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sabato 26 aprile 2025

Il mappamondo de Matteo Ricci

 

Il mappamondo de Matteo Ricci

 

Questa copertina mi è sempre piaciuta, ma chi sia l’autore,

buio completo. Mi piacerebbe che sia Otello Scarpelli, ma sicuramente sbaglio.

 

  Lungi da me esaltar un gesuita, per di più pure maceratese, ma questo personaggio, avrebbe disegnato una cartina davvero fuori de testa. Vediamo un pò...

   Innanzitutto, due parole sulla vita, che prenderò a prestito da un manifestino del 2007, simpaticamente disegnato da un autore ignoto; frammisto con altre notiziole riprese da Otello Gentili, autore de L’apostolo della Cina, P. Matteo Ricci, scritto nel ’53, di cui possiedo la terza edizione dell’82.

   Matteo Ricci nasce a macerata (come la carta venuta dalla canapa) il 6 ottobre 1552, probabilmente primogenito di undici fratelli, compie i suoi primi studi, nel collegio maceratese dei gesuiti. Venne definito “anima sorella a quella di Colombo”…

Il padre Giovanni esercita la professione di “speziale” o farmacista, già governatore di città tanto negli stati della Chiesa quanto in altri stati italici.

Suo padre desidera per lui una carriera nella pubblica amministrazione e lo invia a Roma, presso l’istituto “La Sapienza” per studiare giurisprudenza.

Trascorre tre anni, incerto se assecondare la volontà del padre o dedicarsi ad altro.

Nel 1571 Matteo decide di entrare nel noviziato dei gesuiti, dove studia matematica, astronomia, letteratura, cartografia e filosofia. Il padre saputo della decisione del figlio, voleva ricondurlo a ragione e parte per Roma, ma giunto a Tolentino (fatale a lui, come a Re Gioacchino), fu assalito da strana violentissima febbre e lasciò perdere. Una febbre, che chissà gli arrivò dal francescano Tommaso da Tolentino (morto martire nel 1321 in India), lo stesso che nel 1307, giunse a Poitiers per annunciare allora papa Clemente V, dell’evangelizzazione della Cina da parte del salernitano Giovanni da Montecorvino, morto a Pechino nel 1328.

Ricci possiede una memoria prodigiosa: può imparare a memoria interi libri. Nel 1577 lascia Roma per continuare gli studi a Coimbra, in Portogallo.

 

È il 1578 e Ricci salpa da Lisbona e dopo un viaggio avventuroso lungo sei mesi, doppia il Capo di Buona Speranza e sbarca a Goa, capitale delle Indie Portoghesi di allora.

I viaggi per mare di quei tempi erano lunghi disagevoli. Le “cabine” erano alte non più di 75 centimetri e lunghe quando era necessario per restar distesi; assomigliavano più a feretri che stanze per vivi… infatti molti frati partivano, ma non arrivavano.

Ricci c’è la fa per vero miracolo e a Goa completa gli studi religiosi, insegna presso il collegio dei gesuiti e nel 1580 viene ordinato sacerdote.


Nel 1582, come l’attore Robert Mitchum (chi si ricorda L’avventuriero di Macao del ’52?) raggiunse Macao, in Cina, accolto dal pugliese Michele Ruggeri, nato a Spinazzola nel 1543. 

Ricci impara con sorprendente rapidità a leggere e a scrivere cinese e studia la filosofia di Confucio. Secondo Gentili (vedi a pag. 40) fu il primo a far conoscere in occidente Confucio che italianizzò l’espressione cinese «Ccom fu ze» (=il Maestro Ccom), nella parola «Confutio», che poi passò nelle altre lingue europee.

Ricci si fa chiamare Li Madou, anagramma fonetico del suo nome e inizia i primi battesimi e a scrivere il catechismo in cinese. A Sciaochin costruì una prima casa con annessa una piccola chiesa.

   Sull’altare della chiesa – scrive Gentili alle pagine 63 e 64 – venne posto un quadro della Vergine col Bambino tra le braccia, ma l’immagine fu poi sostituita da un’altra del Salvatore, perché “insegnando i padri che si doveva adorare un solo Dio, e vedendo i cinesi una immagine di donna sull’altare, restavano confusi e credevano che il Dio dei padre fosse una donna”; non solo nell’ammirare i quadri che raffiguravano la Vergine di Santa Maria Maggiore, del Salvatore e dei Santi, i celestini (gli abitanti del Celeste Impero, come se ben ricordo, così li chiama Salgari), «essi, che ignoravano le leggi della prospettiva, restavano incantati ed entusiasmati dalla vivezza dei colori, e sembrava loro che i personaggi stessi fossero animati.»

Ebbe il rispetto e l’ammirazione da parte di studiosi cinesi e cambia il suo nome in Xitai che significa “maestro dell’estremo occidente”.

Scrive sempre Gentili (pagg. 126-7) che Ricci usò i termini buddhisti o taoisti per esprimere in cinese idee cristiane, non per niente usa “bonzo” per sacerdote, “pagoda” per chiesa, “produzione” per creazione, “salaceleste” per paradiso, “prigione terrestre” per la casa di Geppo, il diavolo buono, cioè l’inferno, “segno di dieci” per croce, “Letteratura classica”  per il Vangelo, “Signore del Cielo” per Dio. Fece tradurre e stampare in cinese il Decalogo, il Pater, l’Ave e forse il Simbolo apostolico, e via dicendo.


 Lo stesso Imperatore gradisce i doni di manifattura italiana che Ricci gli offre e lo ospita a corte.


Soprattutto apprezza un grande orologio a pendolo che suscita meraviglia e curiosità nel Palazzo Imperiale. Non solo l’Imperatore gli concede il titolo di “Mandarino” (il funzionario, non il frutto da mangiare).

 

 Finché esattamente tre anni dopo Michele Ruggieri (morto però a Salerno), l’undici maggio del 1610, Ricci compie l’ultimo viaggio. L’Imperatore gli fa fare solenni funerali e gli fa una bella tomba a Pechino, primo fra i cosiddetti occidentali. Tomba che fu profanata durante la rivolta dei “Boxers”, e di cui rimane solo la lastra.


   Ricci non poteva dimenticarsi del paesino in cui era nato «Alle volte – così scrive nel 1599 – mi vanto con questi barbari che sono nato in una terra dove Cristo nostro Signore da molte miglie lontano trasportò la casa che egli e sua madre hebbe in questo mondo (Gentili, pag. 219).»

Come se volesse dire Noi semo bianchi, semo superiori, ci avemo la divinità giusta… vabbé, il mondo è vario.

 E poi anche Gerberto in fondo doveva essere come lui, anzi, se esistesse la reincarnazione, Ricci potrebbe essere papagatto Silvestro secondo reincarnato guarda un po’ in un maceratese, e non dico altro…


   Andiamo alla cartina geografia, finalmente con le due americhe a destra e non a sinistra. Scrive Otello Gentili, da pagina 153 a pagina 158, un intero capitoletto dedicato a…


IL MAPPAMONDO

   Al senso realistico del Ricci costantemente vigile non sfuggì l'importanza del problema cosmografico come piano neutrale d'incontro fra la cultura dell'Occidente e quella dell’Oriente; […]

   Profondamente versato nelle matematiche e nella geografia, il Ricci, fin dai primi mesi del suo soggiorno in Cina, nella modesta residenza di Sciaochin, espose un mappamondo europeo che aveva portato con sé. Benché scritto in lingua europea, il mappamondo interessò molto i visitatori i quali, nella loro semplicità dovuta al lungo isolamento, credevano che i confini del mondo coincidessero con quelli della Cina, e non avevano mai sospettato che esistessero tanti e così grandi Paesi fuori del loro regno.

    Ricci, su preghiera del governatore della città, Uamppan, decise di tradurlo in cinese, e servendosi delle carte e dei libri portati dall'India e degli appunti da lui stesso presi durante il viaggio da Roma a Genova, da Genova a Lisbona, da Lisbona a Goa, passando per il Capo di Buona Speranza, e da Goa a Macao, riuscì a disegnare un mappamondo in lingua cinese, corredato di note e di indicazioni, diviso in meridiani e paralleli, con la linea equinoziale, i tropici e la descrizione dei vari costumi dei popoli.

La prima edizione, venuta alla luce nell'ottobre del 1584, ebbe per titolo: «Carta geografica completa dei monti e dei mari››.

   Con questa opera Ricci fece conoscere alla Cina la vera geografia dell’Europa e all’Europa la vera geografia della Cina. Mentre Copernico e Galileo in occidente impugnavano l’autorità di Tolomeo e le sue antiquate nozioni scientifiche, Matteo Ricci in oriente illuminava il grande Impero dell’Asia con le più ovvie verità cosmografiche, sconosciute ai cinesi. […]

   Ricci ben presto, consapevole delle molte inesattezze che conteneva il suo primo mappamondo delineato in fretta, sentì il bisogno di farne una edizione migliore che poté uscire a Nanchino solo nel 1600. Qui infatti un mandarino «assai grande››, segretario al Ministero degli Uffici Civili, chiamato Uzuohae, lo pregò di rivedere il mappamondo del 1584 e di farvi opportune aggiunte, perché desiderava non solo di stamparlo, ma di fare in modo che le forme di stampa fossero pubblicate per permettere a ciascuno di stamparne gran numero di copie.

   Arrivato a Pechino, il Ricci ne fece una terza edizione nel 1602 in sei quadri, ed una quarta nel 1603 in otto quadri. L’ultima fu l’edizione imperiale eseguita al principio del 1608, la quale però non è altro che la riproduzione in sei quadri dell'edizione del 1602.

Il successo di questi lavori geografici e cartografici fu immenso. […]

 

   È certo che i mappamondi del Ricci ebbero in Cina una larghissima diffusione; il missionario non teme di affermare che quest’opera «fu stampata

molte e molte volte e diffusa per tutta la Cina››.

   Anche l’Europa e il Giappone conobbero vari esemplari di quest’opera cartografica così importante. Presentemente se ne ritrovano solo cinque copie, tutte della terza edizione del 1602.

   Nel 1938, grazie alla munificenza di Pio XI, una copia del Mappamondo Ricciano conservata a Roma presso la Biblioteca Apostolica Vaticana, è stata riprodotta, commentata e tradotta in italiano in una monumentale edizione dal p. Pasquale M. D’Elia S.J., Decano della Facoltà di Missiologia presso la Pontificia Università Gregoriana.

La Reale Accademia d'Italia giudicò la suddetta opera degna di un «encomio solenne›› […]

 

Da OPERE DI MATTEO RICCI a cura di Alfredo Maulo, scovato in rete, tiro fuori altre righe sul mappamondo…

Zhaoqing 1584, Nanchino 1600, Pechino 1602, 1603, 1608, 1609.

E’ il famoso Mappamondo cinese di Ricci, che finirà per avere diffusione in tutto l’estremo oriente. Scrivendone al Generale della Compagnia di Gesù il 20 ottobre 1585, un anno dopo la prima edizione, l’autore ricorda di avergliene già inviata una copia e avverte che essa, “tiene alcuni errori, ma per loro [i Cinesi] è la più vera cosa che tenghino in questa materia”. Aggiunge di aver costruito anche due o tre globi terrestri “pure in lingua e lettera loro”, e che sta pensando ad un globo celeste, ma di non sapere ancora bene come farlo “per non avere qui nessun libro di che mi agiuti” (Lettere, p. 103).

Nella lettera al p. Giulio Fuligatti di un mese dopo, lamenta la stessa mancanza di libri dicendo di avere con sé niente altro che un Clavio ed un Piccolomini (Lettere, p.116). Dal Clavio (In Sphaeram Ioannis de Sacro Bosco commentarius, Romae 1570) e dal Piccolomini (De la sfera del mondo, Venezia 1540) che aveva a Zhaoqing, dunque, ma soprattutto da una memoria di ferro, scaturisce la prima mappa del Ricci. Che è anche la prima raffigurazione del mondo disegnato come una sfera circolare, stampata e pubblicata in Cina. Difformemente dalla concezione eurocentrica delle mappe geografiche europee, la sua aveva la Cina e l’Asia orientale nella sezione centrale.

[…]

Fu nella terza “edizione” Kunyu wanguo quantu (Carta completa delle miriadi di paesi sulla terra), Pechino 1602, che il mappamondo fu “abbellito da disegni di animali marini e terrestri. Di questa edizione Ricci riferisce che uscì una doppia versione, perché gli stampatori, mentre incidevano le matrici di legno per Li Zizhao (lavoro di durata più che annuale), ne incisero di nascosto altrettante per loro. Questa copia clandestina ebbe la ventura di fracassarsi nel crollo della casa in cui era custodita, nel corso della catastrofica inondazione di Pechino del 31 agosto 1607 […]

Di questa edizione esistono alcuni esemplari sparsi per il mondo, provenienti sia dalle matrici di Li Zizhao che da quelle clandestine degli stampatori.

Della 5° “edizione del del 1608, venne realizzata per l’imperatore Wanli (1573-1620), all’epoca trentacinquenne, che ne voleva dodici esemplari in seta per sé e “pare per dare al principe et altri suoi parenti per poner nelle loro sale”. All’imperatore Wanli il mappamondo era stato mostrato da uno degli eunuchi. Se ne era innamorato e aveva ordinato che si trattasse subito la cosa con lo straniero che firmava l’opera: Li Madou, soprannome Xitai. Il quale, insieme al confratello Pantoja,

mirando ad avvicinare l’imperatore per convertirlo, si offrì, con l’indomito spirito di apostolato scientifico che gli era abituale, di stamparne un’edizione straordinaria, addirittura in un solo mese ed a proprie spese. […]

Ma Wanli tagliò corto e fece dire che voleva subito una ristampa dell’edizione in sei quadri che aveva ammirato (la terza, quella del 1602 curata da Li Zizhao), senz’altra fatica o spesa per gli stranieri. “E così - ammette Ricci - si fece molto di prescia [fretta in dialetto marchigiano e ciociaro… si vede che Ricci era di macerata…], e ne stamporno poi là dentro quanti ne volsero”, e senza le cose “a proposito della christianità”, che i due missionari avrebbero voluto aggiungervi nella la speranza di incuriosire l’illustre destinatario.

Da fonti cinesi (citate in caratteri ideografici in Fonti Ricciane, II, p. 474 n.2) sappiamo che, essendo l’imperiale planisfero assai ingombrante ed issato su paraventi tanto grandi da riempire una stanza, “il venerando Ricci”, con l’aiuto di due cristiani, “si rimise al lavoro con grande energia e fece due piccole carte da sospendere a destra del trono”.

In tutta questa storia spicca un’icastica nota del Ricci: “Non vi essendo altro rimedio per parlagliene i nostri, stando egli [l’imperatore Wanli] sì serrato senza conversare con nessuno, oltre che il vedere il suo regno sì piccolo a paragone di tanti altri, può essere che abassi alquanto la sua superbia e si degni più di trattare con altri regni forastieri”.

6. La 6° edizione fu quella del 1609 non consiste in altro che nelle carte dei due emisferi che il Ricci fece stampare in formato ridotto per la collocazione a fianco del trono dell’imperatore.

Nessun esemplare ci resta delle due prime edizioni della planisfera (1584 e 1600) né dei globi costruiti dal Ricci. […]

Dell’edizione del 1602, la terza, curata da Li Zhizao, appassionato di cartografia e già autore di una Descrittione di tutta la Cina, amico e collaboratore del Ricci, in sei sezioni, esistono copie autenticate: Vaticano, Kyoto e Miyagi in Giappone, osservatorio di Bologna (sole le sezioni 1 e 6), collezione privata Ph. Robinson; ma anche copie non autenticate, tra cui quella dipinta a mano ed acquistata da un collezionista anonimo tramite la ‘John. Howell Books’ di San Francisco nel 1958. Molte le prefazioni a questa edizione: oltre a quelle di Ricci stesso e di Wu Zuohai, quelle encomiastiche di Li Zizhao e di altri illustri letterati cinesi suoi amici. Ristampe tardo-secentesche della terza edizione sono alla Royal Geographical Society di Londra ed al Museo di Storia di Pechino.

Della edizione del 1603, la quarta, trasferita in otto grandi sezioni ma sostanzialmente identica a quella in sei sezioni del 1602, si conserva almeno una copia a Shenyang e, che si sappia, un’altra copia in una collezione privata che nessuno sa o osa indicare. In questa edizione, le prefazioni sono quasi tutte nuove, compresa quella di Ricci. Un originale dell’edizione imperiale del 1608 si conserva a Nanchino.

La moderna ripresa degli studi sul Mappamondo di Ricci si deve tutta al sinologo gesuita Pasquale M. D’Elia che, a partire dal 1935, lo studiò a fondo e ne riprodusse un esemplare del 1602 in fac-simile (P.M. D’Elia, Il Mappamondo cinese del Padre Matteo Ricci (terza edizione –Pechino 1602) conservato presso la Biblioteca Vaticana,Cod. Barb. Orien. 150, Città del Vaticano, 1938).

 

  Ecco il mappamondo in una mia brutta scansione di una piccola riproduzione che ho a casa, insieme a altre due immagini.

 


 Ciao a Tutti

Marco Pugacioff

[Disegnatore di fumetti dilettante

e Ricercatore storico dilettante,

Macerata Granne

(da Apollo Granno)

S.P.Q.M.

(Sempre Preti Qua Magneranno)

26/04/’25

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mercoledì 16 aprile 2025

Una macchia nel cielo sopra la presunta Aquisgrana.

 

Una macchia nel cielo sopra la presunta Aquisgrana.

 

Giornata magica ieri!

   Dovete sapere che per il professor Enzo Mancini, avevo già realizzato alcune riproduzioni di foto delle sue nipotine, una piccola arte di cui era anche lui dotato; Bien! In questi giorni gliene ho fatto un altro di disegnino e non posso certo farvelo vedere…

 




   Per sdebitarsi mi ha inviato a mangiare una bella arrabbiata in un ristoro di un rifornimento di metano al di fuori di Morrovalle (Morro ovvero muro, detto a valle, perché un altro – forse più di uno – ve ne è nel camerinese). All’interno di questo veloce ristoro vi è una bellissima foto... del posto? No. Mi ha detto il ragazzo del ristoro che si tratta scorcio nei pressi di San Severino, e che si combina bene con lo scorcio reale che si ammira al di fuori dello stesso ristoro.

 

Al ristoro faccio pure unoschizzo su Cucciolo che vede

il fantasma della Regina 

   Per arrivarci passiamo sotto le mura di Morrovalle presso la Porta Alvaro, dove si era ritrovata una tomba medievale, un fatto già narrato da Mario Latini nei sui libri, tra cui in particolare, il castello di Morro in un giorno lontano

   Enzo ha avuto uno scambio di lettere (su carta) proprio con Latini e mi ha detto che la tomba fu ritrovata – più o meno – nel 1880 (siamo hai tempi di Garibaldi o meglio di Tex).


Porta Alvaro e…

… le mura subito prima con un’entrata antica

 

Testimone visiva fu una signora che all’epoca era una ragazzina e che scomparve ad una bella età, oltre i novanta. Quando Latini era giovane parlò con questa signora e gli rivelò che l’erudito del paese, un professore dell’epoca che conosceva il latino, affermò che quella era la tomba della madre di Ludovico il Pio, una delle più importanti mogli de Carlomagno.

Ovviamente la tomba fu fatta sparire e da altra fonte, sapevo che aveva un pavimento a spina di pesce…

   Al ritorno, con il mio mediocre telefonino, volli fare una foto a San Claudio e ci fermano sotto una certa villa e scattai un paio di foto.

 



   Poi passiamo per il borghetto di San Claudio, davanti al “dormo & faccio colazione”, il B&B Aquisgrana

 


  Insomma, una bella giornata, ma le sorprese non erano finite! E non parlo dell’eventuale fuga di gas, nel palazzo di fronte a dove abito che ha fatto arrivare due autobotti dei vigili del fuoco.

Noo! Prima di mettermi a letto con la mia bambina, la mia micetta Luna, a leggere un libro, rivedo le foto e mi accorgo di qualcosa che non va…

 



Paredolìa? Spiega la treccani in linea «pareidolìa s. f. [comp. di para-2 e gr. εἴδωλον «immagine»]. – Processo psichico consistente nella elaborazione fantastica di percezioni reali incomplete, non spiegabile con sentimenti o processi associativi, che porta a immagini illusorie dotate di una nitidezza materiale (per es., l’illusione che si ha, guardando le nuvole, di vedervi montagne coperte di neve, battaglie, ecc.).»

 

da https://www.firenzetoday.it/cronaca/disco-volante-quadro-palazzo-vecchio.html
 

   Evvabbé, più semplicemente è una macchia nel cielo (come nella madoninna della bottega di Filippo Lippi, una "macchia" che suscita la curiosità del contadino e del suo cagnolino) e non disco volante tipo l’esploratore (scout) tipico del caso amicizia, oppure i dischetti degni del contattista yankee adamski…

Il bello è che stamattina ho provato ad andare in banca (e al solito non funzionava niente, ergo niente soldo cartaceo) e ho trovato Lauretta e Gianluca, gli narro della giornata di ieri e che mi dice Gianluca? Che la figliola, all’incirca domenica notte al ritorno a casa a Cingoli, dopo una festa di laura…

Non si trova davanti a una bella luciona bianca dalla forma inconfondibile di un disco volante!

 

   Vabbé, un altro fenomeno nei cieli (da cui uap) e non un Oggetto Volante Non Identificato… che è meglio resti in cielo, perché sennò da fenomeno aereo diventa un probabile… eh sì, pericolo.

 

Ulteriore nota di discredito sull’ipotesi dell’Aquisgrana Picena? Certo. Discredito ulteriore su strane “macchie” in cielo, ovvio, così sono più contenti quei parrucconi saccenti delle università e dei loro bravissimi leccac…

Già mi immagino i sapientoni a ridere “vedono pure gli ufetti, questi stupidoni!”

Allora cosa dire?

 

     Che mi resta comunque un bel ricordo di una bella giornata da sogno.

 

   Ciao a Tutti

Marco Pugacioff

[Disegnatore di fumetti dilettante

e Ricercatore storico dilettante,

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(da Apollo Granno)

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(Sempre Preti Qua Magneranno)

16/04/’25

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giovedì 10 aprile 2025

Felice Capella e gli affreschi ad Aquisgrana

 

Felice Capella e gli affreschi ad Aquisgrana

 

 

    Recentemente ho trovato un bel trattato del 1934, La letteratura per l’infanzia, di Giuseppe Fanciulli e Enrichetta Monaci Guidotti, che in quell’anno era già scomparsa.

Il testo è proprio del mio argomento preferito, solo che non potevo immaginare cosa avrei trovato nel capitolo dedicato a…

 

 

Nel Medio-Evo.

   «Le tenebre del Medio-Evo» sono un luogo comune, ormai ripudiato dalle moderne conoscenze storiche. Tuttavia non bisogna andare troppo oltre nemmeno con una concezione opposta, come recentemente si è fatto, e vedere quelli che, con altro luogo comune, furono chiamati «i secoli di ferro», solo a traverso gli smaglianti colori della vetrata di una cattedrale. Il Medio-Evo non si definisce con una frase; e se ciò è vero per ogni età, ciò vale specialmente per questa, che fu complessa e varia oltre ogni dire, crogiuolo ove le civiltà antiche e il Cristianesimo si fusero, per dare una nuova concezione e una nuova pratica della vita. E limitandoci al nostro particolare punto di vista, diremo che durante il Medio-Evo il libro dei ragazzi continua ad essere il libro scolastico, e la sua storia, quindi, è intimamente connessa alla storia della scuola. Ora, l’istruzione medioevale mantenne il carattere prevalentemente educativo che aveva quella antica, pur essendo cambiati i fini, con una severità forse anche maggiore di quella un tempo praticata a Sparta e a Roma. Un autore specialista ha scritto molto giustamente a questo proposito «Tale rude età fu particolarmente dura coi piccoli e coi deboli. I piccoli conobbero un insegnamento arido e senza attrattive; vissero nel timore e nelle lacrime; per loro il maestro fu un tiranno, e la scuola una prigione [nota: Tarsot: Les école et les écoliers à travers les âges; Paris, H. Laurent, ed. 1893

   Inoltre l’istruzione -- per l’astensionismo dei primi cristiani, la decadenza della cultura classica, lo scompiglio delle invasioni barbariche – andò sempre più restringendosi nei primi secoli del Medio-Evo, fino al punto da divenire prerogativa quasi esclusiva dei chierici. Si capisce anche troppo bene come in queste condizioni storiche - e aggiungiamo anche le disastrose condizioni economiche del mercato librario - non si potesse nemmeno pensare all’esistenza di una letteratura per i ragazzi.

   Tuttavia, proprio nella prima metà del V secolo, troviamo un libro che si potrebbe ritenere scritto per i ragazzi, almeno secondo le parole poste in principio di esso come introduzione; libro che ebbe grandissima popolarità in tutto il medio-evo, e servì come «testo» per tutti i giovani in tutte le scuole: è il famoso De nuptiis philologiae et Mercurii di M. Felice Capella di Mataura nell’Africa.

    Sappiamo che in quel tempo l’educazione dei giovani si sarebbe ritenuta incompleta, se lo spirito non fosse passato a traverso la conoscenza di  sette discipline diverse: erano queste la Grammatica, la Dialettica e la Retorica, raggruppate sotto il nome comune di trivium; l’Aritmetica, l’Astronomia, la Geografia, la Musica, indicate col nome di quadrivium. Orbene, l’opera del Capella, in nove libri misti di prosa e di versi, è in sostanza un’enciclopedia dello scibile del suo tempo, una specie di esposizione didattica, concepita però in vista di un pubblico speciale; che l’Autore sembra voler designare da principio, quando, dopo alcuni versetti d’Imeneo, fa intervenire a interromperlo il suo bambino, che lo prega di raccontare per lui. Così, dunque, l’insegnamento delle scuole medioevali è raccolto e presentato come in una novella, raccontata da un padre al suo bambino, e immaginata alla languida luce della lucerna nelle lunghe veglie invernali. La favola ha molti particolari graziosi, e assai piacevole doveva riuscire ai giovani lettori il veder personificate tutte le varie discipline della scuola. Tali personificazioni rimasero poi famose per tutto il Medio-Evo, lino al Rinascimento, e diventarono come i tipi canonici nei motivi dell’arte decorativa, sì da ridurre il libro un manuale indispensabile agli studiosi. e agli artisti.

   Il buon Capella, che colori tali figure per rendere più attraente la favola al suo bambino – personificazione di un pubblico di ragazzi – non pensò davvero che le sue descrizioni fantastiche avrebbero costituito il modello delle arti figurative per quasi dieci secoli, quanti ne corrono dall’umile scrittore di Madaura al divino pittore d’Urbino; il quale, nella decorazione della Stanza della Segnatura, dette l’ultima espressione e pose come il suggello a tale serie di immagini.

   Quest’opera eminentemente «istruttiva» non tardò a diventare, come già si è accennato, «libro scolastico», e a unirsi agli altri testi.

Quei testi, anche quando, alla fine del VI secolo, furono quasi ovunque istituite le «scuole parrocchiali», non erano molto numerosi. Si incominciava con l’abbici. Si insegnava l’alfabeto mostrando ai bambini certe tavolette scritte da imitare, e si facevano imparare a memoria le lettere, per mezzo di certe storielle proverbiali, ove il ritmo aiutava ad apprendere contemporaneamente gli elementi della scrittura e della saggezza umana [Cfr. Novati: «Le serie alfabetiche proverbiali» Giorn. Stor. della Letteratura Italiana, vol. III, 1870, p. 337.]  Veniva subito dopo il Salterio, prezioso libriccino contenente alcuni salmi, prima base della cultura religiosa. Seguivano le letture del Donato e dei famosi Distica Catonis; qualche autore classico, brani dell’Antico Testamento, vite di Martiri e di Santi. Gli studi della grammatica si terminavano col Dottrinale di ALESSANDRO DE VILLEDEI, con le favole esopiane in verseggiatura latina, coi versi di PRQSPERO D’AQUITANIA, il Ritmo leonino attribuito a PRUDENZIO, il Liber Eve Columbe, Boezio... tutta una serie di operette divulgatissime, che a poco a poco furono respinte dalla nuova cultura del Rinascimento, con grave rammarico dei «laudatores temporis acti».

 

  Ahò, però che tipo. Gagliardo forte ! Ma chi era? Per saperne di più ho fatto un giro in rete  e a questo punto la prima menzione viene dalla Treccani in linea…

https://www.treccani.it/enciclopedia/marziano-capella-minneo-felice_(Enciclopedia-dell%27-Arte-Medievale)/

 

MARZIANO CAPELLA, Minneo Felice

   Scrittore africano vissuto a cavallo tra i secc. 4° e 5°, autore del romanzo allegorico De nuptiis Mercurii et Philologiae, una sorta di enciclopedia delle arti liberali che costituì un testo base per la cultura medievale e la principale fonte iconografica per la rappresentazione delle stesse arti fino al 15° secolo. […] Dal De nuptiis si evince sia che M. visse a Cartagine, nell’od. Tunisia, dove esercitò l'avvocatura e forse ebbe il proconsolato per l’Africa, sia che scrisse la sua opera, dove si descrive canuto e cinquantenne, fra il 410 e il 439, forse prima del 429. Il romanzo, frutto del decadentismo tardoromano, con forti accenti neoplatonici, permette di cogliere l'estremo tentativo di difesa della cultura pagana e romana e l’intento di salvare la tradizione culturale del mondo antico all’aprirsi della nuova era cristiana. Per l'opera - che si compone di nove libri, di cui solo i primi due dedicati al racconto delle nozze e i rimanenti sette alle arti liberali (Grammatica, Dialettica, Retorica, Geometria, Aritmetica, Astronomia, Musica o Armonia) - si è tramandato il titolo De nuptiis Mercurii et Philologiae poiché anche le arti partecipano alle nozze, indicate quindi come soggetto principale. Il romanzo narra infatti nei primi due libri le nozze tra Mercurio e Filologia, volute da Apollo e approvate alla fine da tutti gli dei. Dono nuziale per la sposa sono appunto le sette arti liberali, che Apollo davanti alla corte celeste introduce una a una, esaltandone le virtù e mostrandone gli attributi; la descrizione di ognuna delle arti costituisce l'argomento dei sette libri successivi.

[…]

il testo ha subìto numerose revisioni e correzioni, a partire da quella operata nel 534

[…]

Il De nuptiis ebbe una fortuna vastissima in tutto il Medioevo, attestata dal gran numero di manoscritti pervenuti

[…]

Divenne infatti il testo fondamentale per l'educazione scolastica fra il sec. 5° e il 9°, adottato come manuale di istruzione di base sia nelle scuole monastiche sia in quelle laiche di tutta Europa, nonostante l'artificiosità del linguaggio e la difficoltà dell'interpretazione. Il notevole vantaggio offerto dal romanzo di M., di cui Gregorio di Tours raccomandava la lettura (Hist. Fr., X, 31; MGH. SS rer. Mer., I, 1, 1937, p. 536), era quello di compendiare le scienze classiche in un'unica opera, fornendo così un comodo strumento di lavoro per gli insegnanti e un’enciclopedia di media consultazione. Il periodo di massima fortuna si registrò fra i secc. 9° e 10°: su poco più di cinquanta codici contenenti tutto il De nuptiis quasi la metà sono infatti databili a quest’epoca. […]  

Ciò avvenne durante il periodo della c.d. seconda rinascenza carolingia, tra il quinto decennio del sec. 9° e l'870-875, ma il carattere tradizionalista di queste scuole mantenne vivo fin entro il sec. 13° l’interesse verso la formazione culturale esemplificata dal De nuptiis. Nelle cattedrali di Laon, Chartres e Auxerre si trovavano infatti nel Duecento le più complete e fedeli raffigurazioni delle arti liberali ispirate all’opera di M. Capella. A partire dal sec. 14° il romanzo conobbe un nuovo periodo di fioritura. La grande fortuna goduta dal De nuptiis è confermata anche dall'elevato numero di opere letterarie che ispirò. Al De consolatione philosophiae di Boezio, al De artibus ac disciplinis liberalium litterarum di Cassiodoro e alle Etymologiae di Isidoro di Siviglia si aggiunsero: il Carmen de septem artibus liberalibus, scritto al tempo di Carlo Magno da Teodulfo di Orléans; nel sec. 11° la Rhetorimachia di Anselmo da Besate; nel sec. 12° l’Elegia de diversitate fortunae et philosophiae consolatione di Arrigo da Settimello e il famoso Anticlaudianus di Alano di Lilla; nel sec. 13° la Bataille des sept arts di Henri d’Andeli e il Mariage des sept arts di Jean le Teinturier, nonché il poema cavalleresco Erec et Enide di Chrétien de Troyes. Alcuni di questi testi descrivono opere d’arte ispirate al De nuptiis, nelle quali si può forse cogliere l’eco della conoscenza, diretta o indiretta, di reali rappresentazioni di questo tipo. La prima testimonianza si trova in Teodulfo di Orléans, che afferma di aver scritto il suo poema ispirandosi a un dipinto su tavola - forse realmente esistito (D’Ancona, 1902, p. 212; Van Marle, 1932, p. 211) - raffigurante il globo terrestre su cui si eleva un albero con alla base e sui rami le arti liberali, la cui rappresentazione mostra la conoscenza del romanzo di M. Capella. Nel sec. 12° l'Historia Karoli Magni et Rotholandi dello pseudo-Turpino (MGH. Pöetae, I, 1881, pp. 544-547) affermava che il modello di tale raffigurazione sarebbe stato un affresco nel palazzo di Carlo Magno ad Aquisgrana, benché Teodulfo si riferisse a un dipinto su tavola, come quello di Costantinopoli descritto dal poeta Manuele File (sec. 14°) come appartenuto ad Alessandro Magno. Le sette arti, in epoca carolingia incluse nel repertorio profano, in età romanica divennero appannaggio quasi esclusivo dell'arte sacra; fa eccezione la descrizione di un letto scolpito con la rappresentazione delle Arti e della Filosofia in un poema composto dall'abate Baldrico di Bourgueil prima del 1107 (Delisle, 1871). Il matrimonio tra Mercurio e Filologia era rappresentato su di un'alba della metà del sec. 10° appartenuta a Eccheardo II di San Gallo (Stammler, 1962), su di un paramento liturgico appartenuto a Enrico, figlio dell'imperatore Federico I Barbarossa, donato nel 1193 da un cardinale al S. Antonino di Piacenza, e infine, all’inizio del sec. 13°, sul tappeto annodato delle monache dell'abbazia di Quedlinburg, di cui rimangono frammenti con le figure di Mercurio e Filologia (Quedlinburg, Domschatz der St. Servatius-Stiftskirche). […]  Il più antico manoscritto miniato superstite del De nuptiis risale agli inizi del sec. 10° (Parigi, BN, lat. 7900A), ma ricalca un modello dei secc. 5°-7° (Heydenreich, 1956, figg. 1-3), e l’unico interamente miniato è quello illustrato nel sec. 15° da Attavante degli Attavanti per il re d’Ungheria Mattia I Corvino (Venezia, Bibl. Naz. Marciana, lat. XIV,35).

 

   La Professoressa Patricia Licini, [professoressa di cartografia medievale] che ringrazio sempre per la sua memoria, la gentilezza e la profonda conoscenza mi scrive…

 

«Io ricordo (però a memoria e dovrei andare a ritrovarlo) che nel testamento di Carlo Magno nell’inventario degli oggetti preziosi nella cappella di Aquisgrana erano elencati due dischi raffiguranti in piano il primo in oro la volta celeste e il secondo in argento il globo delle terre. 

[…]

Ecco, ho ritrovato la citazione. Lo testimoniò Edgardo. Mensae si deve tradurre in "tavole" (geografiche ovviamente in questo caso) e non in "carte" come ho letto in molti studi.»

Non centra niente, ma c'è la metto lo stesso

dai miei libri di Argan


 

 

Degli autori proposti sulla Treccani, ho scovato D’Ancona…

 

P. D’Ancona, Le rappresentazioni allegoriche delle arti liberali nel Medioevo e nel Rinascimento, L'Arte 5, 1902, pp. 137-155, 211-228, 269-289, 370-385

 

 

La fortuna ch’ebbe l’opera di Marciano Capella durante l’età di mezzo sino ai primordj del Rinascimento, oltre che nella letteratura, la possiamo seguire nell’arte.

[…]

   Seguire la evoluzione di un dato tipo artistico limitandosi a studiarne nei monumenti rimasti le forme più tarde, è compito di gran lunga più agevole, che volgersi ad indagarne il nascimento e a scrutarne le origini nel buio de’ tempi remotissimi. Nel primo caso una guida sicura ci accompagna: a una testimonianza preziosa possiamo affidarci, il monumento; nel secondo caso, bisogna ricostruire ciò che il tempo e gli uomini hanno spesso, fatto a gara a distruggere aiutandoci soltanto di tradizioni scritte od orali su quello che è perduto, e talora di semplici ricordanze ed accenni fugaci.

   Salto un po’ dello scritto per arrivare a ciò che mi interessa…

   Bisogna venire all’età carolingia per trovare una figurazione delle Arti evidentemente ispirata agli scritti del retore cartaginese. Il monumento è andato perduto, ma ce ne possiamo fare un’ idea ricorrendo ad un carme, in che viene minutamente descritto. Nella Historia Karoli Magni et Rotholandi, che va sotto il nome di Turpino, [Nota: Turpini, Historia Karoli Magni et Rotholandi, par. xxxi, ediz. Castets, Montpellier, 1880.] ma compilata in realtà solo agli inizj del sec. XII, si legge che il monarca francese fece dipingere le sette Arti nel suo palazzo di Aquisgrana, [Nota: Nella Crònica generai de España si parla delle Arti come esistenti nella tomba di Carlo Magno; vedi Histoire poetique de Charlemagne par Gaston Paris, pag. 370, Paris, 1865.] assieme alle battaglie del vecchio e nuovo Testamento e a quelle da cui era uscito vittorioso in Ispagna. Quanto vi sia di vero in ciò, non si può precisare; ma che le Arti Liberali figurassero in questi Pisa. piedistallo del pulpito di Giovanni Pisano dipinti appare più che probabile, quando si rifletta che fra i componimenti poetici di Teodulfo, [Nota; M. G. P. Lat. I, 544, carni. 46.] vescovo di Orléans, vi ha un lungo «Carmen de septem artibus liberalibus», il quale sembra appunto ispirato da un’opera d’arte realmente esistente. Date infatti le relazioni di amicizia che legavano il Re franco e Teodulfo, qual meraviglia che costui abbia proprio descritto dei dipinti, che doveva avere quotidianamente sotto gli occhi? Il poeta descrive un grande albero ricolmo di vegetazione, sui rami del quale trovansi le Arti.

In basso, proprio alle radici, siede la Grammatica: ha la testa adorna di diadema, tiene in mano la ferula ed il coltello, ed è circondata da Bonus Sensus e da Opinatio. Su due rami più elevati sono la Retorica e la Dialettica: la prima, dalla testa leonina, è in atto di tenere una concione [secondo la Treccani: 1. ant. Pubblica adunanza, assemblea per trattare di cose dello stato (con questo sign. il termine è usato solo in riferimenti storici)], ha in mano l’immagine di una città turrita, ed è provvista di ali; l’altra è intenta a leggere, mentre intanto un serpente cerca occultarsi tra le sue vesti (corpus tamen occulit anguis). Vicino ad essa stanno Logica, Etica e le quattro Virtù Cardinali. L’Aritmetica tiene un registro tra le mani, ed ha presso a sé la Fisica. La Musica è provvista della lira e della vecchia siringa a sette toni. La Geometria ha un compasso nella destra e una sfera nella sinistra (dextra manus radium laeva vehit rotulam). L’Astronomia dall’alto domina sulle altre, ed è rappresentata con le mani sollevate sul capo, in atto di sorreggere il planisferio celeste (huic caput alta petens onerabat circulus ingens — quem manibus geminis brachia tensa tenent). Tale è la rappresentazione descritta da Teodulfo, che il Von Schlosser [Nota: Julius von Schlosser, Beiträge zur Kunstgeschichte, etc., pag. 134, Wien, 1891] esaurientemente ha dimostrato esser tutta ispirata alla tradizione primitiva.

   Tuttavia, che, anche innanzi all’anonimo pittore di Aquisgrana, altri artefici abbian svolto il medesimo tema, lo fanno supporre alcune iscrizioni versificate di epoca anteriore a Teodulfo, rinvenute dal Sirmond [Nota: M. G. P. Lat. I, 629, Append. ad Teodulphum.] in un codice vaticano (n. 341), già forse in alcuno di quei rotuli spiegati, che le figure allegoriche soglion tener fra le mani. Le allegorie delle Arti trovansi un’altra volta nell’età carolingia, assieme alla Medicina e circondate dai principali lor protettori, nelle pitture del Palatinato di Saint-Denis e in quelle del Palatinato di Saint-Gall, eseguite tra gli anni 841 e 872 sotto l’abate Grimold, in compagnia di Sancta Sophia loro madre. [Nota: Von Schlosser, Beiträge cit., pag. 131 e 132.]

 

   Così, pur cercando di sfuggire alla questione di Aquisgrana – dovunque essa sia, ma de certo non in Germania – alla fine si cade sempre lì.

   L’altra sera rivedevo uno spettacolo televisivo sulla Roma Nascosta, sotterranea, e alla basilica di San Giovanni e Paolo al Celio ho rivisto strutture romane che mi hanno ricordato (almeno tre volte più piccole e comunque solo ricordato) le volte a San Claudio, secondo il professor Carnevale l’originale Cappella Palatina.

 

Volte del tempio de Claudio

Non sono una mia immaginazione. Anche in rete ho trovato un’altra foto, da: https://www.romasegreta.it/celio/tempio-di-claudio.html eccola:

 



Sempre volte chiamate a crociera, del convento stabilito all’interno del Tempio di Claudio, su strutture già esistenti dell’antichità.

   Ma che importa. 


Però da:  https://www.caseromanedelcelio.it/le-case-del-celio/  ho visto la bellezza degli antichi affreschi romani – e senza sapere cosa avrei letto il giorno dopo sulla letteratura per l’infanzia e la piccola ricerca seguita poi – posso immaginare, fantasticare come molto probabilmente potevano essere le pitture nel palazzo di Carlomagno.
 

 


 Il Ninfeo e la Sala dei Geni

     E se non si trovano, è solo per un motivo: un certo Barbarossa ha portato via l’impero, lo ha traslato. E qualcun altro, il papato oppure (se l’impero era nel Piceno) il vescovado di Fermo hanno distrutto i vecchi palazzi e con essi gli affreschi.

 

Una volta a Roma Pasquino scrisse:

 

Ciò che non fecero li barbari, fecero li barberini

E peggio de loro fece Barbarossa e li papalini.

 

E io dico, parafrasando Enzo Cannavale sulla pellicola di Monnezza…

 

Sant’angelo in Pontano,

 toglici da tutto ‘sto ginepraio

 

fa chiudere le balorde università,

fa morire l’europa e

ridaci la lira

che creò Carlomagno.

 

Ma poi in fondo, ormai, che importanza ha? Si scrive solo per riempir il tempo e rompere i cosiddetti ai saccenti universitari che sanno sempre tutto e gli altri son solo ignoranti.

 

Evvabbé

  Ciao

 

Marco Pugacioff

[Disegnatore di fumetti dilettante

e Ricercatore storico dilettante,

Macerata Granne

(da Apollo Granno)

S.P.Q.M.

(Sempre Preti Qua Magneranno)

10/04/’25

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