexo dare
l’amplesso, ci fornisce la motivazione remota delle parole indagate.
Su questa base non è stato difficile
decifrare il termine etrusco matuta e
identificare nella misteriosa mater
matuta della mitologia preromana la madre abbracciata, la madre stretta
nell’amplesso.
la decifrazione e la traduzione della lingua
etrusca sono importanti, nonché la determinazione del luogo di provenienza di
questo popolo, la cui organizzazione politica, religiosa e sociale fu alla base
della civiltà romana. L’identificazione
della lingua madre generatrice di tutte le lingue con un gruppo linguistico
della preistoria americana può anche essere considerata un fatto di
trascendenza; tuttavia, il lavoro
più decisivo e costruttivo della lessicogenetica è la verifica teorica della
monogenesi del linguaggio e il riconoscimento del potere attuante della parola
nei suoi aspetti retrospettivi.
Assolutamente
fantastico e straordinario!!!
La professoressa dopo le dimostrazioni sulle
tre parole di cui ho scelto solo il picchio per ovvie ragioni (sono nativo
marchigiano) conclude: La lingua etrusca non scomparve né si
perse, ma si evolse nel latino, nelle cosiddette lingue romanze e in altre
lingue del mondo di influenza etrusco-romana. Esiste
una relazione stretta e diretta tra le lingue della preistoria americana e quelle
della preistoria mediterranea.
E il suo studio cercava
di dimostrare proprio questo.
Ha parlato anche di
connessione linguistiche sugli ebrei, i quali sono come i templari, c’entrano
sempre, mettendoci perfino uno studio sugli Zingari, con notiziole comunque
interessanti.
Ed ora viene il bello,
ma veramente!
La parola lupo, presente in latino nella forma lupus, non è, secondo i canoni della
linguistica ufficiale, di origine indoeuropea; ne tantomeno si trova traccia
nel sanscrito; per questa ragione è considerata appartenente al lessico
preromano.
Spiega ancora in nota
che Questo lessico è stato classificato e denominato in base ai diversi popoli
che abitarono l’Italia preistorica.
Andiamo avanti…
In Italia, come in tutto il mondo
eurasiatico, si ebbe un diffuso culto solare, con ampia rappresentazione
zoomorfa, come testimonia la mitologia egizia e greca. Tra
gli animali consacrati al dio Sol ovvero il Sole, vi era el lobo, il lupo, in italiano. Questo
simbolo passò al mondo romano con lo stesso culto; La loba o lupa ne fu la massima epressione
iconografica.
Nota della
professoressa: La lupa fu il primo simbolo della città di Roma. i
due gemelli nutrendosi del suo latte, sono un'aggiunta degli scultori del
Rinascimento. La scultura originale dei tempi arcaici della storia romana, opera
di artisti etruschi, non presenta i gemelli dell’omonima leggenda.
La lupetta romana e
quella carolingia
Nota mia: in realtà,
secondo gli studi della professoressa Maria Carruba nel 2006 la mia lupetta preferita sarebbe di epoca
carolingia, perlomeno, per chi vuol crederci. E ammò torniamo al libro.
Los
lobos, i lupi, in
italiano, erano animali consacrati anche al culto del dio Apollo, divinità
della luce.
Nei sacrifici e nei
riti, i carboni e le braci ardenti erano
considerate i suoi attributi. Particolarità che poi la professoressa Natalia
spiega poi con la parola Soracte
(come il monte)…
Secondo questa
simbologia, lupo e lupi sarebbero vocaboli che indicavano
le emanazioni fisiche e naturali delle divinità solari, cioè: i raggi, il
calore e la luce.
En kechwa, lupi significa: rayo (raggio),
calor (calore) e luz (luce).
La pelle di lupo era l’insegna dei
sacerdoti del culto di Apollo ed è stata una delle principali esternalizzazioni
e manifestazioni del culto solare, legato alle rappresentazioni iconografiche
di maschere con zanne pronunciate.
Le divinità solari del mondo prelatino ed
etrusco si rappresentavano in forma zoomorfa come felini, e in forma
antropomorfa come esseri umani vestiti con una pelle di lupo, simbolo della
loro identificazione con questo animale sacro.
Collatia
(Collazia) è il toponimo di una importante città pre-romana, situata nel
territorio sabino. I suoi abitanti, i Collatini, son considerati da Tito
Livio" come appartenenti alla antichissima stirpe sabina, definita, come
pur vivendo nel Lazio era di origine straniera e sconosciuta per i suoi costumi
e per lingua.
E in nota: Il toponimo
Sabina, nome del habitat dei Sabini, può spiegarsi con la parola kechwa sapi che significa raíz in italiano radice; sapiy,
metter radici, essere radice; sapina,
altra forma infinitiva dal medesimo significato. I sabini sarebbero, secondo
questo etimo, gli antichi abitanti, coloro che furono radice e fondamento di
una stirpe che in tempi molto remoti mise radice in quella parte della penisola
che i seguito ebbe, in conseguenza de questo fatto, il nome Sabina. La medesima parola kechwa sapi spiega il nome Sabelli; la sua traduzione
letterale nella espressione sapi ayllu significa la radice della gente,
la gente primitiva, la radice del ceppo genealogico.
[…]
Il toponimo Collatia, proprio come la denominazione de las “siete colinas” in
italiano le sette colline, vengono dall’aymara collo, monte, collina.
Nota: da molte
testimonianze storiche e geografiche sappiamo che non erano precisamente sette.
Forse questo numero fu la corruzione tarda della antica parola kechwa ceqte, che significa divisione, demarcazione.
Esistono molti altri toponimi, fuori del
habitat del Lazio, con la medesima radice e lo stesso significato.
E in nota: Collatio (Norica), antica città della
Spagna; Collo, dipartimento Constantina
in Algeria; la antica Collops-Magnum
e Municipium Culli dei Romani, Collobiano, Italia; Collobriere,
Francia; Collonges, Francia, Collessie, Scozia. I toponimi italiani
della stessa radice e significato sono omessi, perché sarebbe una lista molto
estesa, come del resto quelli della zona andina, dei quali citeremo come
esempio: Collacachi, collina della
sal, Perú; Collona, Perú; Collouse, Perú; Collo, varie località in Bolivia e Cile.
L’etimo della parola collis si presentò come un enigma per i latini.
[…]
Varrone deduce questo
etimo da col-ere, coltivare, parola
che a sua volta da un supposto cultivus,
formato sopra al latino cultus,
participio passato del verbo colere,
che significa sempre secondo Varrone impugnare, spingere l’aratro. In Aymara, per spingere l’aratro,
arare profondamente, si esprime con il
verbo collitha; verbo
che ci dà l’etimo di un’altra parola latina molto discussa: culter, filo dell’aratro di ferro, per
il quale Georges propone come deriva dalla parola coliter, da colere,
coltivare.
Colla
sono chiamati e sono stati chiamati fin dalla più remota antichità gli abitanti
degli altipiani andini, attualmente Alto Perù,
Bolivia. I Colla erano divisi in
molti gruppi, famiglie o tribù; tra le principali:
- Sillustani, Gruppo appartenente agli Hatun Colla o Colla Mayores, la cui sede erano le rive del lago Titicaca. La
parola Hatun (“h” aspirata) potrebbe designare il demonimo (in spagnolo gentilicia. Detto di un aggettivo o di
un sostantivo: Che denota una relazione con una posizione geografica) dei
Catoni.
- Juli, Originari della comarca (zona, regione) di Chucuito (Cúneo-Vidal,la
professoressa dice opera citata alle pagg. 150-155, ma non sono riuscito a
trovare la prima menzione). Stirpe dei Paucar
Colla o Colla Minori.
- Pacani, Ubicati anticamente sulle rive del
lago Titicaca, in posizione estremamente deserte e isolate. Si denominavano Pacani o Pacajes, a causa
della loro natura huraña (cupa) e per vivere molto in modo parsimonioso e
separati dagli altri, serbando gelosamente le proprie tradizioni, in
particolare quelle religiose. Paca e Pacani significa in Kechwa coloro che intendono
viver ritirati o nascondersi. Il significato del pagus,
paganus del latino, potrebbe avere la
sua origine dal pacani kechwa.
- Capi, “Da Ati nacque Capi, da capi, Capeto, da Capeto, Tiberino…” Tito
Livio, Op. cit., p. 28 (Genealogia dei re
di Roma da Romolo in poi). Questi nomi, come spiega lo stesso Livio, non sono
di origine latina.
- Lupaca o Lupac Haqque, Il significato letterale di Lupac Haqqae è: figlio di Lupi, cioè figlio del calore, di luce. Sol il Sole. Anche i Romani
si consideravano figli del Sole, e il simbolo di questo culto erano i lupi. La
leggendaria nutrice dei due reali Gemelli Romolo e Remo,
fu una lupa. Ma
il vero nome della donna, moglie del pastore Faustolo, che allattò i due
bambini, era Acca. “Romolo
stancava la sua nutrice Acca che lo portava.” Stazio, Silv., II, 39; Tito
Livio, Hist., l, 3).
Acca, secondo Livio,
era soprannominata Lupa per la sua
condotta. In latino, lupa, significa prostituta, e la donna
era conosciuta con il nome di Lupa Acca, nome che le fu dato, e secondo la
leggenda, Romolo e Remo venero chiamati figli di Lupa Acca, o figli della Lupa. ‘espressione
latina Lupa Acca è nella traduzione letterale della espressione Kechwa-Aymara Lupac Haqque, figlio del Sole.
- Lucani o Lucana.
Vedremo più sotto...
La professoressa
Natalia passa poi a…
Soratte, “Soracte, Soratta, è il
nome preromano di un monte situato a 37 chilometri a nord-ovest di Roma. Famoso
luogo sacro di importanza trascendentale
nella mitologia prelatina. Il Soratte era il monte sacro consacrato al dio Apollo
o Febo, el Sol (il Sole). Silio
Italico, Punica, VIII.
Il dio Sorano-Apollo
o Aplu-Sorano veniva adorato sulla
sommità del monte Soratte, dove già
in epoca arcaica delle civiltà italiche e ben prima della fondazione di Roma,
sorgevano i resti di un antico tempio dedicato al Sole, che gli Etruschi
chiamavano Dios Aplu.
Aplu-Sorano, dio della luce e del
fuoco, veniva rappresentato coperto della sacra pelle di lupo e accompagnato
dai lupi, suoi animali totemici.
Dopo aver rievocato i
misteriosi riti dei pastori irpini dedicati al dio Aplu-Sorano in cui si
danzava sopra braci ardenti parla de…
Soratta, Soracta,
Soratha, è il nome di un’altissima cima Andina (6617 metri s.l.m.) a est del
lago Titicaca, dove si trovano i resti megalitici di un tempio dedicato al dio
Sole, venerato con i nomi di Wilcanota
o Apu-Illapa, signore del fuoco e
della luce. Sora, in aymara, è il
nome dato a una bevanda alcolica molto forte e inebriante, allucinogena, e il
verbo soraacta significa preparare, fare
questa bevanda. Si crede che la montagna del Soracta fosse in tempi antichi un vulcano, e per questo motivo,
viene anche chiamata Ancohuma. Huumi
in aymara significa vapore o vapore che esalta. Huumaatba, hunmiraatha, sono verbi aymara che significano fumare, esalar
vapore, mandar fuori fumo.
Sono evidenti le
analogie del mito prelatino con quello andino, e il loro parallelismo
non potrebbe essere presentato più chiaramente.
Dopo pagine
altrettanto (per me) straordinarie, riprendo gli ultimi esempi molto belli…
Ancona,
nome di un’antica
città che precede la presenza storica degli Etruschi, capitale della cosiddetta
Marca Anconitana, già famosa come porto sul mare Adriatico, prima
dell’espansione marittima degli antichi Toscani. All’interno del suo centro
urbano, sulla sommità del monte Guasco, sulle rovine di un tempio pagano, è
edificata la cattedrale. Oltre che per il suo porto, la città era famosa,
anticamente nella penisola iberica, per le sue fonderie e per la fabbricazione
di corde e cavi per la marina.
Continua nella nota: Huasca, da cui deriva il nome del Monte
Guasco, antico luogo sacro della città etrusca di Ancona, significa in Kechwa:
cuerda [corda], beta [spago], cordel [cordone]. L’ayahuasca, letteralmente “la corda dell’uomo morto”, è una pianta a
forma di liana o di corda le cui proprietà allucinogene, note fin dall’antichità,
venivano utilizzate dagli aborigeni per preparare una pozione narcotica nelle
loro pratiche religiose.
E continua… La
tradizione e la storia attribuiscono agli Etruschi l’invenzione e l’applicazione
dell’ancora. E sempre segnala dove
riprende le notizie in nota: Puletti, Orazio. Gli
Etruschi, popolo misterioso. Viterbo,
1960, p. 55.
La radice anc è l’origine delle parole italiane áncora, ancla [ancora], e
ancoraggio [in spagnolo anclaje]. Ancona,
come toponimo portuale, è comune con le relative varianti, in tutte le lingue
romanze, in guancio e in altre lingue eurasiatiche e celtiche.
Nota: Qui è
impossibile fornire un elenco completo dei porti di tutti i paesi e di tutte le
latitudini la cui radice è anc. Ne
menzioniamo Alcuni: Anciron, Asia
Minore, Golfo da Ismid; Anciola, porto delle Isole
Baleari; Ancresse, baia presso Le
Havre; Angoy
(Cabenda), Africa, il miglior ancoraggio nella regione del fiume Zaire, al
confine con il [oggi ex] Congo Belga; Angola, Angora, l’antica Ancira, Angostura,
Venezuela, ecc.
Ancón è il toponimo di
un’antica città Inca sulle rive del Pacifico… Nota: “I lanciagiavellotti e gli
archi [Lanzadores de venablos v arcos], come quello fatto di legno di palma
scoperto ad Ancón, erano sicuramente strumenti comuni usati nella caccia.” Bushnell,
G. H. Perri. Barcellona, Argos,
1962. (Pagina 20). “Sulla costa centrale i cimiteri più noti si trovano ad Ancón e Pachacamac e contengono numerosi resti mummificati avvolti in
tessuti finemente intrecciati, sepolti in camere coniche e cilindriche.” I
primi cacciatori nominati a p. 57
del lavoro di Bushnell, risalgono a un periodo compreso tra il 7000 e il 3000
prima dell’era Volgare. Vedi la tavola
cronologica delle culture peruviane, p. 24-25
dell’opera citata.
Prosegue poi con
Ancoraime, un’altra città sulle rive del Titicaca. Entrambi i luoghi ospitano
importanti rovine e resti archeologici della preistoria; entrambi
erano fondeaderos [Luoghi con
profondità sufficiente per l’ancoraggio delle barche.] e porti: anclajes [ovvero ancoraggi, porti,
darsene…].
Funzionalmente el ancla, in italiano l’ancora, dipende da un cabo tenso [una corda tesa]. La
parola angla in spagnolo significa cabo [cavo], cuerda [corda] e agra
[Sostantivo indicante l’insenatura (parte del mare che entra nella terraferma)]
appunto è sinonimo di insenatura, baia, ancoraggio.
In Kechwa la parola ancu significa cuerda [corda], tirante [cinghia],
beta [corda o filo.], tendón [tendine], cabo [cavo].
Pisa,
in latino Pisae, è la città la cui fondazione è
antecedente agli Etruschi e fu legata alla leggendaria storia dei Pelasgi. Nota:
In latino il nome di questa città è tra quelli che non hanno il singolare e si
esprimono solo al plurale: Pisae, Pisarum. Non
si conosce il motivo di questa forma grammaticale di alcuni toponimi di città
antiche. Riteniamo che questo
fenomeno grammaticale sia dovuto al fatto che queste città nacquero come un
insieme di edifici per vari motivi: strategici, commerciali e religiosi. Come
movente strategico, sarebbero rappresentati da un insieme di fortificazioni
difensive; Per motivi
commerciali, avrebbero potuto sorgere in corrispondenza di incroci e costituire
un insieme di punti di scambio o mercati; Per
ragioni religiose, una città avrebbe potuto formarsi attorno a un gruppo di
edifici destinati al culto, ecc.
Prosegue… Non si
conoscono le sue origini; nel
periodo di massimo splendore dell’Etruria fu una delle dodici Lucumonie. Situata
sulla costa tirrenica, alla foce del fiume Arno, è dotata di fortificazioni per
difendersi dai numerosi pericoli che l’hanno insidiata nel corso della sua
storia travagliata: le acque, le incursioni dei pirati e gli attacchi a
sorpresa dei suoi nemici. Per queste ragioni la città presenta l’aspetto di una
fortezza e di una cittadella. Le
sue fortificazioni sono davvero imponenti; La
sola cinta muraria ha un perimetro lungo dieci chilometri e sulla riva destra
dell’Arno vanta una fortezza ciclopica che costituiva un baluardo
inespugnabile. Le descrizioni della
città fornite dagli scrittori antichi sono contraddittorie e oscure.
Infatti, in nota…
Rutilo Namaziano, in un passo piuttosto oscuro, racconta che Pisa deve il suo
nome alla stretta faglia di terra su
cui è costruita: Si entra attraverso l’apertura frontale su una stretta
striscia di terra. Catone, nella sua
opera Origenes, secondo la
testimonianza di Servio (Comm. Nell’Aen. X,
179), afferma che non si sa chi furono i popoli che fondarono la città di Pisa,
né quale sia l’origine del suo nome.
La radice pis è molto comune nella toponomastica
della preistoria andina e sono innumerevoli i toponimi derivati da questa
radice, distribuiti in tutto il continente. E in nota dice: Pisacolli, Perù, provincia
di Parinacocha; Pisacoma, Perù, dipartimento Puno; Pisaguan, Perù, dipartimento
Arequipa; Pisana, Perù, porto fluviale nel dipartimento de Loreto, provincia di
Huallaga; Pisaqueri, Bolivia, dipartimento Oruro; Pisarata, fiume della
Bolivia, dipartimento Oruro; Pisaqueri, Colombia, dipartimento Cauca; Pisagua,
Cile, prov. Tarapaca; Pisapanaco, Argentina, prov. Catamarca; Pisay, Messico,
stato di Yulcatán, Municipalità Valladolid. ecc.
Tra tutti Tra questi toponimi, il più famoso
è quello dell’Inca Pisaj, il cui nome
significa città fortificata. Questa
cittadella faceva parte di un sistema di fortificazioni progettato per
proteggere un gruppo di imponenti edifici il cui utilizzo è sconosciuto. Tra
questi, la più famosa è l’Intiwatana, che era allo stesso tempo sia un tempio e
sia un osservatorio astronomico. La città, situata su un altopiano a più di
3000 metri sul livello del mare e 22 chilometri da
Cuzco, è delimitata da enormi precipizi su attorno al quale si ergono le
gigantesche mura destinate a renderla inespugnabile.
Nella regione di
Pisatis, Pizatis, Pisides, dove si ritiene che ci fosse situata un’antica città
greca chiamata Pisa, ci sono grandi resti megalitici di fortificazioni e
rovine. Nota: Nel “Vecchio Mondo” c’erano diverse città con gli stessi nomi.
radice pis, tra cui: Pisarum, l’attuale
Pesaro (Italia), Pisany (Francia), Pis (Francia), che si ritiene prenda il nome
dalla città di Pisa. Le
Sacre Scritture menzionano anche Pisga, un monte della Palestina. sulla costa
orientale del Mar Morto.
Prosegue con le…
Marche
(Regione dell'Italia
centrale situata verso l’Adriatico) o Marca sono due nomi che risalgono al
mondo preromano. Sebbene non compaia come toponimo latino, questo nome indica
un territorio che i Romani chiamavano Picenum,
così chiamata per il culto che i suoi abitanti, i Piceni, dedicavano al dio
Picus.
Si trovano tuttavia tracce della sua radice marc in un gran numero di cognomi e nomi
antichi del mondo romano delle origini. Nota:
Da Anco Marzio a Marco Aurelio, tutti i nomi e cognomi romani come Marcia,
Marcial (Marziale), Marcelus (Marcelo), ecc. derivano dalla stessa radice marc. il
cui significato coincide con quello di Marx,
Martius, relativo a Marte.
Roma chiamò Marcomanni una tribù germanica
contro la quale combatté nelle regioni danubiane. Prosegue
in nota: Con questo nome i Romani distinguevano un’antica tribù germanica,
appartenente alla confederazione degli Svevi, la cui sede era il territorio
situato tra i fiumi Elba e Odre. I
Romani iniziarono le loro conquiste durante l’Impero. Nell’anno
88 dell’Era Volgare, i Marcomanni si unirono ai Daci e ai Quadi e respinsero
gli invasori. La guerra continuò
sotto gli imperatori Traiano e Adriano. Dopo
il II secolo, i Marcomanni tentarono di invadere l’Impero e di attraversarne le
sue frontiere; Marco Aurelio riuscì a
sottometterli nel 174, ma solo sotto l’imperatore Commodo Roma stipulò una vera
pace con loro, obbligandoli a diventare suoi tributari.
Non abbiamo notizie specifiche
sull’antichità del nome Marche o Marca, come toponimo del territorio marquense
della regione italiana meglio conosciuto con il demonimo di Picenum. Strabone
(Geografia. V, 4, 13.) e Plinio (Natur. Hist. III, 70.) parlano di una colonia etrusca, Mercina, situata sulla litorale
salernitana, dove sono apparse testimonianze archeologiche della cultura
villanoviana, considerata uno dei centri etruschi più arcaici (Pallottino, Op.
cit., pág. 146, 200.).
Le Marche, già nell’anno 268 dell’Era
Volgare, facevano parte del territorio che in epoca preromana e romana era
denominato Picenum. Sempre in nota:
Territorio compreso tra il versante orientale dell’Appennino e il mare
Adriatico, dal fiume Marecchia al fiume Tronto. Le
Marcas (in spagnolo le Marche) formavano un quadrilatero delimitato a nord
dall’Emilia, a est dall’Abruzzo [a me pare al sud, comunque] e a ovest da
Umbria e Toscana. Le sue città più
importanti sono: Pesaro, Urbino, Ancona, Macerata, Ascoli-Piceno [manca Camerino, evvabbé]. Dei
popoli dell’antico Picenum, dice Dionisio (I, 74, 3) che costituivano un
mosaico di genti, alcune indigene, altre “arrivate da molto lontano, e da molti
luoghi. Queste genti avevano una lingua e costumi diversi”. Secondo l’autore
citato M. Pallotino (Etruscologia, p. 58) “sul
versante adriatico e specialmente nel Piceno, si sono avute tracce di un
dialetto di incerta classificazione”.
Secondo gli etimologi,
questo nome è dovuto al fatto che le Marche sono regioni di confine; Tuttavia,
questa regione d’Italia non presenta caratteristiche particolari che
giustifichino tale qualificazione, essendo tanto Fronteriza (confine) come ogni altra della Penisola.
A sud
e a nord delle Marche e nella stessa posizione geografica, a est dell’Adriatico
e delimitata a ovest dagli Appennini, si trovano altre regioni italiane, le
quali, pur avendo le stesse caratteristiche territoriali, non si chiamano Marche. Tra
queste, a nord del Piceno, si trova la Romagna e a sud l’Abruzzo.
Altri toponimi
italiani, come altri fuori dalla Penisola, indicano che la radice marc non è determinante dei concetti di:
frontera (frontiera), linderos (confine), límites (limite).
Nota: Marcadal,
nome francese di molte piazze del mercato nel sud della Francia. Si ritiene che
questo nome sia di origine catalana. Marcaide, prov. da
Vizcaya, municipio di Mugnaía. Marcalani, Spagna, prov. dalla
Navarra. Marcallo-Casone, Italia, provincia di
Milano. Marcamps, Francia,
dipartimento della Gironda: con celebri
resti di costruzioni megalitiche dette Pair-non-pair. Marcaria, Italia, in provincia di
Mantova. Las Marcas, una piccola regione della Francia; le sue
città principali: Alenzón, Argentan, Seez. Las
Marcas, in Scozia, dal Mare d’Irlanda
fino alla valle del fiume Tyne, comprendono la cosiddetta Marca Occidentale
nella valle del Reed; la cosiddetta Marca
del Centro, che raggiunge la foce del fiume Tweed; e
la cosiddetta Marca del Este. Marcedusa,
Italia, prov. di Catanzaro. Marca hispánica, Penisola iberica. Nell’anno 785 vennero inclusi i limiti
della Marca Ispanica tra Barcellona e Gerona. Dopo
l’811, e in accordo con gli arabi, i confini di questo territorio furono ben
definiti: il confine delle Panadés tra i bacini idrografici dei fiumi Lobregat
e Gayá.
Abbiamo
anche altre parole dalla stessa radice, il cui significato non è esattamente
quello di tierra fronteriza (terra di
confine): maqués (il marchese), e marca (confine), che ha il significato
semantico di segnale. L’etimo della parola maqués,
appunto il marchese, deriva anche da marca ossia Frontera (confine) segnalando questo titolo nobiliare come
pertinente ai signori delle terre di confine. Tuttavia, l’origine della parola
deve essere stata diversa, poiché non tutti i feudi, nemmeno quelli più
importanti, i cui signori erano distinti con questo titolo, erano situati sulle
terre di confine.
Secondo la definizione
della legge del Marchese delle Siete Partidas (Partida II, titulo 1.),
significa signore di qualche terra che si trova nella regione del Regno. Che
equivale per definizione a: signore di una regione o di un territorio,
indipendentemente dalla sua ubicazione.
In Kechwa, marka significa: pueblo (città), terra che appartiene alla stessa
comunità. Nota: “Nome del paese e delle terra che appartengono a un aytin”.
Guardia Mayorga, Diccionario kecbwa-castellano
y castellano-kecwa, Lima, 1961, pag.
65.
In Aymara, marca significa: ciudad (città), pueblo
(paese).
La radice marc genera anche il sostantivo marca
e il verbo marcar, cioè distinguere
una cosa dall’altra mediante un segno o
marca (marchio). In questo caso, si
suppone che l’etimo della parola marca
si suppone derivi dall’alto tedesco marka,
segnale. Nell’italiano arcaico
questa parola significava paese, terra, regione (Dante e Giovanni Villani usono
il vocabolo nel senso di paese, terra) e segnale (Usano “marca” come segnale,
Giovanni Villani, Matteo Villani, Francesco Serdonati e altri), ma non vi figura
il valore specifico di marca come
confine, limite, confine. (Prati, Angelico. Vocabolario
etimologico della lingua italiana. Milano, 1951, pag. 625)
Il vocabolo germanico marka, da cui deriva il significato di
confine, demarcazione, è dato dalla linguista Angélica Prati, come supposto; pertanto l’etimo della
parola è dubbio.
La parola marca, señal (segnale), deriva dall’aymara, poiché in aymara marca significa señal
(segnale) o marca, e marcatha, verbo,
significa: marcare, porre segnali, sigillare o ordinare di sigillare qualcosa,
distinguere con un señal (segnale). Vedi Bertonio,
Ludovico. Op. cit., VI, pág. 226.
Questo mi dà la conferma che la denominazione
della regione adriatica conosciuta come Marche è venuto dall’alto–Medioevo, da
Carlomagno; questo signorotto frank,
che con le sue continue campagne estive per la reclutamento forzato di nuovi
“servii della gleba”, [vedi il caso di Verden nell’ottobre dell’782 (dove
avrebbe decolavit decollato, tagliato
il collo a più di 4000 prigionieri sassoni… invece li trasferì, delocavit o come azz si scrive in
latino], avesse diviso in zone ben marcate, ben divise tra coloro che contavano
e coloro che lavorarono la terra, ben definito dai dialetti locali,
principalmente dall’anconetano e da quello più a sud camerte (dall’antica
Camerino) oggi maceratese e fermano e ascolano. In pratica, [chi a orecchie
per intendere mi capisca], seppur fantasticandosi poi sopra, comunque il professor Carnevale non si era inventato
un bel niente!
Non per nulla messer
Carlomagno viene accostato a quella malefica entità detta unione europea, che
distrugge lingue e culture dei singoli stati europei.
ωωω
Però a pensarci bene e se Camerino, l’antica
città sotto i Sibillini, fondata dai Camerti Umbri, da Kamer, roccia… forse.
Invece no [contenti,
eh?]. Pietra in lingua aymara e kechwa si dice Kala.
Peccato! Grrr! Ci sono andato vicino… ho
provato a colpire al centro del bersaglio, ma – seppur è un mito – di Robin Hood
c’è ne stato solo uno!
Proseguiamo con altra
ricerca della professoressa, con…
La Lucania
è un'antica provincia
dell’Italia meridionale, situata nell’estrema regione occidentale della
Penisola; È bagnata a ovest dal
Mar Tirreno e a est dal Mar Ionio ed è attraversata longitudinalmente dalla
catena appenninica. Le sue principali
città nell’antichità furono: Paestum,
Elea, Pyxo, Turio, Eraclea, Metaponto; Volcentum, Eburi. I
Lucani, considerati di razza sabellica, occuparono il Sannio intorno all’anno
400 prima dell’Era Volgare.
Nota: La
preistoria del Sannio è molto oscura e i dati archeologici stessi non sono
sufficienti per ricostruire la sua cultura. Tuttavia, i Sanniti furono il popolo
più importante del ramo sabellico del tronco italico, e li troviamo
storicamente stabiliti nella regione meridionale della Penisola, oggi chiamata
Calabria. Il nome Calabria non è
un nome moderno. Era il nome
preistorico della regione e ha prevalso su altri nomi successivi con cui veniva
chiamata.
Non si sa nulla della
lingua dei Sanniti, se non che probabilmente era l’Osco.
Tito Livio menziona
l’occupazione, dei Sanniti, dalla città etrusca di Capua nell'anno 429 prima
dell’Era Volgare e chiama i Sanniti nuevos
colonos cioè nuovi coloni. Non è stato discusso di una parentela tra
Etruschi e Sanniti, parentela che doveva essere una realtà a giudicare dagli
elementi linguistici, per quanto riguarda la comparsa in Roma i gladiatori, di
sicura importazione etrusca, erano chiamati samnitas.
Del nome Samnium,
toponimo della regione, e del demonimo Samnitae, nulla si sa. Se
i Sanniti parlavano la lingua de los Oscos
ovvero gli Osci, tra i nomi Osco,
Samnium, Calabria deve esserci una relazione linguistica.
Tra i
dati lessicali sui quali abbiamo basato questa affermazione, Citeremo la
controversa parola oscillae del
latino. Questo termine
indicava alcune maschere di “barro cocido” (argilla cotta), che erano oggetto
di un culto molto misterioso e diffuso nella Roma arcaica.
Nei cosiddette feste
delle Semetivae, le oscillae venivano poste appese ai templi
e delle case, come propiziatorie e più di ogni altra cosa come esecratorie, per
rifiutare o lanciare incantesimi.
[Personalmente ne ho
già parlato nel mio scritto su I
risvolti macabri di Arlecchino e Pulcinella]
Gli esecratori erano realizzati in cordoncillos o ritagli di lana. Calabre, parola che non
figura nel latino classico, significava cordel
ovvero corda, filo ritorto o intrecciato. La
parola calabre si fa derivare dal
greco kalós, che significa in
spagnolo cordel, corda. Caldabrote, in gergo marinaro
significa atajio in spagnolo scorciatoia o collegamento, oppure cuerda anudada,
una corda annodata; sempre in spagnolo
abbiamo la parola calabriada che
indica nello spagnolo enredo (groviglio), maraña (aggrovigliamento), lío
(disordine, pasticcio, confusione).
Nelle Sementivae
si professava culto ad entrambi i tipi di maschere: quelle fatte di argilla
cotta e quelle fatte di filo. Entrambe le maschere, secondo quel che il lessico
indica, erano di origine sannita. La
parola oscilla non è stata spiegata
in modo soddisfacente.
Si dubita se derivi
dal verbo oscillo, che il latino
classico non registra, la parola os, oris, bocca, faccia, viso, lingua e linguaggio. Oscilla in questo caso
sarebbe un derivato de oscillum,
diminutivo da os, che significa bocca
piccola, faccia piccola, visino o piccolo viso.
La relazione linguistica tra le parole:
Osco, oscilla, Sementivae, Samnium, Samnitae come fabbricanti di oscilla, può essere determinato
attraverso l’espressione lessicale Kechwa sañu,
che significa “loza cocida” cioè terracotta, o “barro cocido” ovvero argilla
cotta (González Holguín, Op. cit., p. 334… altro libro sfuggito. Il
suo bel libro deve essere senza una buon limatura). Questa
parola identificherebbe i Sanniti come fabbricanti de las oscilla, maschere di argilla cotta.
Un’altra parola Kechwa spiega il termine
ermetico Sementivae, con le quali si
designavano le feste delle maschere di terracotta: simi, che nella lingua del Incaro significa bocca, effigie umana,
volto e linguaggio. L’osco non era un dialetto insignificante; Era
una lingua abbastanza generale e diffusa nella Penisola e, secondo Ennio, non
aveva alcuna relazione con il latino.
Uno degli episodi più importanti di questa
penetrazione fu l’occupazione e la distruzione della meravigliosa Paestum,
Pestum, Paiston, Pesto, quella delle rose, immortalata nei versi di Virgilio,
Properzio, Ovidio e Marziale.
I conquistatori lucani non si limitarono a
sostituire l’antico nome della città. Lingua,
costumi, religione, tutto era cambiato. Aristogene
di Taranto (Aristógenes de Taranto. Athenaios.
XIV, 652.) racconta: "Gli abitanti di Poseidonia sono diventati veri
barbari. La loro lingua e i loro costumi sono cambiati. (Lingua e costumi
greci, secondo questo scrittore) Celebrano una sola festa greca: si riuniscono,
pregano, ricordando i loro antichi nomi e i costumi di ieri. Poi,
quando hanno finito di lamentarsi e asciugato le lacrime, si separano".
Questa e altre simili affermazioni di
scrittori antichi sembrano essere d’accordo con i fatti, poiché il nome di Paestum, di apparente origine latina,
difficilmente potrebbe essere stato un contributo linguistico dei Lucani, la
cui lingua non era il latino, che essi ignoravano, (Pallottino, Op. Cit.
[ma quale? Ne vengono indicate 5 in bibliografia] pag. 57) e la cui preistoria
ci è sconosciuta (Sempre Pallottino, a
pag. 78).
Sembra che la città di Poseidonia sia stata fondata con questo nome intorno all’anno 600 prima
dell’Era Volgare, sul sito di un’altra città più antica, chiamata Pesto, le cui origini sono sconosciute. Secondo
la nostra interpretazione delle testimonianze storiche, il nome Pesto non
scomparirà per tutta la durata della città e non sarà altro che il toponimo
primitivo, che i Romani, dopo la conquista, latinizzeranno in Paestum.
L’affermazione sul pianto e il desiderio
degli abitanti di Poseidonia per una
terra, dei costumi e di una lingua
perduta doveva riferirsi a eventi molto più antichi e appartenere a un
mondo di vaghe reminiscenze che risalivano a un tempo molto lontano. I
dati fornitici dagli antichi scrittori sulle delizie e l’eccezionalità del
clima, l’abbondanza e la magnificenza universalmente nota de le rose di Paestum, che fiorivano
rigogliose due volte l’anno, ci autorizzano a supporre che questo insieme di
fattori climatologici sia il risultato di una posizione geografia privilegiata
e riparata dai venti freddi delle vette appenniniche.
Una città che ha
un’origine preistorica così remota e che è stata ricostruita più volte nel
corso dei secoli sullo stesso sito, deve sicuramente la sua sopravvivenza a
potenti fattori geografici da cui deriverebbe il toponimo che la
contraddistingue.
Come abbiamo affermato studiando il valore
semantico dei toponimi, essi non nascono dal nulla, e tanto meno dal caso e dal
capriccio: sono sempre dovuti a motivazioni specifiche. In
quelli di origine molto antica la motivazione è costituita prevalentemente da
fattori geografici o ambientali; Nel
più recente, il motivo le motivazioni geografiche vengono sostituite da quelle
storiche. Cambiamento
determinato da un fatto o evento importante del gruppo etnico; Tuttavia,
la nuova motivazione non cancellerà mai il vecchio nome, che rimane sempre in
una o nell’altra espressione lessicale la cui la motivazione, ovvia o nascosta,
è di origine ambientale, storica o etnografica.
Se il fattore climatico ha potuto
determinare l’origine del nome dell’antica Paestum,
è ovvio che tale fattore e le condizioni che possono averlo motivato non
possono essere esclusivi o peculiari del paesaggio geografico di questa singola
città della preistoria lucana. In nota scrive… Aristogene fa un curioso
miscuglio genealogico per spiegare questo nome latino “…Accadde che, essendo
gli abitanti di origine ellenica, divennero barbari, si trasformarono in
Tirreni (equivale a Etruschi) o in altre parole, in Romani, e cambiarono la
lingua e il resto dei costumi.."
E
in effetti, Molti altri siti e luoghi del mondo antico si trovano nelle stesse
condizioni climatiche e ambientali che determinarono il nome della preistorica Paestum, come conferma il gran numero di
città antiche che hanno come generatore dei suoi toponimi la radice pest. Sempre in nota… Pest (Buda-Pest en
Ungheria), Pestchancié, Pestchanokopshoié, Pistiari o Pestakovo, Paestrafka,
Pesttretzy, etc. (Russia), Pestes (Romania), Pestrini, Pestivien (Francia),
Pestchanka (da questo nome altre due città in Russia e una in Ukrayna), e altre
ancora.
L’origine di questa radice non è stata
identificata dai linguisti, poiché alcuni etimologi ne hanno riconosciuto
l’esistenza prelatina. Nota… Non abbiamo trovato questa radice pest: in sanscrito. Vedi:
Rodríguez Adrada, Francisco. Védico y sánscrito clásico. Gramática, textos
anotado: y vocabolario etimológico. Madrid,
1953, p. 188. Il fatto che non
si trovino tracce della radice sanscrita conferma l’ipotesi che la parola Pesto, toponimo ritenuto di origine
romana, non derivi dal latino.
Si tratta, al
contrario, di un nome preromano, molto più antico. L’antichità
di città come Buda-Pest, Pestivien, Pestrini, e Pesto stessa, è testimoniata
dai suoi resti megalitici: le imponenti mura e le rovine degli edifici di
Pestivien, tra che contiene la famosa “Mesa
de las Ofrendas”, la Tavola
delle Offerte, un monolite di 4 metri di laghezza; le
mura e gli antichi resti archeologici nel dintorni di Buda—Pest, ecc.
Per quanto riguarda
Buda-Pest, la prima parte dal suo nome ha
la stessa radice Kechwa put, bud, che ha avuto origine il nome dei
vecchi Puteolis e di molte altre
città, i cui toponimi sono motivati dalle
sorgenti di acque sulfuree situate nei loro territori. Le
acque sulfuree e termali di Buda
erano note agli antichi, così come quelle di Puteolis. In
Kechwa il verbo putuy significa
emanare cattivi odori, puzzare; putun significa puzzolente. La
città di Putina, nell’Alto Perù, era
famosa per le sue sorgenti termali sulfuree, conosciute e sfruttate fin dalla
preistoria.
Andiamo avanti con le
belle righe della professoressa…
Il caso del nome Pesto presenta un’altra particolarità linguistica legata a un
curioso cambiamento semantico molto posteriore, dovuto a un’associazione di
idee per analogia con la parola peste,
dalla stessa radice.
Gli scrittori moderni
hanno definito il clima di Paestum
come pestilenziale, malsano e dannoso, arrivando addirittura ad affermare:
"...nessuno si azzarda a visitarla nella stagione estiva, temendola come
focolaio di malattie infettive..."( Enciclopedia
Espasa-Calpe. Tomo 43, pag. 1446-47.).
Questa triste
affermazione avrebbe potuto provenire da un parere di
Strabone, scrittore relativamente moderno (Geografo greco dei tempi de Tiberio
che regnò dal 14 al 37), riguardo all’antichità di Pesto, il quale, influenzato
dai sostantivi latini pestis, pestilencia, deve avervi fatto
riferimento mentalmente quando affermò nella sua Geografia: "Il fiume vicino, che forma paludi, rende la città
malsana".
L’aria e il clima di Pesto, dichiarati
pestilenziali molto più tardi, non potevano essere così malsani o dannosi come
dimostrano le doppie rovine della città, le quali attestano la sua
ricostruzione nello stesso sito.
Nel VII secolo d.C.,
l’antico e preistorico Forum del sito megalitico di Pesto fungeva ancora da
affollato mercato agricolo per l’intera zona.
Strabone,
contemporaneo dei poeti e degli scrittori latini che celebravano il fascino
della città primaverile, che gioiva di
ben due raccolti di rose all’anno!
E in nota la
professoressa sottolinea che esiste una classe di rose classificate dai
botanici con il nome da rosa pestana, per significare il suo profumo
intenso e persistente, inoltre dalla sua abbondante produzione.
Strabone ricorre, per
la misteriosa etimologia del suo toponimo, alle fonti di cui dispone nel
lessico latino, e le accetta letteralmente.
Come possiamo accordare opinioni così
contrastanti che ruotano attorno a un nome che sappiamo non appartenere a un
insignificante conglomerato umano, bensì a una delle più antiche e suggestive
città preistoriche della Penisola?
Le rovine megalitiche,
i templi di Poseidone, Vesta, Cerere, il Forum, le terme, ecc., sono testimoni
della grande antichità della città, ricostruita dai Greci e dai Romani.
Impossibile che tali
opere, e le mura ciclopiche che difesero la arcaica Pesto e che perdurarono
nella Poseidonia dei Greci e nella Paestum dei Romani, siano state risollevate,
ricostruite e riutilizzate nel corso dei secoli (fino al secolo VII dell’Era
Volgare), "in un luogo dall'aria malsana e pestilenziale".
Il toponimo Pesto deriva dal verbo Kechwa pistuy
che significa riparare, ricoverare, coprire, riparare, avvolgere.
Nota… L’antica città
preromana di Pistoia, nel cuore della Toscana e adagiata sulle pendici
dell’Appennino, presenta le stesse caratteristiche della città di pesto nell’aspetto della sua natura;
Tuttavia, il suo clima è meno benigno, a causa delle sue coordinate
geografiche.
Altra simpatica nota…
L’etimologia del La toponimo di Pistoia è da ricercarsi nel fatto che questa
antica città era un famoso luogo di produzione di pistolas… cioè di pistole. Un’etimologia inverosimile, poiché le
pistole sono armi recenti e Pistoia era considerata antichissima già dagli
stessi Romani. Nei suoi dintorni il ribelle Catilina morì accerchiato dai
legionari. Si può supporre che il nome pistola,
usato per indicare arma in generale, è più antico della ben nota arma da fuoco,
e che ogni oggetto destinato "all’offesa a tradimento, o alla difesa
prudente e cauta, doveva essere pistola
ma nel senso di pistuy, cioè tenuto,
nascosto, avvolto.
Torniamo al testo…
Questa motivazione del
nome Pesto, indica il clima dolce e primaverile del luogo in cui venne fondata.
Pistu è un sostantivo
Kechwa e significa protezione, riparo, involucro; pistuña, forma verbale con
l’agglutinazione del suffisso ña, significa: è coperto, avvolto, riparato. Diamo
a questa forma verbale agglutinata, in cui è facile riconoscere l’origine e il
significato del sostantivo spagnolo pestañas
(in italiano ciglia), efficace complemento alle palpebre per riparare e
proteggere l’occhio.
Nota… La parola párpado, in italiano la palpebra, ha il
suo etimo nel verbo Kechwa parpay,
che significa sia volare sbattendo le ali, sia ammiccare, cioè sbattere la
parte mobile ed esterna dell’occhio.
I dati lessicali da noi esaminati sono
testimonianze della lingua prelatina generale parlata nella Lucania
preistorica.
Una regione o
distretto dell’antico Perù era chiamato e viene ancora chiamata Lukana o Rukana.
Questo territorio è
compreso tra le sorgenti dei fiumi Lomas o Romas, Yauca e Río Grande, dalle
punas bravas alle pianure costiere.
Il demonimo dei Lukanas Kechwas deriva dalla parola luka
o ruka, che significa dedo de la mano ovvero dito della mano.
In russo, ruca significa mano.
Il nome dei Lukanas, secondo il Kechwó-logos, è
dovuto alla conoscenza e alla padronanza che questo popolo aveva della
numerazione decimale. Numerazione che loro,
come altri popoli primitivi, effettuavano utilizzando le dita della mano.
E in nota scrive… La
radice della parola lukana, con il
senso del contare, è presente nel titolo della famiglia reale sumera: il Lugal, Lukar, era il Re - amministratore, secondo le tavolette di
contabilità sumera e ACADIA. Il
dito non era non solo uno strumento per il conteggio di base, ma anche una
misura di lunghezza nel mondo sumero.
Altri etimologi spiegano l’origine di questo
toponimo con il fatto che i Lucani erano abili annodatori di corde ( In
questo caso il nome corretto sarebbe llukuna,
da lluku, red anudada, rete
annodata), o estremamente abili in tutti i tipi di lavori manuali, di
artigianato, come testimoniano, tra l’altro, i bellissimi tessuti ritrovati
nelle loro antiche tombe.
I Lukanas erano un popolo eletto e distinto,
con privilegi speciali e, anche in tempi storici e all’arrivo dei
conquistadores, mantennero alcuni di questi privilegi, tra cui quello di essere
portatori de las Andas o della
portantina dell’Inca di Cuzco.
Il territorio dei Lukanas, chiamato Marcalukana
fin dalla preistoria o Lukanamarca, è
particolarmente interessante per le sue impressionanti rovine archeologiche. (Gérol E, Harry. Dioses, templos y
ruynas. Paris,
Hachette, 1961, pag.179)
Quando gli Etruschi
compaiono nella storia, si sono già trasformati in “Italici”, sono già un
popolo di lontana antichità, secondo le affermazioni degli scrittori greci e
latini. Attraverso il prisma dei millenni guardano indietro al proprio antenato
e, nostalgici e pieni di desideri, parlano dell’età dell’oro: di un divino
paese, dei loro antenati, adorano l’antichissimo Saturno, un numero ritenuto indígeste cioè indigeno.
Nota: Saturno, Giove,
Enea, il Re Latino e altri personaggi della mitologia preromani erano chiamati numen indígeste, cioè divinità indígeta, il che oggi possono essere
tradotti come divinità indigene. Questo qualificatore indígeste rappresenta un’altra parola latina arcaica senza etimologia
chiarita o riconosciuta. Il dio Sole, che non aveva un nome specifico nella
mitologia preromano e romana, era semplicemente chiamato Sol Index o Index. Indigete, Index, può essere spiegato
mediante la radice kechwa della parola Inti,
sole, sommo dio della mitologia dell’Incario.
[…]
Tra gli strani riti degli Etruschi vi era il
pellegrinaggio annuale ad un tempio chiamato Fanum Voltumne, la cui
ubicazione è sempre stata sconosciuta.
[…]
Secondo molte testimonianze della storia
antica, gli Etruschi sono considerati stranieri senza patria, indesiderabili, degli
strani nuovi arrivati che, conducendo una vita incomprensibile, dicono cose
senza senso tempo. Giovenale, in una
delle sue frasi dal contenuto più oscuro, a quanto pare deride i segreti degli
Etruschi: “... al figlio appartiene l’oro Etrusco, il nudo (nodo) e dell’umile distintivo di cuoio…”(Giovenale,
Satire, V, 163.) La storiografia non è stato in grado di
spiegare "a quale tipo di nodo
si riferisce Giovenale. Questo
riferimento potrebbe essere correlato ad una scrittura di nodi come i quipu?
Nota: Vari storici,
tra essi Tacito (Ann. XI, 14) e Tito Livio. (Hist., IX, 36, 3), menziona che gli Etruschi
conoscevano una scrittura di forma diversa, anteriore all’alfabeto.
[…]
La lingua greca ci ha
trasmesso la parola arpedonaptay,
formata dal sostantivo arpedone,
corda, cordame, e dal verbo apto,
annodare, legare, come espressioni di una capacità perduta di scrivere per
mezzo di corde annodate. Il termine arpedonaptay
si riferiva a coloro che scrivevano annodando le corde, come i Kipukamayu del Impero Inca.
[…]
ben chiara è la
descrizione dei catadenos ovverosia
il legame tra i nodi magici nelle pratiche del devotio, le quali, nel mondo romano, risalgono al IV secolo prima
dell’Era Volgare. I Sacerdoti della Roma arcaica, secondo queste testimonianze,
avrebbe letto le formule magiche dei loro sortilegi su corde annodate.
Insomma
a questo punto direi di fermarmi, ho rubato (ma amichevolmente e senza scopo di
lucro!) parecchio (fin troppo) dalla ricerca a dir poco straordinaria, profonda
ed estremamente seria della Professoressa Natalia.
E
purtroppo questo libro non sarà mai editato qua da noi, e se lo sarà, sarebbe
ampiamente rimaneggiato.
Ah! La professoressa
Natalia inoltre citava…
Mario
Gattoni – Celli, scomparso
a Roma il 29 luglio del 1968, dopo poco aver pubblicato il interessante lavoro:
Gli Etruschi dalla Russia all’America,
Roma, Aism, 1967.
E
personalmente devo citare il bravo Peter Kolosimo, che sul suo Italia, mistero cosmico, SugarCo, Milano
1977, cosa che non ricordavo più, che menziona la straordinaria ricerca della
professoressa fiorentina, nel capitolo Etruschi
sulle Ande, da me, completamente dimenticato, finché non me ne parlò Ivano
Codina [che riuscì a disegnare e a pubblicare sue storie a fumetti di Tiramolla
a livello nazionale, Grrr che invidia!], poche settimane fa.
E dire che sono due anni che non riesco
a scrivere il mio racconto
“Cucciolo e la piramide etrusca” dove
rivelo la provenienza del popolo di Tiramolla.
Qui sopra una tavola di
Marina Baggio e Angelo Scariolo dal n. 1 del ’93.
Sono
più che convinto che il mondo accademico dopo aver letto questo libro deve
averlo classificato come una pura scelleratezza.
Lo già provato e lo provo tuttora sulla mia
pelle, con l’ipotesi storica scaturita dalle scrupolose ricerche del professor
Giovanni Carnevale sulla Asquisgrana picena.
Così agisce la scienza/scemenza in perfetto
accordo con il Potere politico (stati europei e Papato) e universitario.
Già, eppure
è interessante leggere per quanto riguarda i Quipos ciò che si scrisse su…
GIORNALE ENCICLOPEDICO
DI NAPOLI - SECONDO ANNO DI ASSOCIAZIONE, Том. IV., NAPOLI 1808, pag.66
«MISCELLANΕΙ.
Congetture sull’origine delle nazioni
d’America, estratte dalla Biblioteca brittanica.
Hanno gli antichi conosciuta l’America? È
questa una quistione che è stata spesso discussa, e che è rimasta indecisa.
Platone dice che i preti di Egitto parlarono a Salone di un’isola Atlantide,
situata dicevan essi, a molte giornate dallo stretto di Gibilterra. Quest’isola,
secondo il rapporto de' preti, era molto più grande della Libia, ma era stata inghiottita
dal mare in un violento tremuoto. Diodoro Siculo parla anche egli di una grande
isola, ove i Fenicj furono gettati dalla tempesta. Egli aggiugne che i
Cartaginesi si davano molta pena per nascondere al commercio; ad oggetto di
conservarsi il privilegio esclusivo del traffico che colà facevano.
[…]
Due
sole supposizioni possono farsi su di ciò. O gli Americani sono originarj
d’America; o sono venuti da qualche altra parte del globo. I popoli hanno del
pendìo a credersi originarj de' luoghi che abitano. Gli Ateniesi aveano questa
pretensione. Ed i Messicani assicuravano che i Re di Spagna discendevano da un
Re del Messico. Ma anche quando la storia de' più antichi stabilimenti de'
popoli, contenuta nelle sacre carte, non ismentisse la prima di queste
supposizioni, questa congettura non avrebbe in se stessa veruna
verosimiglianza.>>
E prosegue con altri argomenti di cui il più
stimolante è da pag. 81 a pag. 84
<<Gli Americani
ed i Cinesi paragonati.
I
Peruviani avevano quattro grandi feste l’anno. La principale si celebrava a
Cusco, capitale di tutto il paese, dopo i solstizj, la seconda e la terza, ne'
due equinozj. La quarta in un’epoca variabile. Queste feste hanno molta
analogia con quelle de' Cinesi, tanto pel numero che pel momento dell’anno in
cui avevano luogo. I Cinesi fanno le loro feste negli equinozje ne' solstizj .
I
Sovrani del Perù e quelli della Cina pretendono egualmente di essere
discendenti del sole.
A
Cusco eravi un campo che niuno poteva coltivare fuori dell’Imperatore e la sua
famiglia. L’Imperatore della Cina ha anch’egli un campo ch’è riserbato per lui ed i suoi figli.
Le
donne del Perù, se bisogna credere
Frezier, hanno la passione di avere il piede piccolo, e per acquistarlo
si sottomettono ad una dolorosissima compressione. Tutti conoscono qual prezzo
i Cinesi attaccano a questo vantaggio. Egli è vero che questo fatto rapportato
da Frezier appartiene alle creole del Perù, e non già alle donne indigene. Ma
potrebbe non pertanto esser avvenuto che le Spagnuole Americane avessero
improntato da queste alcuni de' loro costumi.
I
Peruviani non conoscevano l’arte di scrivere, e si corrispondevano per mezzo de
quipos, ossiano nodi simbolici. I Cinesi, prima dell’invenzione de' caratteri,
di cui fanno uso al presente, si servivano anch’essi di nodi, per comunicarsi
scambievolmente i loro pensieri a grandi distanze.
I
quipos de' Peruviani erano formati di fili di differenti colori, ciascuno de'
quali aveva il suo proprio significato. I nodi che vi facevano servivano loro a
calcolare colla stessa facilità , di quella de' nostri mercanti che calcolano colle
cifre. Per mezzo de quipos, tenevano essi il registro degli abitanti del loro
vasto Impero, de' loro guerrieri, le tavole d’imposizioni, il registro de' nati
e de' morti. E tutto ciò era tenuto con molta esattezza.
L’orditura de' quipos era arbitraria. Spesso gl’Incas hanno cangiato il
senso attribuito a certi colori dai loro predecessori.
Se i
Peruviani fossero una colonia di qualche parte dell’antico mondo, si potrebbe
ragionevolmente supporre ch’essi siano stati originarj della Cina. Ma come mai
hanno essi potuto venire di là fino in America? Hanno traversato l’Oceano
pacifico? hanno girato il Capo di Horn, o traversato lo stretto Magellanico?
Questo sembra molto difficile. In verità non sarebbe impossibile, che toccando
molte isole intermedie per rinfrescarsi, alcuni navigatori abbiano traversato
l’oceano pacifico. Se si volesse opporre che i vascelli cinesi sono di una
costruzione troppo debole per un tal viaggio. Si potrebbe rispondere che anche
i Russi che sono stabiliti a Iakutsk, hanno disceso la Lena sopra deboli barche,
quindi hanno girato i capi di Eissen e di Tchutski, e sono entrati nel fiume
d’Anadir. I vascelli costruiti a grandi spese dalla Imperatrice Anno non poterono fare lo stesso. Le
isole Salomone che sono situate tra l’Asia e l’America, come mai sono state
popolate? Queste isole scoverte sotto il regno di Filippo II, avevano degli
abitanti, quando vi approdarono i primi vascelli europei. Come gli americani
non avevano marina, queste isole non hanno potuto essere popolate che dai
Cinesi. Ora il passaggio dalla Cina a queste isole era molto più lungo del
tragitto da queste isole in America.
De
Guignes, ch’era versatissimo nella storia e letteratura delle nazioni
orientali, dice espressamente, che nel 458, i Cinesi facevano un gran commercio
colla California. Buache chiama la California Quivara;
ed adotta, sotto quel nome, l’opinione di De
Guignes. Se è vero che i Cinesi hanno
scoperto il paese di Quivara, non è impossibile che i loro discendenti abbiano
costeggiato il lido, e siano giunti al Perù, dove finalmente avranno formato
uno stabilimento. Non è dunque improbabile, che Magno Capac, il primo Inca del
Perù, fosse Cinese.
Bisogna qui riunire una osservazione propria ad illustrare questo
soggetto. Giammai la navigazione nel tempo stesso , nello stesso periodo
istorico, e presso differenti popoli, ha toccato il più alto grado di
perfezione. Quest’arte conviene in ciò con tutte le altre, colle scienze e col
commercio. Questi vantaggi passano da una nazione all’altra, e cangiano i
popoli barbari in nazioni civilizzate, mentre che altre nazioni civilizzate
ricadono nella barbarie. Qual nazione ha superato gli Egizj nella marina è nel
commercio? Essi hanno fondate delle colonie in Africa ed in Europa. Hanno
esteso il loro commercio sul mare atlantico. In fine, partiti dal mar rosso han
fatto il giro dell’Africa. I Greci hanno avuto anch’essi una marina mercantile
e militare. Tutta la potenza di queste nazioni è oggi annientata. Ed esse
continueranno a gemere sotto un dominio straniero finchè la Providenza non mandi
loro un liberatore.»
ωωω
La
provenienza degli Etruschi e personalmente mi chiedo dei Piceni, qual’è? Con la
prima nota del libro la professoressa scrive…
La tesi sostenuta da questo lavoro è
puramente linguistica. Non spetta a voi stabilire come ebbe luogo questa
emigrazione, né quali furono le rotte di questi spostamenti. I popoli andini
avrebbero potuto raggiungere l’Italia attraverso molteplici vie, sia marittime
che terrestri […] e via dicendo sostenendo ancora la via dal nord.
Già perché tutto viene dal nord, i miti celtici
lo provano. Una volta lessi un libro con una buona tesi, ma personalmente
inverosimile, che la civiltà del Chanchan, venisse dall’Ungheria.
In una recente polemica dal facebukolo, vi
era uno studioso albanese che in contrapposizione al suolo italico rivendicava
un’origine del linguaggio dall’antica terra dell’Epiro.
Marco enrico De Graya sostiene la tesi che la Groenlandia –
rivendicata solo per ragioni meschino-strategiche dagli yankee – dovrebbe
essere l’antica sede di Atlantide.
Il
problema è molto più semplice! Italia o Albania o Sumeria sono di fronte al
mare e… i fiumi, i mari, gli oceani sono stati per millenni le vere autostrade
dell’uomo!
La
tesi che un’enorme strato di ghiaccio collegasse la Siberia all’Alaska e
permettesse così il passaggio di uomini e animali, cari signori saccenti, è
semplicemente DEMENZIALE!
Il
gelo uccide ne più, ne meno che il piombo rovente di Tex Willer! Come
sostiene con ragione il “pensatore”, un professore d’università, e collaboratore
dell’enciclopedia Treccani, il quale si
nasconde sotto questo peusdomino per la sua visione blasfema della
storia del passato del nostro pianeta!
Le tre
indie di Leo
Leo
nel suo libro Navigazione medioevali
al capitolo Romani in India e oltre, dove
cita il tempio indiano di Augusto a Muziris, scrive di ciò che i cosiddetti nostri antichi padri, parlavano non di
una, ma di ben tre indie molto lontane l’una dalle altre!
La
prima è l’India vera e propria, dove avevano stazionato una delle loro tante
flotte militari, la seconda oltre il Gange, ovvero la Cina e la terza?
La terza era oltre il Sinus Magnus, il grande golfo od oceano Pacifico (un golfo, un
oceano? Sappiate che il mar Adriatico era chiamato il… golfo di Venezia) dove
si arriva alle grandi miniere di oro e argento, a Cattigara in Perù.
Tesi? No, realtà storica evidenziata anche dalla famosa La
ciotola di Fuente Magna con caratteri proto sumerici!
I
viaggi per mare! Ecco la risposta! Altro che passar su una larga lastra di
ghiaccio o per terre gelate per emigrare.
Dal gelo si scappa, o ti
ammazza!
Ricordo
che un ammiraglio italiano fu ospite di Roberto Giaccobo su Stargate, linea di
confine, nel 2001 al più tardi nel 2002 (però mi pare che erano ancora nel
vecchio studio, ma! La memoria, ba!). Flavio Barbiero era e dev’essere ancor
convinto che la grande isola di Atlantide doveva essere la grande isola di
Antartide, il polo sud e i giganteschi palazzi atlantidei giacciono ancora la
sotto.
Senza voler togliere niente alla Sardegna –
ciò che racconta Gigi Muscas sui suoi antenati giganti è estremamente
affascinante – se però l’Antartide era l’Atlantide, come ha sottolineato (oltre
all’ammiraglio) il ricercatore Malanga, la gente all’arrivo repentino del
freddo deve essere sfuggita da quell’isola verso le coste più vicine… e quali
erano le coste più vicine, quelle americane, quindi Cile e da lì il Perù.
Ebbene,
non dobbiamo dimenticarci della popolazione ormai estinta (nel territorio
italico siamo in pratica alla stessa situazione e – per un ordine dall’alto, dal
Potere economico – con un altro popolo che ci sta sostituendo!) degli Yagan che
viaggiavano tra i canali della Terra del Fuoco a bordo di canoe (guidate solo
da donne, singolare, no?) e che avevano un vocabolario di 35.000 parole! Se
questo non è un indizio di una civiltà precedente e dalla vasta cultura, vedete
voi.
Mettendo o no di mezzo Atlantide, se un brusco cambiamento dell’orbita
terreste (dovuta, sembrerebbe a un meteorite caduto nel golfo del Messico), con
un repentino cambiamento del clima, qualsiasi civilizzazione esistente deve per
forza di cose emigrata.
Ho
sempre sospettato che le origini di Roma, e quindi degli etruschi venivano
dalla Sumeria, e partendo dall’ipotesi storica della professoressa Natalia, si
arriva dal Sudamerica, alla Cina, India, Sumeria e Mediterraneo, e da qui, più avanti
nei secoli, con fenici e Romani alle americhe dall’Atlantico; con un enorme
calcio in c… alla tesi sostenuta finora della provenienza nordica di tutto,
compresi i miti e gli dei e ariani vari!
Ma comunque
lo sostengo io, perciò, come diceva Totò “buonanotte ai suonatori!”
Ciao
Marco
Pugacioff
[Disegnatore
di fumetti dilettante
e
Ricercatore storico dilettante,
Macerata
Granne
(da Apollo
Granno)
S.P.Q.M.
(Sempre
Preti Qua Magneranno)
28/03/’25
articoli
Fumetti